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L’autrice di ’No Logo’ svela il dossier Baker. È inviato speciale di Bush per
il debito di Baghdad. Ed è socio di un gruppo che reclama quei soldi
di Naomi Klein
Quando, il 5 dicembre 2003, il presidente Bush nominò l’ex segretario di Stato
James Baker III inviato speciale del governo degli Stati Uniti per la questione
del debito in Iraq, la definì "una nobile missione".
All’epoca, era preoccupazione diffusa che i molteplici affari e rapporti di lavoro
di Baker nel Medio Oriente potessero compromettere tale missione che consisteva
nell’incontrare i vari capi di Stato e persuaderli a dimenticare i debiti che
l’Iraq aveva contratto con loro. Particolare preoccupazione destavano i rapporti
di Baker con il Carlyle Group, merchant bank e titolare di appalti con la Difesa.
Di quel gruppo Baker è consigliere anziano nonché socio azionista, con una quota
di partecipazione stimata intorno ai 180 milioni di dollari.
Fino a ora non esistono prove concrete che le loyalties di Baker siano state frazionate, o che in qualità di inviato del presidente, posizione peraltro non retribuita, Baker abbia usato il proprio potere per beneficiare clienti azionisti o imprenditori. Tuttavia, secondo alcuni documenti ottenuti dal settimanale ’The Nation’, questo è esattamente quanto sarebbe accaduto. Sfruttando l’influenza di Baker come inviato per il debito d’Iraq, e utilizzandolo come strumento cruciale su cui far leva, il gruppo Carlyle avrebbe cercato di ottenere dal governo del Kuwait un investimento straordinario di un miliardo di dollari.
L’affare segreto comporta una complessa operazione di cessione di proprietà per 57 miliardi di dollari in crediti iracheni insoluti. I soldi che l’Iraq deve a tutt’oggi al governo del Kuwait saranno girati a una fondazione creata e controllata da Consorzio, i cui attori principali sono il gruppo Carlyle, il gruppo Albright (capitanato da un altro ex segretario di Stato, Madeleine Albright), e molti altri noti istituti di credito. L’accordo prevede anche che il governo del Kuwait conceda un anticipo di 2 miliardi di dollari da investire in un fondo privato concepito da Consorzio, la cui metà andrà a finire nelle tasche del gruppo Carlyle. ’The Nation’ ha ottenuto copia del documento confidenziale di 65 pagine inviato a gennaio da Consorzio al ministero degli Esteri del Kuwait, dal titolo ’Proposta di assistenza al governo del Kuwait per la tutela e il realizzo dei crediti iracheni’, nonché il carteggio tra le due parti.
In una lettera datata 6 agosto 2004, Consorzio informa il ministero degli Esteri kuwaitiano che i debiti insoluti dell’Iraq "sono in imminente pericolo". In un’altra lettera si lancia l’allarme su come il mondo intero sia ormai dell’opinione di condonare il debito, come dimostra "la nomina del presidente Bush dell’ex segretario di Stato James Baker quale inviato per i negoziati sullo sgravio del debito iracheno".
La proposta di Consorzio spiega per filo e per segno la minaccia: non solo è poco probabile che il Kuwait riesca a intascare i 30 miliardi di dollari di cui l’Iraq gli è debitore, ma anche i 27 miliardi di dollari che l’Iraq deve al Kuwait come danni di guerra per l’invasione del 1990 "potrebbero rientrare fra le perdite di questa opera intrapresa degli Stati Uniti ".
A dispetto di questa minaccia, Consorzio offre i suoi servigi. Nella proposta si afferma che Consorzio può contare su un lungo elenco di ex politici di primo piano, americani ed europei (lista che include lo stesso Baker) che hanno "rapporti personali con i detentori dei pacchetti nell’ambito dei negoziati previsti" e che hanno la possibilità di "mettersi in contatto con i personaggi chiave che prendono decisioni negli Stati Uniti e nelle più importanti capitali". Se il Kuwait accetta di cedere crediti alla fondazione creata da Consorzio, questi userà le succitate conoscenze personali dei suoi rappresentanti per persuadere i leader mondiali che l’Iraq deve "massimizzare" i propri debiti nei confronti del Kuwait il quale potrà recuperare il prezzo d’acquisto del debito tra 10-15 anni. Più soldi Consorzio riuscirà a far pagare all’Iraq durante questo lasso di tempo, più soldi riscuoterà il Kuwait, e il Consorzio intascherà una commissione superiore al 5 per cento.
