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di Adriano Guerra
APPROFONDIMENTI
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Il blitz per liberare gli ostaggi dalle mani dei loro barbari sequestratori, si è dunque concluso con una strage, un terribile bagno di sangue. Certo le responsabilità per quel che è avvenuto vanno distinte ma non è possibile giungere ad un’altra, diversa, conclusione.
Sull’insieme della vicenda tuttavia lo sgomento col quale abbiamo vissuto davanti al video, l’ultimo atto del dramma, rende difficile formulare un giudizio pieno. Ci sono le inquietanti notizie che continuano a giungere da Mosca e da Beslan e gli interrogativi che essi suscitano: che cosa era possibile fare e non è stato fatto? Come si è giunti alla decisione di sacrificare decine e decine di bambini per salvare la vita agli altri? Una cosa comunque è certa: Putin non ha mantenuto fede all’impegno che aveva preso quando ha proclamato che avrebbe fatto di tutto - e dunque accettato la trattativa coi terroristi - pur di salvare la vita a quei bambini.
C’è anche un’altra ipotesi: quella secondo cui il blitz sarebbe stato deciso a Beslan dal comandante delle forze speciali sul posto senza interpellare Mosca e non è escluso che questa - anche perché permetterebbe di trovare un capro espiatorio - diventi alla fine la versione ufficiale: ma come credere che il presidente russo sia stato tenuto all’oscuro di quel che stava per accadere nella cittadina dell’Ossezia?
Prendiamo in esame allora l’ipotesi più probabile.
Lo sappiamo: coi terroristi si può e, talvolta, si deve, mentire. Per batterli l’arma dell’inganno - e cioè delle operazioni segrete, dell’uso di infiltrati, di manovre di depistaggio ecc. - può essere essenziale. Molto, molto di più - come da più parti giustamente si ripete - delle bombe e dei carri armati. La condizione del successo richiede però che la politica dell’inganno non sia condotta, come è accaduto, nei confronti di coloro che a Beslan vedevano i loro figli appesi alle finestre come scudi umani, e nei confronti del mondo intero che ha preso sul serio le parole di Putin. Né la politica delL’inganno può servire a mascherare un atto di guerra condotto, come i fatti hanno dimostrato, senza alcuna garanzia per quel che riguarda la salvaguardia di quelle vite umane che si diceva di voler proteggere.
Ma perché alla politica dell’inganno, e poi ad una insensata operazione militare, si è giunti?
Perché - è l’unica razionale risposta che si può dare al quesito angosciante - Putin si è trovato a dover fronteggiare una tremenda offensiva terroristica (la tragedia dei due Tupolev, l’eccidio del metro di Mosca, e poi l’assalto alla scuola di Beslan) senza avere soluzioni studiate, idee seppure vaghe, possibilità reali di intervento, valide per fronteggiarla. Si è parlato di trattativa. Ma cosa mettere sul piatto coi terroristi? Su questo punto occorre essere chiari. Coi terroristi si può anche trattare. Per salvare vite umane. E c’è chi lo ha fatto come il medico-pediatra ceceno Leonid Roshal, e ancora come Ruslan Aushev, l’ex presidente dell’Inguscezia, deposto a suo tempo perché contrario alla guerra russa contro la Cecenia.
Ma ben altra era la trattativa che non è stata aperta da Mosca. La trattativa che non c’era e che non c’è, è quella coi civili ceceni che non solo non sono terroristi ma sono le vittime del terrorismo (oltreché delle violenze degli occupanti russi). Coi loro rappresentanti, coi musulmani moderati. E cioè con l’ex presidente Aslam Maskhadov.
In una corrispondenza apparsa ieri sul «Foglio» si dice che Maskhadov avrebbe «accettato il ricorso al terrorismo», sia pure «subordinandolo all’allentamento da parte di Basayev (e cioè di colui che sarebbe in contatto con le organizzazioni di Bin Laden) «dei rapporti con le centrali dell’islamismo e al ritorno esplicito alle rivendicazioni legate all’indipendentismo caucasico».
L’opinione di chi scrive - avvalorata dalle dichiarazioni di aperta condanna pronunciate nei giorni scorsi come sempre da Maskhadov - è che le cose non stiano come è detto nel «Foglio». Ma ammettiamo pure che le cose stiano come è detto in quella corrispondenza: che, cioè, Maskhadov si sia schierato coi terroristi e sia diventato inaffidabile. Ma in questo caso per trovare una soluzione politica alla guerra cecena, non sarebbe il caso di inventarlo un Maskhadov, di trovarne un altro? Non già di imporre alla Cecenia, come ha fatto Putin, con un’elezione truffa svoltasi senza nessun controllo e che questa volta non ha trovato neppure l’avallo di Berlusconi, un presidente, Alu Alkhanov, che si muove col sostegno dell’esercito privato, di Ramzad Kadyrov, il figlio del precedente presidente, vittima di un attentato, e che appena eletto si è presentato come uomo di guerra?
Quel che rende drammatica la situazione della Cecenia è appunto il fatto che guardando da Mosca a tutti i protagonisti non russi della vicenda - i separatisti radicali, i separatisti moderati, i gruppi terroristici figli della vecchia opposizione cecena, i gruppi terroristici sostenuti da Al Qaeda - come a nemici da combattere con le stesse armi, si va incontro soltanto a sconfitte, si perpetua la guerra e si rafforzano le posizioni dei sostenitori di Bin Laden.
Sta qui, in questa mancanza di alternative all’orizzonte quel che distingue la situazione cecena rispetto a quella irachena e a quella mediorientale. Nell’Iraq, sia pure fra contraddizioni e pericoli molto gravi derivanti dal ruolo di «fabbrica di terroristi» che continua ad avere l’occupazione americana, c’è però ora un governo e un parlamento nati col sostegno dell’Onu e un insieme di forze irachene schierate contro il terrorismo. Nel Medio Oriente il fatto nuovo è che, seppure anche qui in modo contradditorio, sembra farsi avanti all’interno sia di Israele che dei palestinesi, l’idea che per battere Hamas coi suoi terroristi e coloro che a Gerusalemme e nei Territori vogliono perpetuare la guerra, non c’è che una strada: quella di non interrompere le trattative e cioè di trattare e mantenere gli impegni presi nonostante il terrorismo.
Ma per tornare alla Russia occorre porre in rilievo un altro fatto grave. Qui non siamo di fronte soltanto all’assenza di una possibile soluzione nella politica di Putin. La questione è, purtroppo, assai più grave. È che non c’è in Russia una sola forza politica che si sia con chiarezza pronunciata per una diversa politica sulla questione cecena.
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