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Da Baghdad a Najaf, Iraq di nuovo in fiamme

Publie le giovedì 19 agosto 2004 par Open-Publishing

di Marina Mastroluca

È l’ultimo appello, l’ultima possibilità. Il premier iracheno Allawi lascia aperto uno spiraglio, mentre i carri armati statunitensi sono ormai a duecento metri dal mausoleo di Ali, dove sono asserragliate le milizie di Moqtada Al Sadr. A Najaf si combatte sin dal mattino, nessuna traccia della tregua che il giorno prima l’imam ribelle aveva sollecitato, per allontanare - come promesso - i suoi miliziani dai luoghi sacri. Promesse senza credito, la fiducia non è moneta sonante nelle mani di Al Sadr. Il governo di Baghdad per questo chiede all’imam ribelle un impegno scritto, diretto, personale, in cui dichiari una volta per tutte la sua disponibilità al disarmo. Stavolta senza intermediazioni, senza portavoce. La sua firma, nero su bianco su un documento che dica chiaramente che l’imam sciita radicale accetta di sciogliere l’esercito del Mahdi, di allontanare le milizie dai luoghi santi e di convertire i suoi seguaci armati in un movimento politico. «Abbiamo appreso che Moqtada Al Sadr è pronto a rispondere alle richieste del governo e della Conferenza Nazionale», concede Allawi, che però esige una «presa di posizione ferma e decisa tramite una dichiarazione personale».

Il tempo concesso è agli sgoccioli, il premier non fissa un termine preciso, sfumando i toni dell’ultimatum di mercoledì scorso pronunciato dal ministro della difesa Shaalan, che minacciava una sonora lezione se i ribelli non avessero accettato le condizioni del governo, e subito. In mattinata un portavoce dell’esecutivo aveva usato toni più spicci, minacciando ancora le maniere forti, a meno di una pubblica presa di posizione di Al Sadr in conferenza stampa: la sua faccia davanti alle telecamere, a garanzia dell’impegno di disinnescare la rivolta e disarmare non solo a Najaf ma anche nelle altre sette città coinvolte.

Al Sadr a questo punto chiede un mediatore, per trattare sui dettagli del ritiro. Ma la sua è una risposta a più voci, dai tanti collaboratori e guardaspalle che lo circondano. Lo sceicco Ahmed Al Shibani assicura sugli impegni presi il giorno prima con la delegazione spedita dalla Conferenza Nazionale a Najaf. «Abbiamo solennemente giurato di volere la pace e non accettiamo nient’altro che la pace», dice. Ma non concede nulla sulle nuove richieste del governo, che vengono respinte recisamente. «Siamo pronti a sacrificarci a migliaia», giura lo sceicco Aws Al Khafagi, davanti alle telecamere di Al Jazira e promette «un uragano nella regione» se gli americani dovessero irrompere nel mausoleo di Ali. «Gli interessi americani e quelli dei paesi che dovessero partecipare sarebbero a rischio in tutto il mondo», proclama. E annuncia che la popolazione del sud dell’Iraq ha minato pozzi e oleodotti ed è pronta a passare all’azione. «Se c’è una cospirazione americana... saremo felici di morire martiri della nazione», dichiara un ennesimo portavoce di Al Sadr, Ali Sumeisim.

La guerra di dichiarazioni si accompagna agli scontri nelle strade. Da Najaf si alzano colonne di fumo nero, gli elicotteri Usa sorvolano la città santa e colpiscono dall’alto. Al Jazira parla di un attacco aereo, sarebbe stato centrato l’hotel Doha. I colpi sfiorano anche il mausoleo di Ali, dove secondo la Cnn ci sarebbero anche molte donne e bambini. Tiri di mortaio colpiscono una stazione di polizia, uccidendo otto persone, una trentina i feriti. Una vittima anche tra le file americane. Una mina esplode al passaggio di un convoglio della Croce rossa italiana, vanno i frantumi i vetri di un mezzo carico di medicinali e di un ambulanza, lievemente ferito un autista iracheno, illesi i volontari - che per altro non sarebbero stati autorizzati vista l’estrema insicurezza sul terreno.

Il fuoco è intenso, ma a ondate. Sembrerebbe non ancora scattata l’offensiva finale, annunciata a più riprese dal governo e ribadita ieri pomeriggio da Allawi, come soluzione ultima per riportare la legalità, una volta fallite le vie pacifiche. Ma che la pazienza sia al limite, lo dice lo stesso primo ministro iracheno, che risponde stizzito a chi gli chiede dei combattimenti a Najaf. «Non ci sono combattimenti. Ma forze irachene contro fuorilegge», dice.

È più che evidente che il governo di Baghdad non si fida e lo dice chiaramente, riecheggiando il parere pronunciato a Washington da Condoleezza Rice, quasi un segnale d’attacco. «Non credo che possiamo credere ad Al Sadr. Penso che dobbiamo vedere fatti, non solo parole», dice la consigliera per la sicurezza nazionale.

Il braccio di ferro su Najaf per Condy Rice è un test politico, un esame di maturità per il governo iracheno. E non c’è dubbio che lo sia. Allawi ha poco margine, deve stanare le milizie ribelli da Najaf senza toccare il mausoleo di Ali, scatenando le suscettibilità della comunità sciita. Peggio che mai se nell’impresa dovrà valersi dei militari americani. Ma non potrà tollerare a lungo la rivolta.

Ieri, per la seconda giornata consecutiva le forze americane hanno attaccato Sadr City, il misero sobborgo sciita della capitale dove sono attestate le milizie fedeli ad Al Sadr. Durante la notte c’era stata un’operazione su vasta scala, a caccia di armi, tank e blindati usa pattugliano le strade. «Non ci eravamo mai spinti così tanto in profondità», sostengono i militari Usa, secondo i quali nell’azione sarebbero stati uccisi 50 iracheni. Il ministero della sanità riferisce di 22 morti nella capitale nelle ultime 24 ore. Due soldati polacchi sono rimasti uccisi a Hilla, in un incidente stradale provocato da tiri di mortaio. In serata una bomba di mortaio ha colpito il tetto dell’ambasciata Usa, ferendo in modo lieve due dipendenti americani della legazione.

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