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Conflitto: non riducibile a logiche di gerarchia militare

Publie le venerdì 6 febbraio 2004 par Open-Publishing

La discussione aperta da Fausto Bertinotti sulla non violenza ha
finito per toccare temi e sentimenti vastissimi. Sento allora
necessaria una sua tematizzazione, ed anche una individuazione degli
interlocutori.
Stiamo parlando tra noi, che lottiamo contro il liberismo e siamo
contro la guerra, senza se e senza ma. Chi fa buon viso alle
decisioni del Fondo Monetario Internazionale, a causa delle quali
possono morire di inedia intere popolazioni; chi fa la guerra
umanitaria; chi si astiene sulla partecipazione alla guerra
preventiva del governo Bush: tutti costoro non hanno titolo morale e
politico per predicare la non violenza.

Dobbiamo cogliere il disgusto che certe ipocrisie provocano
soprattutto nei più giovani, indisponibili, più di noi ieri, ad
accettare sofisticazioni morali in veste di astuzia politica. Bisogna
condividere questo sentimento, sennò non ci si fa capire.

Pietro Ingrao, nei suoi due interventi, ci ha come sempre, aiutato
non solo a distinguere e a mettere ordine nella discussione, ma a
collocare essa sul terreno dell’agire politico. Voglio tentare di
seguirlo.

1 - La violenza del potere
al servizio degli oppressi
E’ questo il tema che più tocca chi viene dal e chi si richiama al
comunismo del Novecento. Pensavo che dopo il crollo del socialismo
reale nell’Urss e nei paesi satelliti e dopo la sua mutazione in
capitalismo autoritario in Cina, molto fosse già acquisito. Forse non
è così. E non tanto per il giudizio sugli orrori dello stalinismo,
che in parte sgorgano da un momento e da una specificità storica,
sociale, civile. Quanto piuttosto per una questione ben più di fondo,
che può persino ripresentarsi oggi, di fronte alla moderna, tremenda
brutalità del capitalismo globalizzato. Per Lenin, come per Marx, la
lotta per la liberazione degli oppressi giustifica il ricorso alla
dittatura rivoluzionaria. Così come fecero ed insegnarono i giacobini
nel difendere la rivoluzione francese.

L’esperienza ci ha insegnato che così gli oppressi sottoscrivono un
patto con il diavolo. Possono sconfiggere l’avversario, ma ne
assumono le sembianze. E con l’uso degli stessi mezzi di coloro che
combattono, travolgono i propri stessi fini.

Lo aveva lucidamente previsto dal carcere una donna, Rosa Luxemburg,
quando i bolscevichi, nel 1918, sciolsero l’Assemblea costituente:
l’unico vero parlamento democratico mai avuto dalla Russia, compresi
i giorni nostri e la finta democrazia di Putin. La Luxemburg scriveva
che Lenin e Trozky (Stalin fu irrilevante nell’Ottobre) sottoponevano
la dittatura del proletariato a quella del partito. Alla quale si
sarebbe sostituita quella del comitato centrale, a sua volta
soppiantata da quella di un uomo solo. A questa lucida profezia non
c’è altro da aggiungere.

La dittatura rivoluzionaria non è solo una reazione alla violenza
sovvertitrice degli oppressori. E’ stata anche una scelta. Essa
nasceva dall’idea giacobina di rivoluzionare la società dall’alto,
affidando il potere politico ad avanguardie illuminate, in grado di
supplire ai vuoti nella coscienza e nell’esperienza delle masse. E’
questo apparato concettuale, dal quale Marx ed Engels tentarono di
staccarsi nell’estrema maturità senza riuscirci del tutto, che è oggi
politicamente inservibile.

La liberazione dal capitalismo non può avvenire usando le forme, i
poteri, le violenze, della rivoluzione borghese. Questo ha insegnato
l’esperienza. La liberazione delle persone dall’oppressione del
mercato e dallo sfruttamento deve avvenire per vie diverse,
incompatibili con l’uso per buoni fini della dittatura rivoluzionaria
e del potere dell’avanguardia. Non è una considerazione rivolta solo
al passato. La fiumana di lavoratrici e lavoratori dei popoli più
lontani, che ha invaso le vie del Forum Sociale di Mumbai, ci spinge
a trovare sin d’ora le vie di questo percorso di liberazione.

La scelta della democrazia radicale, della partecipazione e del
consenso. Il riconoscimento del valore insostituibile del conflitto
sociale, così come di quello tra i sessi, per costituire e affermare
le soggettività. La costruzione di forme della politica che non
rispecchino l’esercito e la vita militare, nelle quali non viga il
principio assoluto della delega e del comando e dove il rischio e le
difficoltà siano spartite con giustizia. In sintesi la costruzione di
una politica corrispondente all’ambizione del processo di liberazione
che si vuole costruire. Questa mi pare la necessità che abbiamo di
fronte, per emancipare definitivamente la lotta contro lo
sfruttamento capitalistico dalle illusioni e dai guasti della
dittatura rivoluzionaria.

2 - L’efficacia dell’azione non violenta contro la guerra
Proprio perché stiamo discutendo di politica, è giusto interrogarci
sull’efficacia dell’azione non violenta di fronte a poteri impegnati
oggi nell’organizzazione e nella diffusione della guerra.

Pietro Ingrao ci ricorda giustamente che la resistenza armata
all’occupante in Iraq è giustificata, e legittima per lo stesso
diritto internazionale. Essa non può essere chiamata terrorismo. Ma
il terrorismo esiste, come forza e progetto autonomo.

