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Democrazia, pace e sviluppo: le sfide perenni dell’America Latina
Publie le giovedì 12 agosto 2004 par Open-Publishingdi Francesco Martone
"Ritorno al futuro" per l’America Latina? Il rischio c’è, basta dare un colpo d’occhio alla situazione interna di molti paesi del continente. Una miscela detonante composta dal crescente disincanto per l’azione politica del governo Lula, dal delicato passaggio referendario in Venezuela, dal rafforzamento della scelta di guerra totale fatta dal governo Uribe in Colombia, dal crollo di popolarità e sostegno popolare ai governi di Gutierrez in Ecuador e di Toledo in Perù, dal duro conflitto sociale in Bolivia, dalle difficoltà del Presidente argentino Kirchner di tenere testa al Fondo Monetario Internazionale. Se ciò non bastasse, alcuni preoccupanti indizi contribuiscono ad aumentare i timori per molti paesi latinoamericani. L’International Herald Tribune del 13 giugno scorso in una breve nota "The Pentagon looks South", ci avverte che il Pentagono sta guardando con interesse all’America Latina a differenza di quanto stiano facendo il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca. I capi del Pentagono stanno suggerendo alle élite militari latinoamericane di riconquistarsi un ruolo centrale nei loro paesi soprattutto per ciò che concerne la sicurezza e la lotta al terrorismo. L’IHT sottolinea come un ritorno alle vecchie dittature militari di un tempo sia improbabile ma che un nuovo ruolo dei militari indebolirà di certo queste nuove democrazie. Non erano bastati i "boatos" del Pentagono e del Dipartimento di Stato americano sulla presenza di cellule di Al Qaeda nella foresta tropicale ecuadoriana, o di nuclei di Hezbollah nella "Triple Frontera", tra Paraguay, Argentina e Brasile. Ora ci pensa il Generale James Hill, comandante in capo del Comando Sud delle forze armate statunitensi che in un recente briefing al Senato USA ebbe a dire:"I terroristi che operano nella regione sotto la mia (sic!) giurisdizione bombardano, uccidono, sequestrano, trafficano in stupefacenti, contrabbandano armi, riciclano denaro sporco e trafficano in esseri umani".
Certamente alcune di queste osservazioni possono essere pertinenti alla Colombia (anche se sarebbe bene specificarne i destinatari, visto che molte delle attività denunciate sono svolte anche dai paramilitari oggi graziati dalla generosa politica di amnistia del Presidente Uribe) o in Perù (dove stanno crescendo le bande paramilitari vicine all’ex-Presidente Fujimori).Generalizzare però il rischio del terrorismo è solo strumentale ad un disegno di controllo militare di tutto il continente e di progressivo fiaccamento di ogni esperienza politica e sociale che va contro gli interessi di Washington. Se ieri il nemico principale era il Comunismo oggi è il terrorismo, infarcito alla bisogna di una connotazione religiosa integralista. Inoltre se ciò non bastasse, i solerti ufficiali del Pentagono ritengono che gli eserciti latinoamericani possano svolgere un importante compito nella lotta al crimine organizzato ed alle bande criminali ed alle "pandillas" urbane (fenomeno che soprattutto in America Centrale ha raggiunto le dimensioni di una "transnazionale" dei disagio giovanile) , a discapito di forme di cooperazione tra le varie polizie, servizi di "intelligence" e di rafforzamento del sistema giudiziario e di lotta alla corruzione. Da Washington parte quindi un segnale di possibile militarizzazione delle funzioni di sicurezza degli stati latinoamericani. A questo preoccupante sviluppo va aggiunto un altro dato cruciale: la progressiva perdita di fiducia delle popolazioni latinoamericane nella democrazia. In un rapporto prodotto da un team di esperti indipendenti latinoamericani per conto delle Nazioni Unite e reso noto nell’aprile scorso, si evidenzia infatti un trend preoccupante. Il 55 percento delle persone intervistate hanno dichiarato di poter sostenere in governo autoritario a condizione che produca degli effetti economici positivi. Il 58 percento degli intervistati concordano sul fatto che i capi di stato possano andare oltre la legge se necessario, ed il 56 percento ha affermato di preferire di gran lunga lo sviluppo economico alla democrazia. Il rapporto inoltre riscontra come dal 2000 quattro presidenti eletti nei 18 paesi oggetto dell’indagine abbiano dovuto lasciare l’incarico prima della scadenza del loro mandato a causa del crollo di popolarità.
