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Cosa succede in Venezuela

Publie le lunedì 8 marzo 2004 par Open-Publishing

Viaggio nello Stato di Miranda: cosa funziona e cosa no nella riforma
agraria del governo Chavez.

Una riforma che resta il primo storico tentativo di dare una soluzione alla
dipendenza dalle importazioni
Venezuela, la terra a chi lavora
Buche, crateri, voragini nella carreggiata. La strada che esce da Caracas
verso lo Stato Miranda risale ai tempi della Venezuela Saudita, quando le
entrate del petrolio erano tali che un governo megalomane con la fissazione
delle infrastrutture in grande stile si innamorò perdutamente dell’asfalto
ad ogni costo. Investimenti miliardari e manutenzione nulla.

Ora, in molti tratti, è un colabrodo. Percorrerla ad alta velocità è
un’impresa anche per gli spericolati tassisti caraqueñi. Un’autostrada con
vista sulla periferia metropolitana: chilometri e chilometri di baracche e
stracci, la cintura di bidonvilles in cui vive un’abbondante metà della
capitale. Superato l’ultimo colle, il quartiere di solo cartone degli
sfollati colombiani, la strada si infila nel paesaggio dolce delle
piantagioni di cacao.

Vegetazione fitta, verde assoluto, il caldo umido della regione tropicale.
Qui comincia lo stato di Miranda, regno della famiglia Mendoza, padrona
della Polar, il logo della birra venezuelana, seconda industria del paese,
un impero alimentare in mano al governatore dello Stato, Enrique Mendoza,
uno dei capi del fronte anti-Chavez. Incastonato nella sua proprietà, è
nascosto uno degli esperimenti meno riusciti della riforma agraria del
governo Chavez. Siamo andati a vedere perché.

Incaricato di tradurre in pratica l’ordine presidenziale - «la terra a chi
lavora» - l’Istituto nazionale della terra (Inti) tra queste fronde ha
dichiarato guerra agli eserciti di guardie private che sorvegliano a mano
armata ettari e ettari incolti. In pochi mesi qui sono state costruite dieci
casette bifamiliari colorate, stile villaggio Valtour. Ci sono state portate
altrettante famiglie di nullatenenti, nessuno nato da queste parti, tutti
sopravvissuti per miracolo alla peggiore alluvione che il Venezuela ricordi.

Un programma dell’Inti, profumatamente finanziato dai fondi governativi, ha
creato dal nulla un avveniristico centro agricolo.

Tutto pronto da tempo. Le dieci famiglie, fatte riunire in cooperative,
avrebbero dovuto prenderlo gradualmente in gestione. Per poi emanciparsi dai
sussidi statali (senza i quali al momento creperebbero di fame) cominciando
a commerciare, sempre in forma cooperativa, i prodotti coltivati nel centro.

Esperimenti identici, altrove nel paese, funzionano alla perfezione. Qui, in
quest’angolo sospeso di mondo che qualcuno ha surrealmente battezzato Buenos
Aires, nulla è andato per il verso giusto. I campesinos non ne vogliono
sapere di fare i campesinos. Non partecipano alle assemblee e litigano tra
loro. Da Caracas sono state spedite tre sociologhe, a capire cosa non va.

Tutte e tre rigorosamente vestite di rosso, illustrano con bolivariano
trasporto i dettagli del progetto. Sinceramente costernate dai suoi esiti
discutibili. La mangiatoia non serve: l’abbeveratoio è costruito al
contrario e bisognerà buttare giù tutto prima di farne un altro. La
cooperativa nemmeno funziona, perché loro, i campesinos, non riescono a
mettere insieme uno straccio di assemblea. Spiegazione? «L’opposizione
soffia sul fuoco - dicono tutte e tre - il leader naturale del gruppo si è
lasciato abbindolare dai tirapiedi di Mendoza. Semina zizzania, boicotta il
lavoro e si tira dietro gli altri».

Il tipo in questione è tale Carlito, sguardo torvo e canottiera. Da ore
fissa da lontano il gruppo di ospiti in visita senza avvicinarsi. Poi piomba
come una furia: «Campiamo con i soldi di Caracas. Non ce la faremo mai da
soli». Sembra un deluso inferocito piuttosto che un cinico doppiogiochista.

