Home > BLAIR? E’ UN MOSTRO - INTERVISTA A KEN LOACH

BLAIR? E’ UN MOSTRO - INTERVISTA A KEN LOACH

Publie le sabato 21 febbraio 2004 par Open-Publishing

Blair? È un mostro. Andrebbe isolato solo perché ha scelto di appoggiare attivamente la guerra di Bush. La Bbc sull’esistenza delle armi di distruzione di massa ha fatto un lavoro corretto

Parla chiaro Ken Loach come sempre è chiaro anche il suo cinema, sia che affronti la recessione nei suburbi operai oppure i modelli sociali contemporanei stritolati da rivendicazioni di identità. Ae Fond Kiss esplora infatti una comunità pakistana nelle sue espressioni più «fondamentaliste», famiglia, tradizioni, religione che mettono le vite sotto controllo e che nelle nuove generazioni finiscono per scontrarsi con esigenze diverse di scegliere liberamente la propria esistenza. E al tempo stesso punta l’obiettivo sulla relazione con l’occidente, diffidenza, razzismi, stereotipi, e uguali fondamentalismi alleati nello stritolare piaceri e esistenze. Il set è ancora una volta Glasgow, a chiudere la trilogia scozzese di cui fanno parte My name is Joe e Sweet Sixteen.

Qualcuno gli rimprovera già un eccesso di ottimismo, i ragazzi protagonisti di Ae Fond Kiss, lui pakistano incapace di ribellarsi a padre e madre, escluso dalla comunità perché osa scegliere, lei scozzese, insegnante di musica buttata fuori dalla scuola cattolica in cui insegna perché convive con un uomo per di più musulmano riescono nella loro faticosa rivolta. O un’eccessiva rigidità di rappresentazione, da sguardo comunque «altro» pensando ai Buddha delle periferie di Hanif Kureishi o ai Denti bianchi di Zadie Smith. Lì però eravamo negli anni Ottanta, oggi - e lo sostiene lo stesso Kureishi - c’è un’inquietudine diversa. Ci dice Atta Yakub, che sullo schermo è Casim, origini pakistane come il suo personaggio, che del film ama proprio questa prospettiva «ottimista». «Mi piace come Loach racconta lo scontro che c’è fra la nostra cultura e la società in cui viviamo. Il mio personaggio all’inizio non ha il coraggio di ribellarsi. Lo conquista un po’ alla volta, anche grazie al rapporto d’amore che vive con Roisin. I miei genitori sono abbastanza diversi da quelli del film eppure hanno faticato molto a confrontarsi coi nostri cambiamenti».

Anche per questo, dice Loach, al centro del film ci sono i ragazzi della seconda o terza generazione. Raccontano ancora Loach e Paul Laverty, suo complice anche stavolta (firma la sceneggiatura) che il titolo Ae Fond Kiss è un verso in una ballata di Robert Burns, poeta scozzese del 700, la suona al piano una delle allieve di Roisin all’inizio del film e vuole dire «un tenero bacio». Ken Loach lo incontriamo al Filmmuseum insieme all’inseparabile Paul Laverty. Gentile, disponibile nei tempi stretti di un festival, lucidamente critico nel maneggiare la materia del film per entrare nel mondo, a chi gli chiede di Blair risponde secco: «è un mostro».

Cosa pensa di tutta la vicenda Blair-Bbc? Lei, tra l’altro, ci ha anche lavorato tanto tempo fa alla Bbc...

Ho l’impressione che faccia parte di una strategia studiata per distruggere la Bbc e che più in generale punta a un controllo dell’informazione e dei media. La Bbc su quanto riguarda l’esistenza delle armi di distruzione di massa ha fatto un lavoro molto corretto. Lo prova il fatto che la maggioranza degli inglesi non crede a Blair, pure se è uscito da tutta questa storia vittorioso. E alle prossime elezioni rischia di trovarsi contro una parte del suo stesso partito. Blair è una persona orribile, andrebbe isolato solo per il fatto che ha scelto di appoggiare attivamente Bush nella sua guerra. Veniamo a «Ae Fond Kiss». Come ha lavorato con la comunità pakistana?

Abbiamo passato un po’ di tempo cone le persone, ci abbiamo parlato... erano tutti molto disponibili. Abbiamo ascoltato tantissime storie, la maggior parte molto dure, però dopo Sweet Sixteen non volevamo proporre un’altra situazione tragica. Quindi se lì c’era la madre che non poteva esserlo, stavolta abbiamo pensato a una famiglia «normale» dentro alla comunità pakistana che sta affrontando una serie di cambiamenti. Le scelte dei figli più giovani li costringono a guardare anche se stessi in modo diverso.

C’è stato qualcosa in particolare che l’ha spinta verso questa storia?

Molte cose, a cominciare dal fatto che mi sembrava la storia giusta per completare la «trilogia scozzese». Ma soprattutto dopo l’11 settembre insieme a Paul sentivamo l’esigenza di rompere gli stereotipi che sono cresciuti intorno ai musulmani... Erano tutti assassini potenziali, rappresentavano l’asse del male, il cuore del terrorismo. Intorno a questo c’è stata una continua manipolazione delle notizie e delle immagini che è diventata enorme prima e durante la guerra in Iraq. Basta pensare che i primi giorni dopo l’11 settembre chiunque portasse un turbante in testa veniva aggredito o insultato. Anche per questo non ho voluto mettere al centro della storia una donna, c’era il rischio di concentrare tutto su un aspetto, ho scelto invece una famiglia che vive in modo diverso per ogni suo componente un conflitto di identità tra le tradizioni pakistane e la società in cui vive. Chi arriva dal Pakistan o da qualsiasi altro luogo in Inghilterra deve imparare la lingua, cercare lavoro, affrontare l’ostilità di molti inglesi e l’ipocrisia delle leggi. Si scagliano contro gli immigrati però il lavoro «clandestino» lo accettano, permette di avere mano d’opera a basso costo e gente che lavora a meno di due euro al giorno senza nessuna garanzia. In occidente siamo in un’epoca di fondamentalismi politici...

Abbiamo uomini politici che pretendono di controllare il mondo e professano apertamente il loro fondamentalismo. Bush negli Stati uniti ha dato sempre più spazio ai reazionari religiosi e Blair si professa cristiano. In generale mi sembra che la religione venga posta al centro della vita politica. Anche la Francia di Chirac: la discussione sul velo non mi convince. È chiaro che in linea di principio siamo tutti d’accordo su una scuola laica però mi sembra che in quel caso il divieto sia più una scelta politica che educativa. Non si può ignorare il fatto che anche in Francia esistono diverse categorie di cittadini. In questi giorni stiamo lottando per una famiglia curda che rischia di essere espulsa dalla Germania. La madre finirebbe in prigione e i bambini non hanno mai visto la Turchia. Erano arrivati in Germania, poi sono stati espulsi e sono passati senza documenti in Inghilterra. Li hanno presi come modello di lotta all’immigrazione «clandestina», il marito è stato rimandato in Turchia, la moglie e i bambini chiusi in un centro. Ora si trovano a Colonia e la loro è una storia comune a molte famiglie.

Il Manifesto