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BORGHESIA-SINISTRA E PACIFISTI

Publie le domenica 19 settembre 2004 par Open-Publishing

A volte viene da pensare che i padroni siano più lungimiranti e progressisti di tanta parte della sinistra. "Occorre valutare seriamente se il ritiro delle truppe italiane sia una manifestazione di antiamericanismo preconcetto, o una mossa che ha le sue giustificazioni nella necessità di prendere le distanze da Bush, naturalmente ricercando le premesse per stabili­re legami di nuovo tipo con gli Stati Uniti.

Purtroppo la questione serve soltanto da pretesto ai litigi interni del centro sinistra, mentre la destra la ignora. Questa è l’Italia!": sentirselo dire da Il Sole 24 ore fà riflettere. Intanto a Falluja le bombe continuano a cadere, a Ramadi l’esercito americano ha circondato con il filo spinato l’intera città (50 anni fà il mondo intero gli avrebbe dato dei nazisti), in Palestina non passa giorno che donne e uomini, civili e ragazzi vengano barbaramente uccisi, le loro case spianate.

E nei prossimi giorni, annuncia il sempre ben informato Il Foglio di Giuliano Ferrara, i massacri nel triangolo sunnita aumenteranno (l’articolo è riportato di seguito), anche se i più maligni sussurrano che tale offensiva sarebbe posticipata a dopo le elezioni americane: gli analisti pensano che radere al suolo un’intera città potrebbe compromettere la campagna elettorale di Bush (e poi ci lamentiamo se il mondo arabo ha il "difetto" dell’anti-occidentalismo).

Franchi


PERMESSO DI CACCIA "NON SI ESPORTA LA DEMOCRAZIA"
di Napoleone Colajanni (Il Sole 24 ore del 19 settembre 2004)

Malgrado le apparenze, nei fatti della politica interna c’è una monotonia di fondo. I litigi sono sempre eguali in tutt’e due gli schieramenti, le novità come le astensioni dell’opposizione su un articolo di legge talmente di facciata, le dichiarazioni che la Rai ci ammannisce in perfetta par condicio talmen­te stucchevoli, che si va invano alla ricerca di qualcosa da prendere in considerazione.

Nel mondo non è così, vien fatto di dire purtroppo, perché i segnali di un aumento delle tensioni, in politica e nell’economia mondiale, aumentano continuamente. Guardiamo alla condizione in cui si trova Vladimir Putin. Come ho già scritto, non ha altra alternativa se non quella di fronteggiare la situazione nel Caucaso del Nord con le proprie forze, che peraltro sono scarse e inefficienti. La trattativa politica con i ceceni porterebbe allo sfascio tutta la regione, ma c’è da sperare che la minaccia di intervento preventivo abbia qualche effetto; se dovesse diventare realtà l’intervento provocherebbe un incendio in una regione critica per l’equilibrio mon­diale. La sola cosa seria che può fare è rendere più efficace la repressione. Chi dall’estero lo critica non si rende conto di ciò. Che il rafforzamento del suo po­tere sia un pericolo per la democrazia è chiarissimo, ma ciò non giustifica le intromissioni in cui c’è una vera e propria escala­tion, con intervento da par­te delle massime autorità di politica estera della Commissione europea, avallate da Romano Prodi.

Mi ripeto ancora una volta, ma il concetto che ci siano delle forze autoriz­zate a tutelare la democrazia nel mondo è estrema­mente pericoloso, tanto più se la valutazione della condizione della democra­zia in un Paese è affidata alla stessa autorità. Non ci sono incarnazioni del bene o del male, Paesi benedetti da Dio e imperi del male, come credeva il povero Re­agan, ma soltanto Paesi che hanno avuto una loro storia di cui occorre tener conto.

In Russia la democrazia non è mai esistita. Lenin non rovesciò un regime demo­cratico ma un governo di imbroglioni senza alcuna presa effettiva nel Paese, come si vide quando l’unica resisten­za interna venne da militari nella guerra civile. La democrazia non si esporta, non è fatta di istituzioni create a tavolino, e perché possa mettere radici nella coscienza e nel patrimonio ideale e culturale di un popolo che non l’ha mai conosciuta occorre tempo, molto tempo.

Ciò dovrebbe indurre a riflettere su quel che è in gioco nelle elezioni americane. Se vincesse Bush si dimostrerebbe che la teoria dell’esportazione della demo­crazia avrebbe un consenso popolare nel Paese che la sostiene e la applica. Non credo ci voglia molto per comprendere che ciò avrebbe un effetto destabilizzante sull’equilibrio mondiale. Non c’è quindi da meravigliar­si se l’opinione pubblica mondiale, anche dove i governi sono pedissequamente allineati sulla posizioni di Bush, preferirebbe che questi perdesse. Ma dato che il mondo non vota, ciò comporta che si deve cominciare ad elabo­rare una politica che possa tener conto di una vittoria dei repubblicani negli Stati Uniti.

In questo quadro occorre valutare seriamente se il ritiro delle truppe italiane sia una manifestazione di antiamericanismo preconcetto, o una mossa che ha le sue giustificazioni nella necessità di prendere le distanze da Bush, naturalmente ricercando le premesse per stabili­re legami di nuovo tipo con gli Stati Uniti. Purtroppo la questione serve soltanto da pretesto ai litigi interni del centro sinistra, mentre la destra la ignora. Questa è l’Italia!


