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Un po’ di tempo fa il senatore di Forza Italia Lino Iannuzzi, discutendo in televisione del
presidente Segni, del generale De Lorenzo e dei fatti del 1964, s’è tenuto stretto alla parola golpe
contro chi la voleva sostituire con intimidazione. Poi, visto che i suoi interlocutori lo trattavano
come un anziano sciroccato che sbraita in un autobus affollato, lui per farsi capire ha peggiorato
le cose avanzando un’ipotesi per assurdo. Mettiamo il caso - ha detto a occhio e croce, - che
Berlusconi rischiasse di perdere le elezioni e si immaginasse all’improvviso nelle grinfie di
comunisti in toga e approntasse con qualche generale, dietro le quinte istituzionali, un piano capace di
mettere fuori gioco tutti i suoi oppositori, quello sarebbe un progetto di golpe oppure no?
L’esempio è caduto nel nulla, c’è stato un attimo di imbarazzato silenzio e via. Giustamente del resto.
Di questi tempi queste sono cose che non bisognerebbe dire nemmeno nelle chiacchiere da bar,
nemmeno in un gerontocomio, nemmeno in fila per ritirare la pensione. Perché il premier non dà più
l’idea di un premier olimpico, rassicurante, barzellettiere. Anzi è sempre arrabbiato, ce l’ha con
tutti, con le massaie sbadate, con Confindustria, con i suoi alleati, con i suoi oppositori, con chi
vuole toccargli le sue cose, le televisioni, il Milan, il parlamento, la sua stessa immagine.
Soprattutto teme ogni giorno di più che gli elettori gli vogliano impedire di essere premier sempre.
Com’è noto, infatti, si sente nato per essere primo in ogni circostanza, un winner permanente, e la
minaccia di diventare un perdente lo esaspera e lo preoccupa. Non solo per motivi psicologici,
naturalmente. C’è perdere e perdere, come c’è vincere e vincere, La sua eventuale sconfitta sarebbe
la sconfitta non di un normale politico come quelli d’epoca
liberal-fascista-democristiano-socialista, ma un’altra cosa, come altra cosa è stata la sua vittoria, fenomeni tutti ancora da vagliare.
Vediamo cautamente in che senso. Una volta, a seconda dei momenti attraversati dal nostro
travagliato paese in un secolo e mezzo di stato unitario, gli agrari, gli industriali, i manipolatori
dell’alta finanza passavano soldi con discrezione a schieramenti politici e partiti vecchi e nuovi
perché questi assicurassero un’Italia adeguata ai bisogni della rendita e del profitto. Il mondo
economico, per capirci, riteneva inutile se non volgare e controproducente mettere esplicitamente
piede in parlamento, o lo faceva al massimo con qualche figurina di scarso clamore, a titolo
ornamentale. I ruoli erano chiari. I politici si davano da fare, per quanto era possibile, nell’interesse
di quel gruppo economico o di quell’altro e se c’era da pagare il fio per nefandezze varie toccava
a loro pagare, ognuno correva i suoi rischi.
Berlusconi ha innovato. L’andazzo tradizionale dei rapporti tra politica e capitale è saltato.
Basta con i soldi a partiti vecchi e nuovi, non c’è più da fidarsi. Basta con le manipolazioni e gli
aggiustamenti sottobanco. Basta con la carrieruccia del politico per svago. Il cavaliere s’è
pagato esplicitamente di tasca sua un partito nuovo. S’è pagato esplicitamente di tasca sua il gusto e
la necessità del comando politico. S’è pagato esplicitamente di tasca sua il premierato. S’è
pagato esplicitamente di tasca sua la possibilità di disegnare un’Italia di supporto ai suoi affari,
alla sua prosperità. S’è pagato esplicitamente di tasca sua la tutela della sua attività
industriale, la nomea di lindo imprenditore malvagiamente assediato dai tribunali comunisti, le leggi utili.
S’è pagato esplicitamente di tasca sua lo scintillio sano della sua azienda, così abbagliante che
pare quasi che in Italia non vi siano altri potentati economici e quelli che ci sono languano o
diventino visibili solo grazie a crack e truffe epocali.
Ha insomma alimentato la sua potenza con il
suo potere, la sua apoteosi con un’apoteosi sfarzosamente autosovvenzionata, contando su profitti
a breve e a lungo termine per sé, i suoi amici, i suoi alleati visibili e invisibili. Forse
abbiamo sbagliato, noi che non siamo suoi fan, a insistere soprattutto sul conflitto di interesse. Tanta
prodigalità verso se stesso - questa generosità dell’imprenditore nei confronti del politico e del
politico nei confronti dell’imprenditore, riuniti arditamente ed esplicitamente nella stessa
persona - è qualcosa di più. Il conflitto di interesse presuppone che il premier - e con lui il suo
elettorato - percepisca che tra la funzione della politica e la funzione strapotente del capitale vi
sia una qualche divergenza. Ma non è questo il caso.
Se fosse stato così a Berlusconi non sarebbe mai venuto in mente, nel suo ruolo di imprenditore,
di buttare tanti soldi dalla finestra per stravincere in politica. In realtà il Cavaliere ritiene
non a torto di aver semplicemente saltato certi noiosi passaggi e di fare più funzionalmente quello
che si è sempre fatto con molti sprechi e meno plateali godimenti narcisistici. Di conseguenza
faremmo tutti un passo avanti, forse, se parlassimo non solo di conflitto di interesse ma di
accorpamento delle funzioni. Politica e capitale hanno provato, stanno provando, con Berlusconi, a
lavorare dichiaratamente sotto un unico esplicito comando.
Certo, con pessimi risultati. L’esperimento va perdendo credito a ogni livello della nostra
sgangherata società, in alto come in basso. Follini, Casini, anche Fini sembrano disorientati e
cominciano a chiedersi che ci guadagnano a stare in quei paraggi, visto che Forza Italia sembra ormai la
destra di An e si trova in buona compagnia soltanto con la Lega. Persino quel magmatico centro
senza sinistra che il centrosinistra tende ormai a diventare comincia a domandarsi se è possibile
seguitare a giocare il gioco della politica con un giocatore che ritiene di esaurire in sé ogni mossa
possibile e la gira in zuffa se qualcuno si oppone anche tiepidamente.
Forse allora, senza avallare naturalmente l’ipotesi per assurdo del senatore di Forza Italia
Iannuzzi, è tempo di porsi con chiarezza una domanda: Berlusconi, al punto in cui è arrivato il suo
esperimento, può non diciamo accettare ma concepire l’idea di perdere le elezioni? L’industriale che
in passato sovvenzionava un partito politico si ritraeva in buon ordine e cambiava supporto quando
il suo referente era travolto dagli eventi. La veste indossata e portata ad arte dal corpo celeste
del leader politico riguardava poco o niente l’ossatura economica che lo sorreggeva. Cosa accade
invece quando il gran capitale è anche l’uomo della provvidenza e l’uomo della provvidenza è anche
il gran capitale? Chi esce di scena, chi resta? Chi è sconfitto, chi fa finta di niente?
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