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DAL GIORNALE AL VOLUME

Publie le giovedì 12 febbraio 2004 par Open-Publishing

Dell’intervento del compagno Bertinotti a Venezia ho un’opinione
decisamente negativa. Tanto per cominciare è stato un intervento già
preparato, le sue conclusioni erano pronte da prima del convegno e non
hanno tenuto nessun conto degli interventi del convegno stesso, soprattutto
dei due più interni all’argomento "foibe", quello di Joze Pirivec e quello
di Giacomo Scotti, che hanno, entrambi, detto cose addirittura in antitesi
con certi "assunti storici" dati per scontati da Bertinotti. In secondo
luogo, come tutto il convegno, era una cosa da fare "prima"
dell’intitolazione del piazzale di Mestre e non dopo, quasi costretti dai
fatti e obbligati a ripiegare in qualche modo sulle posizioni dettate da
"centrosocialisti" e diessini vari. In terzo luogo ho dovuto rilevare la
scarsezza di approfondimento storico sull’argomento: dire che «il nostro
storico Spazzali ha detto che a Basovizza ci sono 600 morti perciò va bene
così» (anche se non nel corso del dibattito ma negli incontri di corridoio)
è cosa sconcertante; Spazzali non è "storico nostro", ma della destra,
anche se democratica e, soprattutto, non risulta aver mai detto
dell’esistenza dei 600 morti a Basovizza.

In quarto è stato politicamente intempestivo, perché andare a valutare
oggi, con conclusioni di quel tipo, le cose significa dare spazio ed
avallare le tesi della destra radicale: voglio vedere come farà Bertinotti
ed il partito a rifiutare la proposta della giornata della memoria delle
foibe istriane fatta da Fini, con tutti i falsi storici, politici e morali
e con l’automatica rivalutazione dei fascisti locali che quella proposta
comporta.

Ma ora scenderò nei dettagli, scusandomi per l’incompletezza della
trattazione, anche perché la cosa per essere fatta seriamente dovrebbe
avere più voci, ma soprattutto molto più tempo. Certo su questi argomenti
bisognerebbe fare molta, molta chiarezza.

Quando in un confronto una delle parti comincia col meschinizzare le idee
dell’altra il confronto comincia molto male, soprattutto se a farlo è la
parte "più forte", quella che è nelle posizioni più visibili e più
rappresentative. Però questa posizione "ridicolizzante" è anche il segno
che le convinzioni di chi discute sono deboli e poco difendibili se non con
metodi discutibili, in quanto la ragione le può smontare e dimostrarne la
pochezza, sia storica che politica. Quindi spero che le posizioni che ora
rileverò del nostro segretario siano solo una caduta di stile e non la
ricerca di questo metodo di demonizzazione dell’"avversario", cosa che nel
passato ha troppe volte attraversato i partiti comunisti e, questa si, cosa
sulla quale bisognerebbe fare non tanto autocritica quanto autoriforma.