L’obiettivo di massimizzare i versamenti del debito iracheno è in diretto contrasto con l’obiettivo di politica estera americano di ridurre drasticamente i debiti dell’Iraq. Secondo Kathleen Clark, professore alla facoltà di Giurisprudenza della Washington University e fra i maggiori esperti di etica e regole di governo, Baker è oggetto di un "classico conflitto di interessi. In questa operazione Baker è presente su due fronti: da un lato dovrebbe rappresentare gli interessi degli Stati Uniti, dall’altro è partner di Carlyle che vuole essere pagato per aiutare il Kuwait a recuperare i crediti che ha con l’Iraq".
Dopo aver esaminato i documenti, la Clark li ha definiti "straordinari" e ha aggiunto: "Carlyle e le altre società stanno sfruttando l’attuale posizione di Baker per cercare di portare a termine con il Kuwait un affare che finirà per indebolire gli interessi del governo americano".
I documenti sono stati mostrati anche a Jerome Levinson, avvocato internazionale ed esperto di corruzione politica e aziendale all’American University, il quale ha definito l’operazione "una delle più grandi truffe di tutti i tempi". Levinson ha poi spiegato: "Consorzio sta dicendo al governo kuwaitiano: ’Guarda che noi siamo l’unica possibilità che ti è rimasta di convertire in denaro una sostanziale parte del credito. Perché? Per via di chi siamo e di ciò che sappiamo’. Si tratta di un tentativo di influenza meschino e grossolano".
Dai documenti confidenziali Consorzio sembra essere assolutamente consapevole della delicata posizione che Baker ricopre sia in qualità di partner di Carlyle che di inviato del presidente Bush. Subito dopo aver elencato tutte le importanti personalità associate al gruppo Carlyle (tra cui George Bush padre, l’ex primo ministro britannico John Major e lo stesso Baker) nel documento si afferma: "Il campo di azione di queste persone e il ruolo strumentale che esse possono giocare nell’elaborazione di strategie è ora più limitato (.) sia in virtù della recente nomina del segretario Baker a inviato del presidente americano per il debito internazionale, sia in virtù del bisogno di evitare un evidente conflitto di interessi (in corsivo nell’originale, ndr)". Tuttavia, il documento prosegue affermando che tutto questo presto cambierà: "Abbiamo ragione di credere che quando il mandato del segretario Baker scadrà, il gruppo Carlyle e tutti i personaggi di spicco a lui associati saranno ancora una volta liberi di giocare un ruolo decisivo".
L’Iraq è il paese più fortemente indebitato del mondo. I suoi debiti pubblici ammontano a circa 200 miliardi di dollari, cifra che include il denaro necessario per la ricostruzione dei danni causati dalla guerra intrapresa da Saddam Hussein. Se l’Iraq fosse costretto a pagare anche soltanto un quarto di questa cifra, il suo debito ammonterebbe ancora a oltre il doppio del suo Pil annuale, il che minerebbe seriamente la sua capacità di pagare per la ricostruzione o di destinare aiuti umanitari ai propri cittadini devastati dalla guerra. Come ha detto Bush lo scorso dicembre in occasione della nomina di Baker: "Questo debito compromette le prospettive di salute politica e di prosperità economica dell’Iraq a lungo termine".
