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Chiapas, El Profe e gli altri. Liberare tutti

par Andrea Spotti

Publie le lunedì 29 aprile 2013 par Andrea Spotti - Open-Publishing

La battaglia per aprire le celle dei detenuti zapatisti imprigionati dopo processi farsa e scorrerie paramilitari. L’inviato di Popoff è laggiù

Con importanti manifestazioni in Messico e decine di iniziative a livello internazionale, si é chiusa, lo scorso 19 aprile, la campagna per la liberazione di Alberto Patishtán, il maestro tzotzil membro della Sexta zapatista ingiustamente detenuto nel carcere numero cinque di San Cristobal de Las Casas, Chiapas.

Condannato a scontare una pena di sessant’anni per un delitto che non ha commesso, Patishtán rappresenta senza dubbio un caso emblematico di malagiustizia in salsa messicana. Nel corso dei tredici anni di reclusione, un variegato movimento dentro e fuori i confini nazionali si é piú volte espresso e mobilitato per chiederne la scarcerazione, denunciando le molte irregolaritá processuali e facendo del maestro una figura-simbolo della lotta dei detenuti politici e delle tante vittime di abusi giudiziari - di origine indigena e/o provenienti dalle classi popolari nella maggioranza dei casi - che abitano le carceri del Paese.

Manco fosse Rambo, Patishtán é accusato di aver ucciso da solo sette poliziotti federali, il 12 giugno del 2000, in quella che si ricorda come la strage di Simojovel. La sua Odissea giudiziaria inizia una settimana dopo, quando viene arrestato senza mandato di cattura da quattro uomini in borghese nel suo municipio di residenza, El Bosque.

Siamo nel Chiapas degli anni successivi all’insurrezione zapatista e la tensione politica e (para)militare nella regione, dove i conflitti locali si moltiplicano, é assai alta. Ad El Bosque, un imponente movimento chiede la destituzione del sindaco Manuel Gómez, priista accusato di corruzione, nepotismo e abuso di potere; e Patishtán, come spesso accade ai maestri rurali - in molti casi veri e propri intellettuali organici delle loro comunitá -, é il portavoce della protesta.

Il governo, timoroso che la situazione possa degenerare dando vita a nuove sollevazioni, manda sul posto rinforzi della polizia federale. Durante uno dei pattugliamenti delle forze poliziesche, nei pressi del villaggio di Las Limas, avviene l’imboscata, effettuata da una decina di uomini a volto coperto armati di R-15 e di AK-47.

Inizialmente, governo statale e federale puntano il dito contro le guerriglie dell’Ezln e dell’Epr (Esercito Popolare Rivoluzionario). Gli zapatisti, attraverso le parole del Subcomandante Marcos, rispondono invece indicando nei gruppi paramilitari legati al Pri i probabili autori della strage, la quale sará utilizzata come pretesto per intensificare ulteriormente la militarizzazione della regione.

Dopo l’arresto di Patishtán, che scatena immediatamente vivaci proteste nella sua comunitá (si arriverá fino ad occupare il palazzo municipale), vengono conivolti nelle indagini anche due basi d’appoggio dell’Ezln, uno dei quali, Salvador López, sará arrestato.

Secondo Leonel Rivero, attuale legale di Patishtán, alla luce delle nuove norme sul "giusto processo" recentemente approvate dal parlamento, la sentenza deve essere invalidata. Infatti, le violazioni ai diritti della difesa sono molteplici: dalla detenzione illegale in un hotel, alla mancanza di un avvocato durante gli interrogatori e di una difesa adueguata durante il processo; dall’uso di prove illegali al tentativo da parte del sindaco di influenzare le indagini inviando foto del maestro agli inquirenti. Insomma, ce n’é abbastanza da mettere in discussione l’intero castello accusatorio, il quale é fondato unicamente sulle ricostruzioni farraginose e non confermate di uno dei due sopravvissuti, l’autista Rosenberg Gómez, figlio del sindaco di El Bosque.

Nel giugno del 2003, sulla base delle sole dichiarazioni del Gómez, che sostiene di aver riconosciuto il maestro durante l’assalto, Patishtán viene condannato. Questa versione, tuttavia, é quantomeno dubbia. Infatti, non solo cambia e si contraddice nel corso del tempo, ma non coincide per niente con quella resa dal secondo sopravvissuto, l’agente federale, il quale dichiara invece che gli aggressori, avendo il volto coperto, non erano riconoscibili. Con questi tutt’altro che granitici elementi probatori, gli stessi in base ai quali López González verrá assolto, il maestro della Sexta viene condannato, senza che il tribunale prenda in considerazione le molte testimonianze che lo davano lontano dal luogo dei fatti al momento dell’assalto.