La differenza tra fascismo e antifascismo non è certo data solo dai numeri
dei morti, e nessuno ha mai osato sostenere una cosa del genere. Però per
capire (non giustificare) i fatti del passato si deve fare ricerca storica
e capire cosa è successo, scremandolo dai falsi della propaganda, che in
queste terre è stata purtroppo molto attiva sia prima che dopo la guerra.
Fare ricerca storica però significa anche confrontarsi con i fatti, ed i
fatti sono dati anche dai numeri. Perché, nel rispetto di ogni vita umana,
sapere se si tratta di un omicidio, di 10 morti, di 100, mille o diecimila
ha un valore molto diverso, sia dal punto di vista storico che da quello
giuridico (omicidio, omicidio plurimo, strage, genocidio sono valori sia
storici che giuridici diversissimi). Liquidare la cosa dicendo che «ci sono
molti tra noi che su una questione così scottante e così drammatica come
quella delle foibe si azzuffano su una questione di numeri» o «la
manipolazione verso il basso (dei numeri dei morti, ndr) tende a
configurare l’idea che in quelle fosse ci fossero solo fascisti colpevoli»
è un modo rapido ma semplicistico di affrontare la questione. Modo che è
sbagliato e fuorviante per ogni possibile analisi. Certo è buono per
demonizzare chi vuole fare la ricerca storica, soprattutto quando questa
non collima con la scelte politiche che si sono volute assumere anche
contro i risultati della ricerca stessa. Ma così facendo si fa un pessimo
servizio alla storia ed uno ancora peggiore alla politica. Altrettanto
semplicistico è il discorso sul "vuoto di potere" e sullo "scontro tra
poteri" che hanno portato a questi fatti. Certo, queste componenti ci
furono, ma durante la Resistenza vi fu anche contemporaneità di poteri.
C’era la gerarchia militare degli uni ma c’era anche il volontariato, il
rispetto, la collaborazione degli altri. Le repubbliche partigiane, le zone
libere, le aree controllate e tutelate, con le armi e con le battaglie
furono luogo di autogestione e palestre di gestione democratica, ancorché
in armi. Vi furono anche vendette, ma gli atti individuali agli individui
vanno ascritti. A Trieste e nell’Istria, soprattutto nel ’45 furono anche
molto limitate nel numero reale. Tanto che, e questa è storia, vi furono
proteste da parte proletaria perché non si lasciava fare come altrove in
Italia, dove valeva il decreto luogotenenziale che autorizzava
all’uccisione di tutti i volontari delle truppe di Salò. E scusate se è
poco. Comunque il discorso del confronto tra "poteri" diversi esiste
continuamente. Anche oggi il dire "un altro mondo è possibile" (slogan che
andrebbe almeno specificato con un auspicio concreto, perché anche il
fascismo è possibile "altro" rispetto all’attuale governo) significa
scontro di poteri. Fare politica significa scontro di poteri, tra quello
che esiste con le sue regole vigenti e quello auspicato, con le regole che
si propongono. Dietro questa spiegazione dei fenomeni esiste solo, scusate
il bisticcio, banale banalizzazione, che nel non spiegare nulla lascia
liberi tutti di dire ciò che si vuole. Certo permette di fare il successivo
salto logico dei "regimi contrapposti" che si sarebbero affrontati a
Trieste, cioè degli estremismi opposti, fascismo e movimento partigiano
comunista, che portano entrambi a lutti e distruzioni. Forse non era questa
la volontà di Bertinotti, ma è questa la sola lettura possibile delle sue
parole.

La critica dei crimini del fascismo non è mai servita, tra i compagni seri,
a giustificazione per non fare i conti con la nostra storia né per darsi
alla vendetta ed alla distruzione indiscriminati, dove fare giustizia da
parte delle autorità, con metodi anche criticabili, è e deve rimanere altro
dalla vendetta personale. Gli storici seri hanno sempre cercato di
collegare tra loro i fatti e di capire il perché del succedersi degli
avvenimenti. Dire che una cosa avvenuta è stata il motore di cose
successive non è giustificazionismo, è studio storico. Nulla accade a
partire da un punto, senza fatti precedenti. Così in ogni rivolta, in ogni
tensione sociale nei secoli, vi sono fenomeni che hanno portato al punto di
rottura, che lo hanno determinato e che hanno, in parte, determinato il
tipo di azione. Imporre, per il fascismo, di dimenticarlo, pena rischiare
di passare tra i "giustificazionisti dei nostri errori" è antistorico, dire
che questo può portare ad aspetti negativi è chiudere la porta in faccia
all’analisi storica dei fatti e criminalizzare chi la fa. Certo sta agli
uomini, anche ai compagni, non crearsi miti intoccabili ma ricordare sempre
che tutti, noi come chi ci ha preceduto, siamo solo umani con pregi e
difetti. Ma detto questo, sulla resistenza, bisogna sempre ricordare che vi
fu chi combatté (magari per motivi personali "buoni") dalla parte della
sopraffazione fisica e morale, dalla parte del "superuomo" con diritto di
vita e di morte, dello sfruttamento del lavoro schiavizzato, del diritto di
eliminare intere etnie e gruppi perché considerati inferiori e chi lottò
(magari con motivazioni personali abiette) contro tutto ciò, anche con le
sue contraddizioni. E questa è storia, non esaltazione. Comunque, se si
vuole vedere il male bisogna vederlo in ogni luogo in cui si annida. Ad
esempio bisognerebbe, cosa mai fatta, affrontare il tema della "doppia
resistenza", di chi partecipò per arrivare alla rivoluzione sociale, con un
mito (forse errato) di socialismo, e chi partecipò su posizioni chiaramente
reazionarie, di legame con la monarchia e con il capitalismo, con il
criminale di guerra Badoglio, contro il movimento proletario. Dire che
Sogno, la Franchi, la Osoppo erano gruppi reazionari, favorevoli al cambio
della guardia dirigente, non al cambiamento della società, che a volte
(molto spesso) trovavano linee di accordo con i fascisti e con i
capitalisti contro i partigiani rossi, lasciandoli massacrare o isolandoli
è dire fatti. Fu giusto reagire e si reagì nella maniera giusta? Non spetta
a noi giudicare. Successe. Possiamo valutare i risultati, e dire che non
furono positivi.

