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Dibattito su violenza e nonviolenza/Quinta puntata Ma perché gli uomini fanno le guerre?

Publie le venerdì 30 gennaio 2004 par Open-Publishing

Gli studi sull’aggressività umana non hanno mai spiegato perché gli umani,
al contrario di tutti gli altri animali esistenti, si dedicano a lotte
contro i propri simili. Perché, insomma, abbiamo inventato le guerre

Con il suo discorso su violenza-e-non Bertinotti fa la cosa giusta. Forse
la cosa più vicina a una vera «rifondazione». Non solo del comunismo ma
della società in toto. Non limitarsi ad auspicare la non-violenza, ma farne
una proposta politica e affermarne la necessità, è il gesto politicamente
più radicale, anzi il più sovversivo, il più carico di conseguenze, e
insieme il più attuale, che oggi si possa compiere. E lo dimostra il fitto
e appassionato dibattito che da un paio di settimane dopo l’intervento del
segretario si svolge su «Liberazione», allargandosi anche sul «manifesto»,
ospitando voci di alta autorevolezza (Ingrao per ben due volte) e di
numerosi militanti di base, voci diverse, alcune anche decisamente
dissenzienti, tutte profondamente coinvolte.

I più insistono però sulla
violenza come parte della storia e dei comportamenti tradizionali delle
sinistre (da criticare o rivendicare), o come tentazione presente nella
pratica politica d’oggi, tra i giovani sopratttutto. Pochi (ma proprio
questo dice quanto il problema sollevato sia opportuno e chieda
approfondimento) si impegnano sull’intero discorso di Bertinotti, il quale
pone il problema in tutta la sua ampiezza e tutte le sue implicazioni, non
solo con coraggio avventurandosi sul difficile terreno del confronto col
proprio «grande e terribile» passato, ma anche mettendo a fuoco il rischio
che rispondere alla violenza con la violenza comporta: rischio di
somigliare all’avversario, di essere penetrato dalla sua logica e dal suo
linguaggio, di non riuscire più a liberarsene.

Proprio questa è invece la
più drastica e proficua «rottura di schema» - come la chiama Ingrao - che
il discorso propone. Schema che certo sta alla radice di quella stessa
lotta armata apparsa ai vecchi comunisti «ineluttabile percorso di
liberazione dallo sfruttamento capitalistico», ciò che a lungo non ha loro
consentito di trovare "una vera distanza critica né dalla violenza né,
certo, dalla guerra". E che ancora oggi condiziona in qualche misura
posizioni e scelte politiche specie tra le sinistre «antagoniste», come
qualche intervento esplicitamente testimonia. E’ Marco Revelli in
particolare a misurarsi con questo immane problema, d’altronde a lui
congeniale e più volte affrontato nei suoi libri. Nell’articolo sul
«manifesto» non solo parla di «retroazione che la violenza opera su chi la
pratica», addirittura di «metamorfosi antropologica che la violenza impone
al soggetto che si trova a impiegarla», usando concetti vicini a quelli di
Bertinotti, ma vede nella non-violenza l’unico possibile «nuovo inizio» da
proporre in un’epoca in cui «la guerra è diventata la forma stessa della
vita sociale».

E su questa lunghezza d’onda si snoda anche l’intervento di
Paolo Cacciari, per il quale «la nonviolenza va cercata oltre il pacifismo».

Al di là della inaudita distruttività raggiunta, in una irresistibile
escalation da Hiroshima in poi, dalle tecnologie belliche. Al di là del
salto epocale segnato dalla geopolica della «guerra preventiva», il quale
in un mondo divenuto unipolare cancella quelle regole internazionali che in
qualche modo potevano contenere la minaccia dell’annientamento totale. Al
di là del terrorismo, surrogato della guerra - dice Raniero La Valle -
divenuta proprietà di un solo padrone. Al di là della guerra ormai
normalmente usata - secondo un’opinione oggi largamente condivisa - come lo
strumento più sicuro per risolvere crisi e depressioni economiche. Al di là
insomma della violenza dispiegata come tale, senza infingimenti, senza
aggettivi intesi a contrabbandarla per altra cosa, se davvero si vuole
«iscrivere la radicalità in una pratica di non violenza», come propone
Bertinotti, non basta dire no alla guerra. Bisogna dire no a un mondo che
la guerra l’ha incorporata come sistema, che della violenza ha fatto la
ricetta del proprio agire quotidiano.