Ma i critici esprimono seria preoccupazione sulla scelta di Baker per un compito così cruciale. Per esempio, uno dei maggiori creditori dell’Iraq è il governo dell’Arabia Saudita. Il gruppo Carlyle fa grossi affari con la famiglia reale saudita; così come anche Baker Botts, lo studio legale di Baker, che al momento difende la stessa famiglia reale saudita in una causa civile contro i familiari delle vittime dell’11 settembre che le hanno fatto causa. Il 12 dicembre scorso il ’New York Times’, vista l’entità dei potenziali conflitti di interessi, ha ritenuto opportuno pubblicare un editoriale che invitava Baker a dare le dimissioni dal suo incarico all’interno del gruppo Carlyle Group e dello studio legale Baker Botts, allo scopo di preservare l’integrità della sua posizione di inviato del governo Usa. La Casa Bianca ha ignorato le richieste fatte a Baker di scegliere tra l’essere il rappresentante del presidente o il rappresentante degli investitori della Carlyle. "Non leggo questo genere di editoriale", ha detto il presidente Bush.
Quando Baker fu nominato inviato, il Consorzio non aveva ancora sottoposto il progetto sul piano che intendeva seguire per assicurare al governo del Kuwait il pagamento del debito per la ristrutturazione dell’Iraq. Questo vuol dire che il gruppo Carlyle avrebbe potuto farne uscire Consorzio appellandosi al conflitto d’interessi dovuto alla nomina di Baker. È avvenuto l’opposto: la Carlyle non si è ritirata e il Consorzio è andato avanti utilizzando il potente nuovo ruolo di Baker per strappare un accordo ai kuwaitiani, ambizioso e lucrativo in maniera sconcertante.
Secondo Kathleen Clark, le attività del Consorzio potrebbero essere in violazione degli statuti regolamentari e criminali che proibiscono "ai funzionari del governo di partecipare agli affari del governo quando abbiano un interesse finanziario, incluse le questioni che riguardano aziende delle quali il dipendente è un socio". In un documento consegnato al giudice Alberto Gonzales da John F. Haris, managing director e Ceo di Carlyle, c’è scritto che "Baker ha rinunciato agli eventuali futuri guadagni (se ci saranno) della sua partnership in Carlyle, potendo entrare in conflitto con il suo incarico ufficiale e non avrà alcun beneficio personale dal suo ruolo di inviato del presidente come socio del gruppo Carlyle". Ma l’affare con il Kuwait è così grande che è difficile immaginare come Baker possa restarne escluso. Carlyle è pronta a fare investimenti per un miliardo di dollari, che rappresentano il 10 per cento degli investimenti totali della società. E che porteranno benefici per 12 lunghi anni. Carlyle non rese pubbliche le sue trattative al tempo della nomina di Baker: come si può credere oggi alle loro parole? La professoressa Clark punta il dito: "Anche se Baker in qualche modo sarà controllato perché non abbia benefici finanziari da questo affare, Carlyle sta usando la posizione di Baker per trarre profitto". Aggiunge la Clark: "È tempo che la Casa Bianca chiarisca tutto. C’è bisogno di assoluta trasparenza".
Baker ha un ruolo complicato nel progetto del Consorzio di gennaio: egli rappresenta sia il problema che la soluzione, il bastone e la carota. Nel documento, il nome di Baker spunta ripetutamente, normalmente con toni molto allarmati. "Il nuovo ruolo del signor Baker e l’emergenza che risulterà dal nuovo giro di negoziati globali sui debiti dell’Iraq, daranno un nuovo e forse anche più intenso impulso all’emergenza", si sostiene in una lettera che porta tre firme: Madeleine Albright; David Huebner, presidente dello studio legale Coudert Brothers (un altro membro di Consorzio); Shahameen J. Sheikh, presidente e amministratore delegato dell’International Strategy Group, una società creata da Consorzio appositamente per questo accordo. Ma dopo che la missione di inviato di Baker sarà vista come l’incarnazione della minaccia che il Kuwait perderà i suoi pagamenti per la ristrutturazione, il progetto andrà avanti basandosi sui singoli individui potenti legati al Consorzio che "avranno l’abilità di guadagnare l’accesso ai livelli più alti del governo degli Stati Uniti e degli altri governi del Consiglio di Sicurezza per un’udienza sulle vedute del Kuwait". Tra questi individui potenti il Kuwait avrebbe dalla sua parte James Baker. In pratica, il Consorzio sta consigliando al governo del Kuwait di pagare per far sì che l’uomo d’affari James Baker (insieme al resto dei suoi potentissimi colleghi del Consorzio) li salvi da James Baker inviato speciale del presidente.
