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di Roberto Romano (CGIL Lombardia)
Crisi del modello
Il crack finanziario della Parmalat ha sollevato molte riflessioni
politiche, economiche e giuridiche. In particolare sono state sollevate
delle pesanti critiche alle istituzioni che in modo diretto o indiretto
dovevano vigilare sul risparmio e sul corretto funzionamento della
"governance". Nell’analizzare il default delle imprese e delle società si
possono utilizzare molti strumenti: modelli che fanno riferimento alla
sostenibilità finanziaria o al mercato di sbocco, come se non ci fosse una
qualche relazione. Purtroppo, questi modelli interpretativi non possono, da
soli, valutare la solidità del sistema delle imprese nel loro insieme. In
realtà negli ultimi 10 anni, in particolare a partire dal 1993, si è aperta
una nuova fase per il capitalismo italiano, di cui Parmalat è solo il caso
più eclatante, ma non per questo isolato. Turani, in Affari Finanza del 26
gennaio 2004 mette a fuoco, con rara efficacia, il nuovo paradigma: "Una
volta gli imprenditori, con l’aiuto dei loro commercialisti passavano le
notti a falsificare i propri bilanci al fine di nascondere gli utili al
fisco per pagare meno tasse. Adesso il mondo è capovolto. Gli stessi
imprenditori passano notti insonni, sempre con i loro commercialisti, a
falsificare i bilanci al fine di nascondere le perdite dovute alla cattiva
gestione".
Un approccio più misurato
Dieci anni in economia non sono tantissimi, eppure il sistema economico che
abbiamo conosciuto è definitivamente scomparso. Colpa degli imprenditori un
po’ pasticcioni? Dei risparmiatori un pò creduloni? Colpa della crisi
economica o della mancanza di trasparenza e controllo da parte di tutte le
autorità competenti?
Probabilmente un po’ tutti sono stati corresponsabili della attuale target
dell’economia, ma la responsabilità individuale, da sola, non può spiegare
quanto è accaduto. Se la finanziarizzazione dell’economia ha compromesso l’
equilibrio economico, è anche vero che un qualche nesso tra mercato
finanziario e produzione di beni e servizi deve pur manifestarsi. Se è
saltata questa relazione, vuol dire che siamo in presenza del "classico"
"fallimento del mercato". Il paradosso è che il soggetto pubblico, meglio
ancora la politica, ha indotto o guidato questo processo, venendo meno ai
più elementari approcci della teoria dell’economia del benessere. Tra l’
altro, nemmeno chi denuncia la finanziarizzazione dell’economia può spiegare
quanto è accaduto.
Evidentemente questa crisi può essere spiegata in modo diverso, inquadrando
il tema dentro una dimensione storica.
Come si realizza la trasformazione del mercato
Gli anni ’90 sono ricordati da tutti come gli anni che hanno permesso all’
Italia di agganciare i famosi criteri di Maastricht. Molti ricordano le
misure adottate per conseguire i vincoli finanziari imposti dal trattato
UEM-UP: compressione dei salari, minori tassi di interesse in ragione delle
misure per aggredire il deficit pubblico e il debito pubblico,
privatizzazioni per comprare stock di debito, parziale liberalizzazione dei
mercati, ridimensionamento della Pa.
Se gli effetti sono più o meno noti, le implicazioni sull’utilizzo del
reddito da parte dei cittadini e conseguentemente sulla formazione del
reddito sono, invece, meno note. Le misure di politica fiscale e finanziaria
adottate dalla Pa hanno inciso sul tessuto sociale e sulle abitudini
consolidate dei cittadini. Infatti, per tutti gli anni a cavallo tra il ’70
e fine ’80 il risparmio delle famiglie -l’Italia ha una propensione
marginale al risparmio più alta della media europea- ha trovato nei titoli
di stato un’ottima opportunità per "integrare", in misura più o meno
accentuata, la propria capacità di consumo. Non a caso, nonostante un
significativo spostamento di reddito dal lavoro dipendente ai profitti e
alla rendita, i consumi del Paese sono rimasti in linea con la media
europea.
Le misure adottate dal Paese in materia fiscale all’inizio degli anni ’90,
per esempio quelle sulla previdenza integrativa o quelle che spingevano
verso la nascita di nuovi soggetti giuridici (imprese) per agganciare il
capitalismo manageriale di tipo europeo, hanno reso meno appetibili i titoli
di stato, e per questa via spinto il risparmio delle famiglie verso i fondi
di investimento e il mercato obbligazionario e azionario.
I consumi delle famiglie in questi anni non sono diminuiti in quanto i
rendimenti decrescenti dei titoli di stato sono stati sostituiti da quelli,
più alti, dei fondi di investimento. Sono state soprattutto le
privatizzazioni, assieme ad altre misure fiscali, a stimolare e orientare il
risparmio verso questi nuovi strumenti finanziari, introducendo elementi di
azionariato diffuso attraverso una produzione legislativa sulle
privatizzazioni flessibile che teneva conto sia della necessita di
preservare un nocciolo duro di governo delle imprese privatizzate", sia
della necessità di coinvolgere i cittadini che "prestavano" il denaro.