Sapere dove si poteva evitare di commettere abusi, e quali siano stati
commessi, è importante per evitare in futuro di commetterne. Ma se proprio
si voleva fare questa presa di coscienza perché non si sono prese ad
esempio altre situazioni, dove gli ordini precisi erano di "fucilare" tutti
i volontari della Rsi, senza distinzione? I partigiani jugoslavi (serbi,
croati, sloveni, italiani, tedeschi, ecc.) hanno, invece, come riconosciuto
da tutti, anche dagli storici di destra, sempre operato con sistemi di
Stato. Ogni arresto doveva avere delle prove concrete per venir mantenuto.
Ogni arrestato doveva risultare accusato da almeno tre accusatori di
crimini precisi. Che poi in alcuni casi ci siano stati abusi di singole
persone è cosa che riguarda loro e va oltre quelle che erano le precise
disposizioni dei vertici, che chiaramente dicevano di colpire in base al
fascismo e non in base all’etnia e invitavano i comandanti a frenare
l’eccessiva solerzia di alcuni attivisti. Processi contro gli eccessi li
fecero, e quanti, gli stessi jugoslavi anche nel corso della guerra.
Comunque non si può, neppure in questo caso, colpevolizzare il movimento. A
meno che non si intenda sostenere che "italiano" è comunque più buono che
"salvo" e che era meglio essere fascisti ma italiani che jugoslavi e
comunisti.