Un destino che può colpire molti altri capi di stato in futuro. Ora, a ben guardare, i risultati di questa indagine evidenziano la forte relazione che esiste tra un modello economico neoliberale, imposto con il cosiddetto Consenso di Washington, causa nel passato della cosiddetta "decade persa" causata dalle crisi finanziarie degli anni ’80, e lo sfilacciamento progressivo del tessuto democratico già di per sé estremamente fragile, a causa di residui di caudillismo, corruzione, approccio autoritario alla gestione della cosa pubblica che da sempre hanno caratterizzato l’operato delle élite di potere latinoamericane. Il rapporto dell’ONU infatti mette sotto accusa la profonda ineguaglianza sociale, la lenta crescita economica, e l’esistenza di servizi legali e sociali inefficienti come cause principali della scarsa fiducia nei governi eletti. Inoltre la generazione latinoamericana cresciuta nella democrazia non ha visto alcun aumento del reddito procapite a fronte di un aumento delle ineguaglianze nella distribuzione del reddito. Il punto da evidenziare è che tali fattori sono in gran parte sinonimo degli effetti devastanti del debito estero contratto negli anni dai questi paesi e dei piani di aggiustamento strutturale imposti dal Fondo Monetario Internazionale, e dalla Banca Mondiale.
Secondo il rapporto "Development Strategies in a globalizing world" pubblicato dall’UNCTAD (Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo) nel 2003, le politiche economiche neoliberiste hanno portato nel corso degli anno 90’, anche in America Latina "ad una crescita ineguale e volatile con dinamiche di polarizzazione molto più forti che quelle di convergenza". In Messico ciò a comportato lo spostamento delle "maquiladora" (laboratori semiclandestini di assemblaggio) in Cina con conseguente perdita di posti di lavoro ed un aumento del numero di migranti rurali, 250mila che si aggiungono a 4 milioni che già migrano verso gli Stati Uniti. Rubens Ricupero, Segretario Generale dell’UNCTAD, organismo che nel mese di giugno ha tenuto la sua sessione annuale a San Paolo in Brasile ha dovuto pertanto ammettere che "gli squilibri economici globali hanno generato shock di grave entità e alta frequenza, e l’America Latina ha vissuto una mezza decade persa, che ricorda la situazione degli anni ’80". A questo si aggiunge la reticenza dei paesi ricchi, Stati Uniti ed Europa in primis, ad accettare la revisione dei termini di scambio commerciale, e dei meccanismi di accesso ai mercati che è stata alla base del flop di Cancun.
All’ultimo G8 di Sea Island, i grandi della Terra non sono stati neanche in grado di avanzare in maniera soddisfacente i propri impegni per la cancellazione totale del debito multilaterale dei Paesi poveri maggiormente indebitati, alcuni dei quali anche in America Latina, destinando solo un miliardo di dollari contro i 3,3 necessari allo scopo ed estendendo l’iniziativa HIPC, già carente e consunta, per altri due anni. L’FMI - di fatto controllato politicamente dagli USA e dai G8 - continua ad esercitare il suo ruolo di gendarme degli interessi finanziari internazionali, intrattenendo un logorante braccio di ferro con il governo Kirchner, e proseguendo imperterrito nella sua politica di austerità fiscale e di tagli alle spese sociali. Terzo ed ultimo elemento è l’aumento dell’emigrazione dall’America Latina. Anche questo fenomeno oggetto di un accurato studio "Migraciòn desde America Latina hacia Europa: Tendencias y Desafios Politicos", pubblicato nel maggio scorso dall’ Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) relativo in particolare ai futuri scenari di immigrazione latinoamericana in Europa. Secondo lo studio prodotto da Adela Pellegrino dell’Università Statale della Repubblica dell’Uruguay, negli ultimi anni si è prodotto un marcato spostamento nei trend migratori dall’America Latina verso l’Europa in particolare verso paesi come Spagna ed Italia. Ad esempio la popolazione latinoamericana e caraibica in Spagna è passata dal 92.642 persone nel 1995 a 514.485 nel 2003, con la maggior parte dei nuovi arrivi concentrati negli ultimi 3 anni. Fattori principali di mutamento delle dinamiche tradizionali sono la crisi economica e l’irrigidimento dei controlli migratori e del regime di visti di ingresso negli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2003. Lotta al terrorismo e crisi economica, due costanti che si ripetono anche in questo caso. Ulteriore elemento critico sollevato dal rapporto riguarda le rimesse degli emigrati, rimesse alle quali sia l’OIM che le istituzioni finanziarie internazionali, ed il G8 considerano di gran rilevanza.
L’ammontare medio di denaro rispedito in patria dagli immigrati latinoamericani in Europa supera di gran lunga quello proveniente dagli Stati Uniti. In tutto il mondo il numero di emigranti è passato dai 75 milioni nel 1965 a 175 milioni nel 2002.mentre le rimesse globali che nel 1980 erano pari a 43 miliardi di dollari, nel 2003 hanno superato la cifra di 80 miliardi di dollari. E’ stata proprio l’America Latina ad essere la principale beneficiaria nel 2003 di questo flusso di valuta pregiata, con un totale di 38 miliardi di dollari in rimesse. In alcuni casi, come in quello dell’Ecuador le entrate rappresentate dalle rimesse sono tra le principali fonti di valuta pregiata, allo stesso livello dell’esportazione di materie prime quali il petrolio. Se da un canto le rimesse possono rappresentare una possibile risorsa finanziaria aggiuntiva per lo sviluppo nei paesi di provenienza, dall’altro non possono essere sostitutive degli impegni presi e mai rispettati dalla comunità internazionale per il finanziamento della lotta alla povertà, della cancellazione del debito estero e del perseguimento degli obiettivi di sviluppo del Millennio. Anzi, le rimesse sono flussi finanziari di media durata non continuativi giacché si presume che con la crescente integrazione degli immigrati di seconda generazione nei paesi di arrivo, questo flusso verrà via via diminuendo. Fare affidamento alle rimesse come risorsa finanziaria per lo sviluppo per contro renderà le economie dei paesi di provenienza quasi del tutto dipendenti dall’esportazione di manodopera a basso costo, e dall’emorragia continua di competenze e capacità.