Il 21 gennaio 2004, le due vite di James Baker si sono unite. Quella mattina Baker è partito in volo per il Kuwait nel ruolo di George Bush per risolvere la questione del debito. Si è incontrato con il primo ministro del Kuwait, il suo ministro degli Affari pubblici, e con tutta un’altra serie di ufficiali governativi di alto livello con l’obiettivo dichiarato di chiedere loro di estinguere il debito dell’Iraq in nome della pace regionale e della prosperità.
Quello stesso giorno, i colleghi di Baker di Consorzio hanno consegnato a mano il loro progetto di 65 pagine al ministro degli Esteri, Mohammad Sabah Al-Salem Al- Sabah, lo stesso uomo con il quale si stava incontrando Baker. "Il nostro progetto ha preso in considerazione le nuove dinamiche che si sono sviluppate nella regione", si legge nella lettera di presentazione firmata da Albright, Huebner e Sheikh, inclusi "i negoziati del segretario Baker" sul rilascio del debito. Nella proposta si sosteneva che se il Kuwait avesse accettato l’offerta di Consorzio "distingueremo le richieste del Kuwait, legalmente e moralmente, dal debito sovrano per il quale gli Stati Uniti stanno in questo momento chiedendo la cancellazione".
Si è trattato di una coincidenza che Consorzio abbia presentato il suo progetto proprio nel giorno in cui Baker si trovava in Kuwait? E quale James Baker dovevano prendere più seriamente i leader kuwaitiani, l’inviato dei Bush che chiedeva la cancellazione del debito, o l’uomo d’affari nominato nel progetto?
Ahamed al-Fahad, sottosegretario del primo ministro del Kuwait, ha detto: "L’ho visto (il progetto) e sono pienamente consapevole della situazione". Ma quando gli è stato chiesto del doppio ruolo di Baker in Kuwait, ha detto che "è difficile commentare il problema, specialmente adesso. Spero che possiate capire". Noi sappiamo che, dopo essersi incontrato con Baker il 21 gennaio, il ministro degli Esteri del Kuwait ha detto ai reporter che Baker aveva mostrato "comprensione nei confronti della posizione del Kuwait sulle riparazioni della guerra". Ha anche aggiunto che le riparazioni non erano in di scussione, perché "esiste una decisione internazionale delle Nazioni Unite".
Due giorni dopo Baker, rientrato a Wa shington, aveva pubblicamente annunciato per la prima volta che "il mio lavoro è quello di trattare il debito iracheno con i creditori sovrani, non con le riparazioni della guerra". Aveva inoltre fatto eco a ciò che era stato detto dal governo del Kuwait: che le riparazioni sono fuori dal suo potere perché sono "sotto la giurisdizione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e sottoposte alle risoluzioni da questo approvate". Si trattava di una dichiarazione curiosa da parte dell’uomo incaricato di ottenere lo sconto del debito per un paese devastato come l’Iraq. Come mai una così larga porzione dei debiti iracheni veniva tolta dal tavolo delle discussioni? Questa dichiarazione sembrava anche contraddire gli altri impegni che Baker si era assunto nello stesso discorso. Aveva detto che "qualsiasi riduzione del debito iracheno deve essere sostanziale".
La dichiarazione di Baker sulle riparazioni l’aveva anche messo in contrasto con tutta una serie di altri membri dell’amministrazione Bush, incluso l’ex capo degli inviati in Iraq, L. Paul Bremer. "Credo vi sia il bisogno di guardare molto seriamente a tutta questa faccenda delle riparazioni", ha dichiarato Bremer lo scorso settembre, confrontando la situazione dell’Iraq con quella della Germania dopo la Prima guerra mondiale, quando la commissione per le riparazioni del 1921 aveva obbligato la Repubblica di Weimar a pagare 33 miliardi di dollari. Il distruttivo debito per le riparazioni "ha contribuito direttamente al pantano dell’inquietudine, instabilità e disperazione che ha portato all’elezione di Hitler", ha ammonito Bremer.
