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Condanna del muro, un test internazionale

Publie le sabato 31 luglio 2004 par Open-Publishing

Diritto La sentenza della Corte internazionale mette alla prova gli stati

RICHARD FALK*

La cosa più rilevante nella decisione della Corte internazionale di giustizia (Cij) sul «muro di sicurezza» di Israele è la forza del consenso tra i 15 emeriti giuristi che formano il più alto organo giudiziario del pianeta. Con un voto di 14 a 1 la Corte ha stabilito che il muro era illegale dal punto di vista delle leggi internazionali e che Israele aveva l’obbligo di smantellarlo, così come quello di risarcire i palestinesi per ogni danno derivante dalla sua costruzione. Va detto che la composizione della Cij varia, è costituita da giuristi che ricoprono le più alte cariche nei propri paesi e ha raggiunto molto raramente sulle grandi questioni questo accordo all’unanimità. La decisione è stata sostenuta anche dal giudice inglese, Rosalyn Higgins, generalmente conservatore e molto ammirato negli Stati uniti, sia come intellettuale che come alleato politico. Anche l’unico voto contrario, non a sorpresa del giudice americano, lo stimato professore di diritto internazionale Thomas Buergenthal, è stato frutto di un dissenso limitato. Egli ha sostenuto che la corte ha raggiunto le sue conclusioni frettolosamente, senza esaminare a pieno la questione della sicurezza di Israele legata alla costruzione del muro. Ma anche Buergenthal ha affermato che Israele è obbligata ad aderire alle leggi umanitarie internazionali, che i palestinesi hanno il diritto a esercitare la propria auto-determinazione, e che credeva che il muro fosse illegale nel tratto costruito per proteggere gli insediamenti.

Va detto che questa per il diritto internazionale è un’opinione non vincolante, come tutte le questioni portate davanti alla Cij, e tecnicamente non obbliga né l’assemblea generale dell’Onu, né lo stato di Israele. Al tempo stesso, essa rappresenta il punto di vista definitivo di un ampio elenco di affermati giuristi con il sostegno del diritto internazionale su una questione combattuta, e probabilmente per questo motivo viene considerata imperativa ovunque nel mondo, tranne che a Tel Aviv e Washington. Il fatto che la Cij abbia raggiunto un consenso quasi unanime, cosa non molto comune nella sua storia, si aggiunge al peso delle sue opinioni legali sul muro.

Ciò che rende questo parere ancora più convincente, e ne spiega le ragioni, è che il diritto internazionale stabilisce obblighi chiari per la potenza occupante nel rispettare gli interessi e il benessere della popolazione civile occupata, e questi punti sono stati violati palesemente con la costruzione del muro da parte di Israele. E’ stata proprio questa violazione palese a spingere l’assemblea generale a esercitare il suo diritto sancito dalla carta dell’Onu a chiedere un parere non vincolante, cercando il sostegno del diritto internazionale; un’iniziativa mai presa in precedenza rispetto a questo conflitto, nonostante le sue ferite protratte per decenni e le tante questioni critiche di diritto internazionale in gioco. Tale evidenza ci aiuta a capire il rifiuto di Israele a partecipare al procedimento, anche per difendere la sua tesi del perché il muro sia necessario per l’auto-difesa e l’appello, del tutto insostenibile, che la sua costruzione abbia già ridotto l’impatto degli attacchi suicidi del 90%.

Paradossalmente, appena c’è stato un attacco suicida, Israele ha invocato l’argomento opposto, per sostenere la necessità del muro. Significativamente da un punto di vista legale, la Corte ha stabilito (cosa che potrebbe essere controversa sul piano morale e politico) che Israele avrebbe avuto il diritto a costruire un muro per garantire la propria sicurezza contro le minacce terroristiche provenienti dai territori palestinesi se avesse realizzato la costruzione all’interno dei propri confini. La sua opposizione al muro si fonda sulla sua creazione all’interno dei territori occupati palestinesi, così come sulle sofferenze conseguenti arrecate alla popolazione palestinese. Se Israele avesse costruito il muro sul proprio lato della «linea verde» (il confine dello stato ebraico prima della guerra del 1967), non avrebbe violato i diritti dei palestinesi. Un punto importante della sentenza, su cui hanno concordato tutti i giudici incluso Buergenthal, è l’applicabilità incondizionata delle leggi internazionali sui diritti umani, compresa la IV convenzione di Ginevra sulla protezione dei civili, all’amministrazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza. Una tale ossatura legale obbliga Israele a rispettare i diritti sulla proprietà dei palestinesi senza restrizioni, ed evitare di adottare comportamenti che alterino le caratteristiche del territorio, inclusi i trasferimenti di popolazione. Per questo, le colonie israeliane sono considerate dalla Corte una violazione dell’articolo 49, e garantire la loro sicurezza con un muro protettivo costruito ampiamente nei territori palestinesi rappresenta un’illegalità.

La decisione con 13 voti a 2 impone a tutti gli stati l’obbligo di non accettare «la situazione di illegalità» creata con la costruzione del muro. A ciò si aggiunge un voto di 14 a 1, che chiede all’assemblea generale e al consiglio di sicurezza di «esaminare quali ulteriori azioni siano necessarie per porre fine allo stato di illegalità». Per un organo giudicante così prudente come la Cij assegnare mandati così chiari vuol dire testare il rispetto che viene accordato al diritto internazionale. La prova consiste nel vedere come si comportano gli stati quando una questione entra in contrasto con una linea di comportamento prefissata, non la sua dichiarazione ipocrita quando condanna le azioni di un avversario.

Nel periodo che segue la guerra in Iraq dovrebbe risultare evidente che il rispetto del diritto internazionale rientra negli interessi dei popoli di tutto il mondo, offrendo una verifica sull’esercizio di potere sulle basi della logica del «potrebbe essere giusto». Ora, dopo questa sobria, persuasiva sentenza della più alta corte del pianeta, è molto importante che le sue conclusioni siano applicate al meglio.

Il 21 luglio 2004 l’assemblea generale, con 150 voti a favore (inclusi i 25 membri dell’unione europea) e 6 contrari, ha accolto la sentenza della Cij, chiedendo ad Israele di smantellare il muro. Israele ha formalmente respinto sia l’Advisory Opinion sia la risoluzione dell’assemblea generale, affermando la volontà di continuare la costruzione del muro come pianificato, ma di obbedire alla decisione della sua Corte suprema che ordinava di variare il tracciato del muro in due parti per evitare sofferenze particolarmente dure ai palestinesi. Forse la conseguenza più rilevante dell’intera controversia sta nel rafforzamento della frattura tra approccio europeo alla risoluzione della questione israelo-palestinese sulla base del diritto internazionale, e approccio israelo-americano basato su un diktat geopolitico.

Questo incoraggiamento a fare affidamento sul diritto internazionale, non sulla geopolitica, nella creazione di un futuro processo di pace è di grande rilevanza. Innanzitutto, esso è in stridente contrasto con gli accordi di pace di Oslo che fecero dell’esclusione del diritto internazionale una condizione per continuare i negoziati. In secondo luogo prefigura una soluzione sulla base di un processo di contrattazione nel quale la superiore potenza israeliana, rinforzata dalla partnership statunitense, stava ottenendo un risultato sulla base dei fatti sul terreno piuttoso che sulla base del riferimento ai diritti delle due parti.

Il Manifesto