Di conseguenza verrà vanificato ogni sforzo endogeno volto alla formazione di nuove classi dirigenti ed imprenditoriali locali con gravi ripercussioni sulle prospettive di rilancio dell’economia, di rafforzamento della "governance" e dei sistemi democratici. Ultimo ma non da meno, come sottolinea l’economista ecuadoriano Alberto Acosta, in un suo brillante saggio "Opportunità e minacce economiche dell’emigrazione" prodotto per il progetto Transmigrared nell’aprile di quest’anno, grazie all’aumento delle rimesse degli emigranti, molte famiglie di classe media e bassa hanno visto migliorata la loro situazione economica, con conseguente calo della partecipazione alle proteste sociali. Ne è prova evidente il recente fallimento della mobilitazione de movimenti sociali ed indigeni a Quito.
Secondo Acosta, le rimesse svolgono un ruolo importante di attenuazione delle differenze socio-economiche, ruolo che di fatto dovrebbe spettare allo Stato. Così, "grazie alle rimesse, lo Stato può applicare con più libertà i suoi programmi economici (spesso a detrimento degli investimenti nel settore sociale) senza timore di dover affrontare una recrudescenza delle proteste popolari". Pertanto l’emigrazione, riducendo le tensioni politiche, si converte "in una minaccia per la forza politica dei movimenti sociali" che hanno visto perdere poco a poco i loro leader e base. Con un rinnovato ruolo strategico e politico delle classi militari, la nostalgia per il passato, la perdita di fiducia nella democrazia, l’emorragia di competenze e conoscenze, una progressiva erosione della capacità di mobilitazione popolare i rischi di un nuovo modello autoritario "leggero" sono grandi in America Latina. Il paradosso é che se da una parte alcuni leader latinoamericani, primi fra tutti Lula e Kirchner hanno sviluppato una gran capacità di proiezione internazionale e continentale della loro politica (da Cancun, alle varie dichiarazioni congiunte nei confronti dell’FMI, al rilancio di un modello di cooperazione rafforzata alla creazione di un blocco commerciale latinoamericano per agevolare gli scambi commerciali sud-sud) dall’altra è sul territorio che tali politiche rischiano di non essere accompagnate da altrettanta vivacità. Anzi, proprio in virtù dei fattori qui descritti, rischiano di essere solo un diversivo alle gravi difficoltà che quei governi incontrano a livello nazionale. Come uscire da quest’impasse? Indubbiamente uno degli elementi cruciali per una democratizzazione dal basso in America Latina è quello di sostenere le iniziative di recupero della memoria storica, per ricordare soprattutto alle nuove generazioni le tragedie ed i drammi che le dittature militari hanno causato a tutto il Continente, denunciando al contempo gli effetti di una guerra permanente ed a bassa intensità contro i diritti umani in America Latina. Questo però non basta: al debito politico va aggiunto anche quello economico, giacché esiste una forte correlazione tra i due. La possibilità di una trasformazione radicale dei modelli economico-produttivi e della creazione di prospettive di sviluppo sociale passa necessariamente attraverso la destrutturazione del rapporto di subordinazione dei paesi latinoamericani alle decisioni del capitale e delle istituzioni finanziarie internazionali, Fondo Monetario Internazionale in primis. La questione del debito estero va affrontata pertanto come questione politica e non esclusivamente contabile, e risolta in maniera equa, trasparente e partecipata attraverso meccanismi innovativi di tipo arbitrale quali il Tribunale del Debito. All’effetto "anestetizzante" delle rimesse e dell’aumento dei flussi migratori, va accompagnata da parte dei movimenti sociali e delle forze politiche di sinistra europee una scelta a tutto campo a fianco dei migranti, per i loro diritti fondamentali, e per il loro riconoscimento come soggetti politici, non in quanto categorie "protette", agevolando la loro inclusione come parte integrante dei movimenti per un’altra globalizzazione. L’occasione per farlo è alle porte. Dal 25 al 30 luglio prossimo si terrà a Quito il Primo Forum Sociale delle Americhe, al quale parteciperanno attivisti ed organizzazioni non governative e movimenti sociali delle Americhe. In quei giorni si potranno tracciare le linee di un percorso allargato di elaborazione programmatica , sperimentando nuove alleanze e iniziative per cercare di trasformare quella attuale nella decade della nuova politica dei movimenti e dei diritti in America Latina ed in tutte le Americhe.