Tuttavia l’Iraq continua a emettere pagamenti regolari per risarcire i danni provocati dall’invasione del 1990 di Saddam in Kuwait. Nei 18 mesi successivi all’invasione, l’Iraq ha pagato la cifra sorprendente di 1,8 miliardi di dollari in riparazioni, sostanzialmente più di quanto fosse il budget totale del paese sconfitto per la salute e l’educazione nel 2004, e più di quanto gli Stati Uniti siano riusciti a spendere fino ad ora per la ricostruzione dell’Iraq.
La maggior parte dei pagamenti per i danni di guerra sono andati al Kuwait, un paese che è quasi arrivato al sesto surplus consecutivo, dove i cittadini hanno un potere d’acquisto medio di 19 mila dollari l’anno. Gli iracheni, al contrario, vivono con una media di circa due dollari al giorno, con la maggior parte della popolazione che dipende dalle razioni di cibo per l’alimentazione di base. Tuttavia, le riparazioni continuano, con l’Iraq che dovrebbe emettere un altro pagamento di 200 milioni di dollari il mese prossimo.
Questi accordi risalgono alla fine della prima guerra nel Golfo. Come condizione per il cessate il fuoco, Saddam Hussein aveva accettato di pagare per tutte le perdite dovute alla sua invasione e ai sette mesi di occupazione del Kuwait. I pagamenti sono cominciati ad arrivare nel 1994, e si sono velocizzati nel 1996, con l’inizio del programma Oil for food delle Nazioni Unite. Secondo la risoluzione 986 dell’Onu, che diede inizio al programma, l’Iraq avrebbe potuto cominciare a esportare petrolio se i proventi fossero stati utilizzati per importare cibo e medicine, e finché il 30 per cento dei guadagni dell’Iraq dal petrolio andassero alla United National Compensation Commission (UNCC), il quasi-tribunale di base a Ginevra che si occupa delle riparazioni della guerra del Golfo.
Il futuro di questi debiti è ora però quanto mai incerto. Il 22 maggio 2003, a due mesi di distanza dall’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aveva deciso di portare al 5 per cento la percentuale degli introiti iracheni derivanti del petrolio destinata ai risarcimenti per danni di guerra. Nel maggio scorso, invece, una delegazione di Baghdad si è recata al Palazzo di Vetro dell’Onu per chiedere che quella percentuale fosse ulteriormente ridotta per venire incontro alle necessità di ricostruzione dello stesso Iraq.
Ecco: è a questo punto che entra in gioco il consorzio Carlyle-Albright, la cui proposta parte dal presupposto che i debiti insoluti iracheni nei confronti del Kuwait non siano soltanto un problema di natura finanziaria, ma altresì un problema di natura politica e di pubbliche relazioni. L’opinione pubblica globale non è più quella di quando al Kuwait fu promesso un risarcimento integrale. Ora, infatti, il mondo è quanto mai interessato alla ricostruzione dell’Iraq e al condono dei suoi debiti. Il succo della proposta è che se il Kuwait riuscirà a ottenere la liquidazione del proprio risarcimento dovrà riconvertirlo non in un onere per l’Iraq, ma in un "elemento cruciale a vantaggio della stabilità e della riconciliazione della regione". Consorzio, dunque, propone una strategia su tre fronti, fatta di aggressive pressioni dietro le quinte, di abili relazioni pubbliche e di investimenti e finanziamenti creativi. "Qualsiasi soluzione di pagamento delle indennità non liquidate (.) deve essere politicamente rivendibile come elemento di rafforzamento per la stabilità e la crescita nel Golfo Persico e in Iraq. La proposta fornisce la strategia, il contesto e la soluzione necessari a raggiungere questo obiettivo", si legge nel documento.