E’ singolare se ci si pensa. Tutte le principali guerre dell’ultimo
decennio sono state promosse dagli Stati Uniti contro loro precedenti
alleati. Bin Laden e i talebani sono stati decisivi per sconfiggere
l’Urss in Afghanistan. Saddam ha fermato la rivoluzione iraniana. Il
fondamentalismo islamico ha combattuto il nazionalismo arabo. In
Somalia, gli attuali nemici dell’Occidente, anni fa erano in armi
contro il governo filo-sovietico dell’Etiopia. Persino Milosevich
oggi ci appare come un utile attore nella disgregazione del
socialismo reale.

Solo nel cortile di casa dell’America Latina gli Stati Uniti sono
impegnati contro gli avversari di sempre. Ma nel resto del mondo, dal
1991 ad oggi, le guerre hanno visto scontrarsi tra loro vincitori
della guerra fredda. Anche l’Europa è così sotto tiro.

Per questo i paragoni con il passato, quando non sono puramente figli
della propaganda bellica, non ci aiutano a capire. Non ci sono nuovi
Hitler in campo, ma non c’è neppure una guerra partigiana
paragonabile alla resistenza antifascista o al Vietnam. E’ tutto
diverso, è tutto più sporco. Quando una giovane madre palestinese
benestante si mette una cintura di esplosivo e si fa esplodere per
uccidere, siamo in un’altra dimensione rispetto a tutto ciò che da
noi in Occidente intendiamo come terrorismo.

Respingere con orrore questi atti è per noi sin troppo facile. Ma
come fermarli? Con Guantanamo, con la riduzione dei diritti civili
per i musulmani ed i migranti, come sta avvenendo in tutto
l’Occidente? Qui c’è lo spazio per l’azione politica. Per il rifiuto
radicale non solo della guerra al terrorismo, ma del progetto
politico di dominio sul mondo che sta dietro di essa. Bisogna lottare
contro la difesa armata dei privilegi dei ricchi dell’Occidente. Solo
affermando il valore insostituibile ed irrinunciabile di ogni persona
umana, si può impedire che le persone siano usate come bombe. Se per
il nostro Occidente quelle persone valgono meno delle merci, allora
il suicidio omicida può diventare il momento estremo dell’identità.
C’è qualcosa che accomuna liberismo e guerra da un lato,
fondamentalismo terrorista dall’altro: la riduzione della persona a
strumento bellico. Occorre allora l’opposizione alla guerra si
trasformi in azione politica, affinché entrambi i contendenti siano
sconfitti. Deve perdere Bush (con Blair e tutti gli altri), deve
perdere Bin Laden. Non basta affermare il principio della pace,
occorre costruire una politica che sconfigga chi fa la guerra. E’
questo il tema che ha di fronte il movimento a partire
dall’appuntamento mondiale del 20 marzo. Passare dalla richiesta
della pace, all’azione pacifica, ma radicalmente determinata, per
rovesciare la guerra e la logica di guerra questo è il campo
dell’iniziativa e dell’elaborazione.

3 - Lotte sociali
ed azione diretta
Quando un metalmeccanico sciopera la prima domanda che si pone con
angoscia è: "Come ci facciamo sentire ora? ". Viviamo in un mondo dai
mille occhi ed orecchi elettronici, eppure mai come ora c’è stata
tanta sordità e cecità di fronte al conflitto sociale. Anche per
farsi sentire i movimenti hanno sempre più utilizzato lo strumento
dell’azione diretta ed esemplare, la violazione delle regole
costituite. Così fanno i militanti di Greenpeace, così i
disobbedienti. Così si sono fermati i treni durante la guerra. Così i
lavoratori che perdono il posto bloccano l’autostrada o i viali
dell’aeroporto. Così si afferma un diritto anche bloccando il
deposito del tram. Tutte queste non sono azioni violente, sono modi
per farsi ascoltare, per non farsi cancellare. Sono la reazione alla
violenza di un sistema di potere che rimuove e censura i conflitti.

Il movimento e le lotte sociali in Italia non sono in alcun modo
accostabili alla violenza e al terrorismo. Dopo Genova non c’è stata
una reazione militare di una parte del movimento, al quale
dall’inizio partecipano la Fiom, l’Arci, il sindacalismo di base,
forze radicali e associazioni cattoliche non violente, e poi la Cgil
e tanti altri ancora. Questo è un fatto politico decisivo da sbattere
in faccia ai teoremi reazionari del Governo e alla repressione.

C’è però anche qui una grande questione politica. Chi decide? Nelle
lotte operaie si cerca di decidere assieme cosa si fa, dove si va,
come si va. Violare le zone rosse del capitalismo liberista può
essere necessario. Ma è una discussione e una scelta che riguarda
tutto il movimento, non la pratica di avanguardie. Questa a me pare
la questione più importante, rispetto a quella dei caschi. Io non lo
porto, ma il problema non è se e chi lo porta, ma se il casco finisce
per distinguere un’avanguardia separata. Il casco non fa grado.

Mi pare che alla fine la vera conclusione di queste schematiche
considerazioni sia soprattutto una: stiamo provando a scrivere una
storia nuova. Che non può essere letta e giudicata con occhiali
adatti a letture passate. E’ davvero superata una certa concezione
delle avanguardie e delle loro funzioni. E’ davvero inaccettabile la
riduzione del conflitto alle logiche e alle gerarchie dello scontro
militare. Almeno se si assume il punto di vista della liberazione
dall’oppressione capitalista. Perché, e non è un caso, proprio le
forze del neoconservatorismo Usa paiono oggi agire come
un’avanguardia mondiale che vuole imporsi con la guerra permanente.

Ma se questa è la premessa, il resto è ancora quasi tutto da
definire. Sarà l’esperienza dei movimenti, un poco alla volta, a
tradursi in una nuova politica. Proprio per questo, però, bisogna
sempre capire, accettare le differenze. Non si possono buttar via le
pagelle e poi continuare a dare i voti come prima.

liberazione