Una volta incarcerato, El Profe, come viene soprannominato dai suoi compagni, cerca di rendersi utile insegnando a leggere e a scrivere ai detenuti analfabeti o facendo da traduttore ai reclusi di origine preispanica, i quali spesso non sanno nemmeno di cosa sono accusati. In seguito, Patishtán si avvicina ai detenuti zapatisti e partecipa alle mobilitazioni per il miglioramento delle condizioni carcerarie, diventando uno dei portavoce dei prigionieri in lotta.

Nel 2006, entra a far parte de La Otra Campaña e fonda, insieme agli altri reclusi aderenti alla Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona, il collettivo La Voz del Amate, che, nel corso degli anni, riuscirá a connettere le lotte nelle prigioni chiapaneche (fatte di digiuni, scioperi della fame, presidi e cortei interni) con le mobilitazioni di realtá politiche e sociali esterne al carcere, riuscendo ad ottenere la liberazione di ben 137 prigionieri.

Lanciata per per fare pressione sui giudici del Primo Tribunale Collegiale di Tuxla Gutierrez, i quali decideranno prossimamente se invalidare o meno il processo, la campagna Lottando per la #LibertadPatishtan, conclusasi nel giorno del suo quarantaduesimo compleanno, ha visto l’adesione di circa 300 organizzazioni nazionali ed internazionali, ed é riuscita a guadagnare spazio su media e social network tanto da obbligare Manuel Velasco, nuovo governatore dello stato, a dover a riconoscere pubblicamente la sua innocenza. A tutto ció, bisogna aggiungere le circa 8500 lettere inviate al Tribunale, nonché le svariate iniziative tenutesi in molte cittá messicane e di fronte ad ambasciate e a consolati nel resto del mondo.

Dopo la delusione prodotta dalla sentenza della Suprema Corte il 6 marzo scorso, quando i magistrati del tribunale costituzionale della capitale hanno deciso di non annullare il processo per evitare di "aprire il vaso di Pandora" dei procedimenti giudiziari irrispettosi dello stato di diritto (esprimendo implicitamente un giudizio sullo stato di salute della giustizia messicana), toccherá ai giudici di Tuxla Gutierrez dire l’ultima parola, almeno dal punto di vista giudiziario, sulla libertá del maestro tzotzil. Nelle scorse settimane Amnesty International ha scritto una lettera al Tribunale chiapaneco chiedendo una sentenza "giusta ed esemplare", che possa contribuire a costruire una nuova giurisprudenza affinché "casi come quello di Alberto Patishtán non possano ripetersi."

Il problema, tuttavia, é che quello di Patishtán non é affatto un caso isolato e che, al contrario, la pratica di rinchiudere gli oppositori, nonostante il discorso istituzionale e mediatico la releghi a cosa del passato, sia piú comune di quanto si possa pensare. Non sono pochi infatti gli attivisti e le attiviste, soprattutto in provincia ma non solo, che finiscono in carcere grazie a quelle che Raul Vera, vescovo controcorrente da sempre al fianco delle lotte, definisce "condanne prefabbricate", fatte per dare un capro espiatorio all’opinione pubblica e, allo stesso tempo, diffondere la paura della rappresaglia contro coloro che si mobilitano.

Stando solo alle cronaca delle ultime settimane almeno tre militanti di organizzazioni sociali sono stati arrestati. Si tratta di David Venegas y Efrén Hernández, noti attivisti dello stato di Oaxaca, accusati di aver rapinato un taxista (sic); ed Evelyn Barreto, in prima linea contro la construzione di una Supervia a Cittá del Messico, arrestata per aver rubato tre transenne (sic) e libera dopo aver pagato una cauzione di circa 2000 euro. Per quanto riguarda la Sexta, infine, i detenuti e le detenute aderenti sono almeno diciannove, divisi tra le carceri di Oaxaca, Guerrero e Chiapas.

Tornando a Patishtán, sebbene il suo avvocato abbia dichiarato che, al di lá di quale potrá essere il verdetto dei giudici, non verrá chiesto nessun indulto, alcune voci iniziano a parlare di un possibile intervento presidenziale, con il quale, da un lato, si eviterebbe che una sentenza legittimasse eventuali richieste simili rispetto ad altri processi in futuro, e, dall’altro, si darebbe la possibilitá a Peña Nieto di capitalizzare dal punto di vista mediatico una liberazione che in realtá non sarebbe altro che il prodotto di anni di mobilitazione solidale in Messico e nel mondo. Qui la raccolta firme per liberazione Patishtán.

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