Il Foglio del 18 Settembre 2004

"PERCHE’ BAGDAD NON E’ SAIGON"

SBLOCCARE IL FRONTE SUNNITA

STATI UNITI E GOVERNO IRACHENO CONCORDANOL’OFFENSIVA SU FALLUJA

Roma. "I bombardamenti su Fallujah sono stati concordati con il governo iracheno". In queste poche parole del comando militare americano c’è la grande novità dell’offensiva che è in corso da giorni nella città più ribelle del "triangolo sunnita" e che soltanto nella giornata di ieri ha provocato una sessantina di morti. Gli elicotteri americani sparano sui covi degli uomini di Musab al Zarkawi i quali, come sempre fanno i terroristi arabi, anche in Palestina, hanno buona cura di collocarsi in mezzo alla popolazione civile (a Nassiriyah spararono sul contingente italiano, per una notte, arroccati in un ospedale), oppure in moschee, spesso circondate da abitazioni. Anche vittime innocenti dunque, ma, secondo i bollettini americani, sono stati molti gli obiettivi militari colpiti. Nel giorno in cui la Iraqi Airways annuncia la ripresa, dopo 14 anni, dei suoi voli civili regolari da Baghdad ad Amman e a Damasco, e l’ennesimo attentato fa 13 vittime - unicamente e volutamente civili - nella centrale Avenue al Rashid, si consolida dunque la netta escalation militare americana non soltanto su Fallujah, ma anche su Ramadi e nella zona di Haifa Street, sempre a Baghdad. Non è ancora evidente se questo crescendo porterà a uno scenario come quello che si è già visto il mese scorso a Najaf, ma molti indizi fanno pensare a un esito simile per sbloccare un fronte sunnita in cui gli Stati Uniti sono sempre più in palese difficoltà.

Ad aprile Paul Bremer e la Coalition Provisional Authority avevano preso contemporaneamente l’iniziativa sia contro gli sciiti di Moqtada Sadr sia contro i sunniti di Fallujah (dove i "resistenti" avevano linciato quattro civili americani). Si erano così aperti due fronti: quello sciita aveva visto Moqtada "arroccarsi" a Kufa e a Najaf, ma vedeva un sostanziale appoggio all’azione americana non soltanto del Consiglio nazionale iracheno, ma anche, e con sempre più netta evidenza, delle autorità religiose sciite dell’ayatollah Ali al Sistani. Questi lasciò che gli americani e le forze militari irachene facessero il "lavoro pesante", se ne andò diplomaticamente a Londra e tornò, con eccezionale tempismo, giusto in tempo per farsi consegnare da Moqtada la dichiarazione di resa. Oggi il fronte sciita è relativamente calmo e Moqtada si prepara a quelle elezioni che aveva sempre irriso.

Tre scenari inquietanti

Invece, in campo sunnita, gli Stati Uniti verificarono subito di non poter contare né sull’appoggio del Consiglio nazionale iracheno né su quello di alcuna autorità religiosa. Adnan Pachachi, loro candidato alla presidenza dell’Iraq e Ghazi al Yawar, che divenne poi presidente, si scagliarono contro il generale Ricardo Sanchez e i suoi uomini. Frontale, naturalmente, lo scontro con il comitato degli ulema sunniti e con i loro portavoce, già imam del regime baathista, Abdel Salam Kubaisi, ambiguo mediatore d’ostaggi. Si creò così nel microcosmo di Fallujah quella classica situazione "vietnamita" che caratterizza spesso l’azione militare americana: consistente uso della forza, non sostenuto però dal controllo del quadro politico a cui segue una mezza ritirata che lascia una situazione sul campo peggiore a quella di partenza. Il 30 aprile, constatata la debolezza politica delle operazioni, Paul Bremer fece infatti sospendere i bombardamenti e cessò l’assedio, affidando al generale di Saddam Hussein, Jasim Mohamed Saleh, la città. Una volta verificato che questi si era posto a capo della ribellione, lo sostituì, il 5 maggio, con Mohammed Latif, ex capo tei servizi del rais, i cui soldati iracheni, in quattro mesi, non hanno fatto che vendere armi ai ribelli, quando non si sono uniti a loro. Una nuova, tragica "vietnamizzazione" fallita che costringe oggi gli americani a prendere atto che lo stallo su cui si sono attestati nel "triangolo sunnita" ha fatto soltanto il gioco dei terroristi. Il contagio di Fallujah si è addirittura riversato su Baghdad e negli ultimi mesi la situazione nella capitale è nettamente peggiorata. E’ in questo contesto che il National Intelligence Estimate ha delineato tre scenari futuri inquietanti, il più grave dei quali parla esplicitamente di "guerra civile". A 40 anni esatti di distanza, il documento, in certe sue parti, pare copiato frase per frase da quelli che la Cia e vari organismi inviavano da Saigon nel ’64 a Lyndon Johnson, Dean Rusk e Robert McNamara. Oggi come allora gli Stati Uniti devono decidere se impegnarsi sul serio o continuare a traccheggiare. L’enorme differenza rispetto alla situazione di Saigon è che a Baghdad tutte le forze politiche nazionali sono al fianco degli americani.