Home > “Dead in the Usa”
di Bianca Cerri
Alcuni intellettuali americani, intervistati recentemente, hanno affermato di
non riuscire ad intravedere un grande futuro, nè per gli Stati Uniti nè per il
resto del mondo dati i tempi. Tra pochi giorni,alla Casa Bianca ci sarà il cambio
della guardia, visto che la campagna elettorale volge al termine e, comunque
vadano le cose, il presidente eletto avrà la pelle bianca, sarà infinitamente
ricco, affamato di potere, innamorato di sè e patriottardo quel tanto che basta
a veder scorrere volentieri il sangue degli altri. Ci sarebbe un’alternativa,
un uomo che non concepisce le guerre e che ritiene giusto estendere l’assistenza
sanitaria a tutti i cittadini indiscriminatamente ma che, proprio a causa di
queste eccentriche posizioni, non ha alcuna possibilità di vincere.
Il prossimo due novembre, giorno fissato per la consultazione elettorale negli Stati Uniti, i riflettori di tutto il mondo saranno puntati su Washington e la proclamazione del vincitore sarà accompagnata dalla consueta coreografia di giochi pirotecnici, palloncini e coriandoli, per altro poco intonati alle politiche di guerra sostenute indifferentemente sia dall’uno che dall’altro principale candidato.
Mentre esploderanno grida d’entusiasmo per il nuovo leader, nel palazzotto in stile vittoriano di Huntsville, in Texas, un altro uomo entrerà silenziosamente nella camera della morte e, per lui, ci sarà solo la fioca luce di poche candele accese dagli abolizionisti. Lorenzo Morris, 51 anni, sarà giustiziato proprio nelle stesse ore in cui il resto del paese festeggerà l’elezione del novello presidente.
Percorrerà in silenzio quello che Stephen King ha chiamato il "miglio verde", ovvero il percorso che va dalla camera della morte a quella delle esecuzioni. Per lui non sono previste cerimonie nè inni nazionali. E benchè la Costituzione degli Stati Uniti affermi che qualsiasi cittadino americano, a prescindere dalla classe sociale e dal colore della pelle, può aspirare a diventare presidente, questo magnifico proponimento non si è mai concretizzato.
Nessuno ha mai visto alla Casa Bianca un afroamericano, una donna o, Dio non voglia, un povero. La realtà non ci ha privati invece di storie di vite lacerate dal disagio sociale e poi usate come capro espiatorio per nascondere abilmente la corruzione della giustizia penale.
Ora è giunto il turno di Lorenzo Morris, che vivrà le sue ultime ore ignorato completamente dal paese troppo preso dagli exit polls per ricordarsi di lui. Se la fortuna gli avesse offerto carte migliori, Morris potrebbe essere un testimone prezioso di molti eventi della storia americana, essendo nato quando era ancora in vigore la segregazione e i bambini neri non potevano andare a scuola assieme ai bianchi e i reduci di guerra altrettanto neri, dopo aver rischiato la vita, si vedevano sbarrare l’ingresso dei bar.
Quando Martin Luther King aveva dato vita alla grande speranza del Sud, quella di mettere fine alla sofferenza delle comunità di colore, Morris era ancora un bambino che viveva in una famiglia dove miseria e violenza scandivano i ritmi quotidiani. Ridotti all’indigenza totale, i genitori avevano abbandonato Lorenzo in un istituto, dove era rimasto sino ai 17 anni, età in cui, in Texas, si diventa maggiorenni.
Il Pentagono lo aveva spedito immediatamente in Vietnam perchè c’era ancora la leva obbligatoria e l’unica alternativa era la Corte Marziale. Nel sud-est asiatico, Lorenzo aveva trovato una famiglia nei commilitoni, tutti tra i 17 ed i 20 anni e tutti con il compito di sterminare un popolo che mai aveva attentato alla sicurezza degli Stati Uniti. Mandati allo sbaraglio su un territorio sconosciuto molti di loro scomparvero colpiti dal cosiddetto “fuoco amico” o saltati in aria “saggiando” i campi minati.
Lorenzo Morris vide gli uomini con cui aveva condiviso pane e lacrime diventare statue di bronzo, uno dopo l’altro. A poco a poco, l’esercito si stancò di combattere, stanco del fango che si attaccava al corpo come una seconda pelle e il Pentagono, per rendere più governabili gli uomini, inviò al fronte quintali di droga che, per migliaia di giovanissimi americani stremati dalla giungla e dall’umidità, significò la dipendenza a vita. Se un uomo vacillava, veniva bollato come "asociale" e rispedito in patria. Nel 1975, l’esercito USA tornò a casa sconfitto, a dispetto dei tre milioni di bombe al napalm gettate su un popolo inerme, ma i reduci non avrebbero mai dimenticato l’orrore del fronte e almeno 300.000 finirono suicidi mentre altri 80.000 non ebbero mai più una casa e finirono per dormire nelle strade, con ancora il “purple heart” appuntato agli abiti.
Per i più giovani, aggiogati alla droga, ci fu solo la strada del crimine e Lorenzo Morris fu tra quelli che arrivarono ad aggredire un altro uomo per derubarlo e procurarsi una dose. La vittima dell’aggressione di Morris si chiamava Jesse Fields e viveva a Houston. Ferito in modo non grave, era stato trasferito in ospedale, ma la negligenza dei medici gli aveva procurato dolorose piaghe da decubito.
Gli investigatori avevano già arrestato Morris, che si trovava in prigione quando Fields morì a causa di una sopravvenuta cancrena sfociata in setticemia per mancanza di attenzione. Il giudice di Houston cui era stato affidato il caso, per non mettersi contro la potentissima lobby dei medici, condannò il giovane afroamericano a morte. Lorenzo Morris, nato nell’indigenza assoluta, privato di una famiglia, mandato a 17 anni nell’inferno del Vietnam, che aveva voluto vivere a tutti i costi, ha dovuto cedere ad uomini più potenti l’ultima cosa che gli restava: la sua vita.
La sera del due novembre percorrerà in silenzio, per non disturbare, il miglio che lo condurrà verso la morte, mentre un miliardario andrà alla guida del paese.
Bianca Cerri
b.cerri@reporterassociati.org
http://www.reporterassociati.org/index.php?option=news&task=viewarticle&sid=3918
Messaggi
1. > “Dead in the Usa”, 7 ottobre 2004, 19:11
Cara Bianca,
stai diventando una giornalista di classe che scrive in modo vivace cose importanti, interessanti e coinvolgenti.
Cari saluti
Giuseppe