Consorzio ha un piano dettagliato finalizzato a occuparsi della sensazione che i risarcimenti "distolgano alcune risorse dalla ricostruzione dell’Iraq a favore di un vicino molto più abbiente". Prima di tutto il Kuwait dovrà destinare i suoi debiti insoluti dall’Iraq, che comprendono come minimo i 27 miliardi di dollari di indennità per danni bellici non pagati e, se possibile, anche i 30 miliardi di debiti sovrani moratori, a una fondazione privata controllata da Consorzio. Sebbene ci sia il dubbio che il Kuwait possa effettivamente essere in grado di incassare i suoi 30 miliardi di dollari di debiti sovrani, la fondazione suggerisce di utilizzare questi debiti non pagati come strumento di pressione nei negoziati che devono garantire la più ampia quota possibile del risarcimento non versato. La fondazione gestirà un fondo di investimenti che collocherà nuovamente in Iraq una quota dei pagamenti di indennità versati dall’Iraq al Kuwait. Come esempio di investimenti che la fondazione si ripromette di fare, Albright, Huebner e Sheikh suggeriscono nella loro lettera che i fondi di indennità possano essere usati per comprare delle società di proprietà dello Stato iracheno. "In un immediato futuro, una quarantina di imprese di proprietà dell’Iraq, impegnate in una molteplicità di settori diversi, saranno disponibili per leasing e per contratti di gestione", si legge nella loro lettera.
Potendo dimostrare che il Kuwait investirebbe nuovamente nell’economia irachena parte delle proprie indennità di risarcimento, la fondazione gestita da Consorzio "crea le premesse di una motivazione umanitaria affinché gli Stati Uniti e gli altri paesi continuino a dare il loro appoggio" ai risarcimenti. La società pare considerare la privatizzazione (una politica molto contestata in Iraq) come parte della missione umanitaria.
Nella proposta si fa presente che le sole operazioni di lobby e le relazioni pubbliche non saranno sufficienti a garantire che il governo kuwaitiano riceva effettivamente ciò che spera di ottenere come indennità di risarcimento. Secondo Consorzio, al fine di "massimizzare l’ammontare dell’indennizzo" il Kuwait dovrà disfarsi di ben più delle quote di indennità di risarcimento che ha già ricevuto. Oltre al miliardo di dollari da investire in un fondo per l’ambiente, la proposta esorta a impegnare altri due miliardi di dollari kuwaitiani nel Middle East Private Equity Fund. Di quella cifra "un miliardo di dollari sarebbe investito, per mezzo di un accordo specifico, nei fondi azionari del Gruppo Carlyle per un periodo di almeno 12-15 anni. Al termine di tale periodo il Kuwait incasserebbe gli utili di tali investimenti, oltre a tutto ciò che Consorzio sarà stato in grado di negoziare come indennità di risarcimento".
Per Consorzio, insomma, si tratta di una transazione più che vantaggiosa: i suoi socii si ritroverebbero tra le mani un portafoglio di due miliardi di dollari di investimenti da gestire per 12-15 anni, riuscendo a ricavarne delle consistenti percentuali di gestione, oltre ad alte percentuali di interesse sull’investimento. Inoltre incasserebbe il "diritto di ritenzione" e il 5 per cento di ogni debito che il consorzio fosse riuscito a farsi pagare, oltre a una "percentuale, tuttora da negoziare, della somma restituita al Kuwait" eccedente l’ammontare prefissato. Tra gli altri partner di Consorzio che beneficerebbero di tali vantaggi vi sono la Fidelity Investments, la BNP Paribas, una banca europea già coinvolta nello scandalo Oil for food, Gaffney, Cline & Associates, una società energetica specializzata nelle privatizzazioni di petrolio e gas, la Nexgen Financial Solutions, una società finanziaria in parte di proprietà del governo francese, e infine l’ Emerging Markets Partnership, un’affiliata di Aig, al vertice della quale c’è un ex vicepresidente della Banca mondiale, Moeen Qureshi.
Oltre alle ricadute finanziarie, l’accordo concederebbe a questo gruppo di compagnie private un potere straordinario. Chiunque abbia in mano il debito iracheno ha la possibilità di influenzare la politica irachena in un momento di estrema incertezza politica.