L’insofferenza verso le tre sociologhe la dissimula a stento. «Non capisco
quando parlano. Sono arrivate qua con le fotocopie e i telefonini. Non mi
ascoltano. Ho presentato un progetto, non mi hanno mai detto che fine ha
fatto». Carlitos, gli chiedono, vediamo cosa non va nell’orto collettivo. Si
rabbuia, mani in tasca, parla a fatica. «Io non lo voglio l’orto con gli
altri. Voglio l’orto mio dove coltivo quello che mi pare e poi lo vendo». La
terra è di tutti, non è tua - gli spiegano con dolcezza affettata - non ci
puoi fare quello che ti pare. «Se non ci posso fare quello che voglio allora
non faccio niente. Io non ci lavoro con i colombiani. Datemi un pezzetto
piccolo. Sceglietelo voi e io lo coltivo». Tira fuori dalla tasca un
foglietto strapazzato. E’ il suo progetto. Quello che da due mesi si è perso
nel labirinto dell’Inti. Parla di quell’idea di coltivare melanzane e yuca
tra le palme con gli occhi accesi. La sociologa lo ascolta distratta e
scuote la testa. Più tardi spiegherà: Buenos Aires è l’unico posto in cui il
piano procede così a rilento. Giura che altrove tutto va a meraviglia.
«Questioni ambientali», dice lei.

Incognite Carlitos a parte, i progetti agrari del governo Chavez hanno vita
difficile ma sono storicamente il primo tentativo di risolvere uno dei più
evidenti paradossi del paese: il Venezuela importa più del 70 per cento del
suo fabbisogno alimentare. Da queste parti, per clima e quantità di terreno
a disposizione, si potrebbe coltivare quasi tutto. Invece lo si importa. Ciò
avvantaggia la grande distribuzione e le imprese di import, tutte private,
ma condanna alla fame i piccoli produttori che infatti non esistono.
Nel pacchetto dei 49 decreti legge varati da Chavez nel novembre 2001, c’era
anche quello che apriva la strada alla riforma. Le proprietà private
produttive non venivano sfiorate da quella prima bozza di testo, tutto
puntato alla spartizione del latifondo.

Lo scheletro della legge è semplice: nessuno può possedere più di 5 mila
ettari (solo la famiglia Boulton possiede un quarto delle terre
venezuelane), i territori coltivabili abbandonati saranno espropriati o
sottoposti al pagamento di una tassa. E’ assai diffusa l’occupazione
illegale da parte di latifondisti che, abituati a considerare proprio tutto
ciò che non è circondato da filo spinato altrui, si sono nel tempo
impossessati di enormi porzioni di terreno pubblico.

La legge viene promulgata a dicembre. A fine 2002 il tribunale supremo, lo
stesso che nell’agosto 2002 dichiarerà improcessabili i generali golpisti
decretando così la loro impunità, annulla due articoli chiave della riforme:
l’89 e il 90. Il primo consentiva all’Inti di garantire i gruppi di
contadini impegnati nell’occupazione di terre pubbliche dichiarate proprie
da un latifondista. Il secondo toglieva il diritto di indennizzo a un
sedicente proprietario espropriato che avesse costruito sulla terra
illegalmente occupata. Il problema verrà poi in parte aggirato da un decreto
in cui il presidente permette l’occupazione delle terre contese.

L’Inti ha sostituito il vecchio istituto nazionale agrario, fedele ai grandi
potentati privati venezuelani. Come avviene in molte istituzioni create a
tavolino dal governo bolivariano, quando si è trattato di dare un personale
all’Inti è stato nominato un vertice politico lasciando che i vecchi quadri
medi restassero ai loro posti. Ciò ha consegnato l’attuazione della riforma
agraria in mano a una burocrazia insediata nei corridoi dell’Istituto da
anni, livorosa nei confronti del nuovo governo, dedita al boicottaggio da
scrivania. A ciò va aggiunta la scarsa familiarità dei venezuelani con
qualsiasi tipo di archivio, figurarsi il catasto. In un paese in cui
un’ampia porzione di popolazione ha due carte di identità o nessuna e non si
riesce a stabilire nemmeno un numero pressoché certo di abitanti, non è
impresa semplice far funzionare un catasto che non è mai esistito. E come si
fa a distribuire terre, macchinari, crediti per mini-imprese, se le
amministrazioni e i ministeri sono popolati da pachidermici impiegati in
buona parte anti-chavisti, che intralciano la realizzazione di ogni
progetto?

A complicare il quadro ci sono le guardie private dei grandi proprietari.
Nella guerra della terra, nel paese del latifondo, si uccide davvero: 80
contadini fatti fuori in 24 mesi.