Il problema della violenza è stato, poi, affrontato molto superficialmente
e su fatti lontani. La non violenza è certamente un fatto positivo. Se
posso ottenere delle cose senza ricorrere a coercizioni è bene. Ma a volte
già solo per chiedere e farsi sentire si deve gridare. E’ violenza? Gli
scioperi di questi giorni per certe persone sono violenza: contro le
regole, contro le persone, contro le cose. E seguendo la logica in senso
stretto si può concludere che è vero. Lo sciopero è una forma di
coartazione, di ricatto, di pressione: quindi di violenza. Ma se noi
conquistiamo dei successi democraticamente, ad esempio il Cile di Allende,
cosa dobbiamo poi fare? Lo sciopero con sit-in per bloccare ogni movimento?
Buona ipotesi, ma resta ipotesi che non ha mai visto luce dei fatti. Certo,
fino a quando la via politica è praticabile e può dare dei risultati si
deve perseguire la via politica. Cedere al mito del "vietkong vince perché
spara" (oggi Zapatista con le armi) è stato deleterio in passato e sarebbe
ancor più deleterio oggi. Esiste oggi un fermento, al quale dobbiamo
garantire lo spazio di agibilità. Un fermento che non deve percorrere la
strada dell’estremismo, giustamente definita a suo tempo "malattia
infantile del comunismo". Un fermento che deve poter crescere, deve poter
svilupparsi nelle forme e nelle direzioni positive che collettivamente
saprà trovare e sviluppare. Con l’aiuto anche della conoscenza degli errori
del passato, che è il miglior modo per evitarne la ripetizione. Cosa che
significa sostanzialmente anche con la conoscenza del passato, non con la
sua demonizzazione. E con la conoscenza del pensiero dei compagni che hanno
fornito strumenti teorici al movimento proletario. Essere "nuovi" non
significa dover ogni volta ripensare tutto di nuovo, ricostruire tutto ogni
volta da zero. I pensatori del passato costituiscono un trampolino per il
futuro. Significa passare il tempo a studiare e non fare? No, significa non
dichiarare ad ogni piè sospinto chiuse certe esperienze e sepolti certi
valori ed autori (Marx, Lelin, …), significa non esorcizzare come mefitico
un passato, quello delle lotte di liberazione di intere società, solo
perché gli esiti non sono stati quelli che oggi, a cose fatte, noi avremmo
desiderato.

Ma riprendiamo col convegno. Auschwitz e Hiroschima sono veramente diverse
come dice Bertinotti? No, strutturalmente no. Sono entrambe frutto del
capitalismo, delle sue necessità e delle sue volontà. Esattamente come
Dresda e Amburgo. Volontà di vincere la guerra, ma non necessariamente con
meno lutti. Anzi, con una quota di distruzione di popolazione civile non
combattente tale da terrorizzare chi avesse intenzione di proseguire, per
esempio, sulla via dell’espansione non dell’Onu ma dell’Urss. Probabilmente
questa espansione non avrebbe avuto risultati positivi, viste le
degenerazioni dei partiti, anche di quelli comunisti, nell’Europa pre e
post-bellica, ma noi possiamo parlarne solo col "se". Certo è invece che il
trionfo del capitalismo ha portato enormi danni alle società umane. Lo
stato agonico in cui versa il sud America e, ancor più, tutta l’Africa (con
decine di milioni di morti per fame, malattie e guerre) da decenni è un
esempio evidente degli effetti devastanti del colonialismo prima e
dell’imperialismo poi messi in campo dal sistema capitalista.

Non si capisce perché noi si debba continuamente fare ammenda dei morti dei
gulag (morti che pesano, e come, anche sul nostro presente, ma dei quali
non abbiamo mai esaltato l’uccisione e che mai abbiamo contribuito a far
arrestare), mentre nessuno addossi mai, nemmeno tra i compagni, quei morti
africani, sudamericani ecc. al capitale, che si guarda sempre molto bene
dal riconoscerli come frutto necessario e non eliminabile del suo sistema.
E’ questo un modo di dire "voi uccidete più di noi"? No, si tratta solo di
sapere che certe cose sono state fatte cedendo, nella maggior parte dei
casi, al frutto degli anatemi settari e demonizzanti gruppi e movimenti
interi, dobbiamo imparare, volendo cambiare la società, a non ricadere in
questi errori. Ma tenere sempre presente che mentre noi soffriamo per quei
morti il capitale continua a farne ogni giorno migliaia senza mai soffrire
per loro.

Nella lotta poi, è vero che oggi il fascismo non è più il nemico? Solo se
si considera il fascismo come un corpo a sé stante. Ma se si vede nel
fascismo solo una delle forme del capitale, come la guerra e come il
terrorismo, allora ci si rende conto che bisogna sì combattere il sintomo
più evidente e minaccioso del sistema (e che oggi questo è la guerra più
che il fascismo) ma che per vincere si deve combattere il capitalismo e la
sua iniqua ripartizione dei beni. Altrimenti sarebbe come combattere con
l’aspirina le sofferenze date da un cancro.