Dai documenti si evince chiaramente che Consorzio è estremamente desideroso di stringere questo accordo con il Kuwait. Il presidente Sheikh Shahameen scrive di aver effettuato cinque viaggi in Kuwait in quattro mesi, mentre risulta che Carol Browner dell’Albright Group abbia "consegnato di persona una copia" della proposta al ministro degli Esteri kuwaitiano nel suo albergo, allorché egli ha soggiornato a Washington. Eppure il governo del Kuwait appare riluttante: si è preso quattro mesi di tempo per rispondere alla proposta e si è riservato di dire, in una lettera datata 10 agosto, che la proposta "verrà presa in seria considerazione ed è attualmente allo studio da parte delle autorità competenti".
Anche se l’accordo dovesse sfumare, il fatto che il gruppo Carlyle e il gruppo Albright si siano impegnati in questi negoziati nel momento stesso in cui Washington cerca di esercitare pressioni lobbistiche per far cancellare i debiti iracheni, può aver già costituito una grave violazione delle leggi e delle normative statunitensi relative al conflitto di interessi. Dice Levinson: "Siamo alla presenza di due ex segretari di Stato che apparentemente stanno proponendo di ricorrere ai loro contatti e alle loro informazioni riservate per insidiare la politica ufficiale del governo degli Stati Uniti".
Si può senz’altro sostenere che James Baker e Madeleine Albright abbiano avuto sul debito iracheno e sul risarcimento dei danni di guerra un’influenza più diretta di qualsiasi altra figura politica al di fuori dell’Iraq. Quando era segretario di Stato, Baker ebbe un ruolo importante nell’accrescere il debito estero iracheno intervenendo personalmente nel 1989 per garantire un prestito di un miliardo di dollari a Saddam Hussein come credito all’esportazione. Fu anche uno dei principali architetti della prima guerra del Golfo e del cessate il fuoco che impose a Saddam di pagare un risarcimento dei danni di guerra così schiacciante. Nelle sue memorie, ’The Politics of Diplomacy’ pubblicate nel 1995, Baker ha scritto che dopo aver visto l’incendio dei pozzi petroliferi in Kuwait contattò il presidente George H.W. Bush e gli disse: "Dovrebbe pagare l’Iraq". Adesso, attraverso Consorzio, Baker potrebbe finire col ricevere una parte di quel pagamento.
Il ruolo del gruppo Albright suscita interrogativi dello stesso genere. Quando era segretario di Stato e ambasciatrice della Nazioni Unite, Madeleine Albright partecipò personalmente alla stesura della risoluzione 986 dell’Onu, che diede origine al programma Oil for food, che deviava il 30 per cento dei ricavi petroliferi iracheni sul risarcimento dei danni di guerra. "È un grande giorno per gli Stati Uniti, perché siamo noi gli autori della risoluzione 986", disse il 20 maggio del 1996. Attualmente, come privata cittadina, la Albright è una delle dirigenti di una società che sfrutta i suoi contatti per cercare di trarre profitto proprio da quei risarcimenti dei danni di guerra che lei contribuì a imporre come segretario di Stato.
Se queste sono cattive notizie per gli iracheni e per i contribuenti americani, sono buone notizie invece per la Carlyle. Per la società di investimenti, una rapida soluzione della crisi del debito iracheno agisce contro i suoi interessi finanziari: più si trascinano i negoziati, più la Carlyle ha tempo per convincere il riluttante governo del Kuwait a firmare. Se il debito iracheno fosse efficacemente cancellato, qualsiasi altro accordo diventerebbe superfluo. La posizione di Baker in veste di inviato è stata certamente utile ai suoi colleghi della Carlyle. Che Baker sia stato utile per risolvere la crisi del debito iracheno invece è molto meno chiaro. In effetti, non è nemmeno chiaro se Baker sia ancora l’inviato speciale del presidente, e se non lo è più, perché non lo è più? Il commento della Casa Bianca? No comment.