I giovani dei movimenti l’hanno capito, quando fanno del loro «No alla
guerra e no al neoliberismo» i due pilastri del loro impegno e la base
imprescindibile di ogni possibile dialogo con le forze politiche
istituzionali. Senza approfondite analisi, semplicemente ma fermamente
proponendo in un unico slogan i due «no», mostrano di sapere che non è
guerra solo quella guerreggiata a suon di bombe, ma lo è anche la morte per
fame, la crescente distanza tra ricchi e poveri, lo sfruttamento sempre più
esoso del lavoro, l’attacco generalizzato allo stato sociale, la negazione
dei diritti civili. Come lo è la perdurante disparità sociale delle donne,
e la indiscriminata dilagante rapina della natura, e la privatizzazione
dell’ acqua e dei brevetti su farmaci vitali, e lo sviluppo imposto a
propria immagine e interesse dal Nord al Sud del mondo, e un Occidente che
rappresenta un quinto della popolazione mondiale, ma consuma l’80 % delle
risorse. Il neoliberismo insomma, il modello socioeconomico oggi vincente.
Ma la radice violenta della guerra si può cogliere anche in momenti
apparentemente estranei alla struttura gerarchica del globo, riferibili
alla normalità quotidiana della vita civile o addirittura al benessere in
aumento in non pochi paesi e fascie sociali.

Penso all’incrudelire estremo
della competitività, della sfida mortale cui le dinamiche di mercato oggi
obbligano non solo l’imprenditore ma l’intero mondo del lavoro: non è un
caso se determinazione, capacità di comando, aggressività, «grinta», sono
le qualità richieste a chi cerchi occupazione. Penso alla colonizzazione
dell’ immaginario collettivo, sistematicamente perpetrata mediante la
pubblicità e la maggior parte dell’ informazione, mediante l’imposizione di
modelli funzionali al dogma produttivistico e consumistico. Penso alla
ricaduta di tutto ciò sia nel farsi di esistenze tutte proiettate al
conseguimento di un successo identificato con reddito e consumo, sia nei
rapporti personali, nel confronto con l’altro, anch’esso precipuamente
misurato su questi stessi parametri. Penso a quella sorta di inquinamento
sociale che il predominio di valori individualistici, acquisitivi,
competitivi, induce in ogni ambiente e classe.

Sto allineando riflessioni che vorrebbero un discorso ben più ampio e
costruito.

E che, portato avanti, andrebbe a parare nella gran disputa sull’
aggressività umana, che ha impegnato intelligenze come Lorenz, Fromm, Jay
Gould, Jonas, Eibesfeld, Giorgio Prodi (per citarne qualcuna), ma non ha
risposto alla domanda come mai gli umani - a differenza di tutti gli altri
animali del creato, che praticano solo lotte «interspecifiche», cioè contro
specie diverse - fin dai più lontani documenti risultino dediti a lotte
«intraspecifiche», cioè contro il propri simili. Perché insomma abbiano
inventato la guerra.

Non sarà il dibattito aperto da Bertinotti a dare la risposta. Forse può
essere però occasione per dirci che dopotutto non è scritto da nessuna
parte che ciò che non è stato finora non possa essere. La storia è fatta di
cose che prima non c’erano. E se finora - secondo l’argomento forte di
quanti criticano il pacifismo - il «no alla violenza» chiesto e praticato
da piccoli gruppi non ha portato lontano, forse il risultato può essere
diverso quando a gridarlo sono folle sempre più vaste, da Seattle a Genova,
da Porto Alegre a Firenze, da Cancun a Bombay.

Il Manifesto