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Cala Kerry, Bush ringrazia

Publie le lunedì 6 settembre 2004 par Open-Publishing

di Fabio Malagnini

Adesso per John Kerry sarà tutto più difficile. Su questo concordano più o meno tutti i commentatori politici negli Usa, dopo che il sondaggio commissionato da Time Magazine, all’indomani della convention repubblicana, ha assegnato al candidato democratico il 41% dei consensi contro il 52% del presidente in carica e il 3% di Ralph Nader. Malgrado l’approssimazione del campione (attorno al 3-4% per ciascun contendente) il dato segnala un divario pesante e assai arduo da rimontare in meno di due mesi. Difficile, anche, considerando che l’efficiente macchina di fund raising allestita nei mesi scorsi attorno a Kerry (con oltre $186 milioni raggranellati al 30 giugno: cinque volte più di qualsiasi precedente candidato democratico) oggi si avvicina alla riserva e, sulla distanza, non può realisticamente competere con le risorse a disposizione del clan Bush . In questo momento i democratici hanno lanciato una campagna televisiva da $45 milioni, spendendo più della metà del loro budget residuo. Ma per dire che cosa ?

La stagione delle convention si è rivelata devastante per Kerry rimasto, fino all’inizio dell’estate, in posizione di sostanziale pareggio in quasi tutti i sondaggi o, addirittura, in leggero vantaggio sull’onda emotiva suscitata dalle rivelazioni di Abu Ghrayb. A luglio, in un paese ossessionato dalla sicurezza e dalla minaccia del terrorismo, Kerry ha cercato di accreditarsi sul terreno più congegnale a Bush (ma evitando di attaccarlo frontalmente): quello della sicurezza nazionale. Presentandosi come un "Presidente di guerra" di buoni sentimenti, un eroe del Vietnam stimato dagli ex commilitoni, è stato facile bersaglio della campagna-spazzatura dei sedicenti "Wift Boat Veterans for Truth" - un gruppetto di veterani spuntato apposta per accusarlo di codardia, millanteria e alto tradimento pacifista. Così Kerry ha passato buona parte dell’estate a rintuzzare un attacco plateale (ricondotto all’entourage di Bush ma fuori tempo massimo) e a difendere il suo onore patriottico. In pratica, a parlare di Vietnam anziché di Iraq, come ha osservato il "passionario" Michael Moore e come oggi ammettono anche alcuni senatori democratici. Un errore che John Kerry rischia di pagare doppiamente caro: l’esercito emerge infatti come un pezzo importante (e popolare) della società americana, tradizionalmente non militarista, una specie di "terzo settore" sempre più attivo anche nei servizi di ambito civile, non necessariamente legati alla sicurezza.

L’attacco orchestrato da Karl Rove, la ’mente’ della rielezione di Bush, ha avuto successo e si è dispiegato pienamente la settimana scorsa durante la convention del Great Old Party a new York. Con tutta la sua potenza. Come osserva Joe Kein su Time : " Va osservato che, dopo una lunga e inconsistente recitazione di un’illusoria politica interna, il discorso di accettazione di George W. Bush si è ravvivato quando il presidente ha infilzato la sciocca pretesa di John Kerry di essere il candidato "dei valori conservatori" (...) Il messaggio è stato chiaro: sapete da che parte sto io". Per Bush non è stato difficile ridicolizzare il suo rivale che, anziché affondare l’attacco aproffittando delle evidenti difficoltà dell’avversario, ha scelto di fargli concorrenza, avallando le sua agenda e riconoscendo implicitamente la legittimità della guerra in corso (malgrado il 95% dei delegati democratici si dichiari contrario all’invasione dell’Iraq, a differenza del loro candidato).

Un errore che gli strateghi repubblicani non avrebbero mai fatto. Il loro summit ha potuto offrire il volto più conciliante e presentabile del partito (Schwarzenegger, Bloomberg, Giuliani), lasciando che ad affondare la lama fossero i battitori liberi come Zell Miller (che accusa Kerry di prendere ordini direttamente dall’Eliseo) o l’efficiente opera di demolizione dell’ex democratico John McCain, uno che Kerry avrebbe voluto addirittura nella sua squadra.
Sotto la regia di Rove, ogni tessera del castello repubblicano finora è andata al proprio posto. I leader dei fondamentalisti evangelici - pari negli Usa a un bacino di consenso di circa 30 milioni di elettori - hanno potuto sfogarsi nei dibattiti a porte chiuse degli alberghi e - perché no ? - vagheggiare anche uno stato integralista cristiano. E, lì accanto, lobbisti probusiness non meno fondamentalisti hanno potuto assicurare ai giornalisti perplessi che il doppio deficit americano (pubblico e commerciale) non è affatto strutturale. E così via.

Nell’entourage democratico, assieme a inviti più o meno velati a "mostrare gli attributi" rivolto al candidato Kerry (dopo che l’ex Terminator gli ha dato non troppo velatamente della "femminuccia"), e alla crescente irritazione per servizi che lo ritraggono sorridente mentre fa windsurfing con la famiglia, sembra emergere la convinzione che, persa una volta per tutte la partita della sicurezza e della politica internazionale, non resti che buttarsi anima e corpo sull’economia e l’agenda domestica. Ma si può veramente parlare oggi di America senza parlare di guerra ? Pochi al di fuori degli Stati Uniti sono disposti a crederlo, ma John Kerry, è molto probabile, ci proverà. Certo, gli spunti non mancherebbero, a cominciare da Medicare , il sistema sanitario nazionale, che lascia decine di milioni di americani privi di copertura medica, costa quasi il doppio di quello europeo e, in sostanza, piace solo all’industria farmaceutica americana (un altro comparto tradizionalmente protetto dai repubblicani, dopo energia e difesa), finanziata con i soldi dei contribuenti.

A New York, Bush ha lanciato, senza neppure troppa convinzione, l’"America dei proprietari", ennesima parafrasi, in chiave liberista, di uno slogan keynesiano. In pratica si evoca la Great Society" di Lyndon Johnson - un’America più equa perché più affluente - per proporre più o meno il contrario: un’America che affida la maggioranza dei non ricchi all’autoimprenditorialità (o "arte di arrangiarsi", come dicono dalle nostre parti). La ricetta repubblicana, naturalmente, non dice chi pagherà i conti pubblici, i costi imperiali, la progressione di consumi che appaiono insostenibili e oggi aggravati dall’imminente fuoriuscita di decine di milioni di baby-boomer dal ciclo lavorativo. Ma i democratici hanno poco da illudersi: fino alle elezioni di novembre, la Fed eviterà che i risparmiatori e i titolari di fondi pensioni si agitino troppo e che la domanda se la ponga per tempo anche la maggioranza degli americani. Cosà dirà allora John F. Kerry ?

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