Lo sviluppo di questo "paradigma", almeno fino al 2000, non trova nessun
ostacolo ed è favorito dalla forte crescita della Borsa i termini di
capitalizzazione, in gran parte attribuibile alle ex partecipazioni statali.
In un certo senso le misure fiscali e politiche adottate hanno intercettato
un bisogno vero del Paese: da un lato il sistema delle imprese che aveva
bisogno di nuovi e più robusti finanziamenti per acquisire nuove società al
fine di "traguardare" una dimensione di scala adeguata per "competere" sul
mercato internazionale (non a caso il numero delle azioni e delle imprese in
borsa non ha mutato di molto le proprie caratteristiche e le uniche novità
sono interamente attribuibili alle ex PP.SS), da un altro punto di vista la
necessità dei risparmiatori di trovare uno sbocco "finanziario" più
redditizio per fare fronte al decrescente rendimento dei titoli di stato.
La dimensione dello spostamento del risparmio
Il risparmio delle famiglie può essere destinato a diversi utilizzi: per
coprire i disavanzi pubblici, alle imprese per finanziare gli investimenti o
per l’acquisto di beni durevoli. Nei Paesi industrializzati c’è stata una
forte crescita del risparmio destinato al mercato obbligazionario che, se
per alcuni versi poteva essere fisiologica, oggi trova un forte vincolo
nella qualità del mercato finanziario e da una evidente frattura tra lo
stesso mercato finanziario e il mercato dei beni e servizi.
Come già ricordato, nel corso degli anni ’90 il risparmio delle famiglie ha
cambiato destinazione, ma pochi hanno valutato "l’intensità". Infatti, tra
il 1995 e il 2002, il risparmio intercettato dalla pubblica amministrazione
è verticalmente diminuito da 82.031 milioni di euro a 46.250 milioni di
euro, mentre le imprese hanno visto aumentare le risorse finanziarie a loro
destinate da 50.212 milioni di euro a 124.102 milioni. Se alla fine del 1995
le famiglie italiane possedevano 1.712 miliardi di euro di attività
finanziarie, nel 2002 erano cresciute a 2.494 miliardi, con un aumento del
46%.
In particolare si è registrata una forte attenzione al mercato finanziario:
se nel 1995 le famiglie italiane possedevano 182 miliardi di euro di azioni
e obbligazioni delle imprese, 68 miliardi da quote di fondi comuni e 446 di
titoli pubblici, alla fine del 2002 i rapporti sono fortemente modificati.
La banca d’Italia stima in 294 miliardi di euro l’ammontare delle azioni e
obbligazioni detenute dalle famiglie e in 334 miliardi di euro gli
investimenti in quote di fondi comuni. Soprattutto, tra il 1995 e il 2002 la
componente obbligazionaria è quintuplicata, passando rispettivamente
passando da 6 miliardi a 30 miliardi di euro.
In prima approssimazione si può sostenere che il finanziamento delle imprese
si è spostato verso un rapporti diretto con i risparmiatori in ragione del
mutato clima fiscale, economico e, probabilmente, culturale.
La frattura tra rendita, investimenti e debito
Questi sono gli anni in cui la "new economy" non dava nessun segnale di
cedimento economico; dove ogni investimento era considerato positivo. Le
analisi su questi investimenti erano sempre positive in quanto il ritorno
economico era considerato molto più significativo del debito contratto.
Quindi del tutto gestibile. Nessuno, se non pochi sparuti economisti,
considerava questi debiti gravi a medio e lungo termine, tanto è vero che
nel dibattito economico e politico si era affacciata l’idea del superamento
dei cicli economici: se la crescita del fatturato e degli utili sono più
alti dei tassi di interesse, non c’è nessuna ragione per limitare o
condizionare la formazione del debito.
In Italia, ma non solo in Italia, è accaduto proprio questo: le imprese
hanno investito molto, più della media europea, mentre il risparmio dei
cittadini è corso verso il mercato azionario e obbligazionario in ragione
della contrazione dei tassi di interesse sui titoli pubblici. Tutti hanno
beneficiato di questo clima: la new economy come la old economy, pur con
tassi di rendimento diversi.
Quanto è accaduto, però, ha modificato in profondità la funzione del
reddito, in particolare la distribuzione dello stesso, nel senso che la
quota di reddito attribuibile alla rendita è cresciuta molto più velocemente
di quella legata al profitto o al lavoro. Non si tratta solo della "rendita"
nel senso attribuito dagli economisti, ma di una rendita che attribuiva agli
investimenti (fissi, acquisto di società, OPA) un valore sufficiente, in
termini di prospettive, per coprire i debiti delle società.
Dal 2000 il clima economico cambia e comincia ad affacciarsi una pericolosa
crisi e si hanno le prime avvisaglie di un sistema finanziario in
"sofferenza". Purtroppo gli investimenti realizzati nel corso degli anni ’90
non hanno dato i risultati attesi, mentre i debiti per realizzare questi
investimenti sono rimasti, assieme al loro onere legato agli interessi
passivi. L’effetto immediato è stato quello di una ulteriore contrazione
della crescita economica e una contrazione delle aspettative legate al
mercato azionario e obbligazionario, e per questa via condizionato i
"risparmiatori" che nel frattempo aveva modificato le proprie abitudini
finanziarie. Sostanzialmente viene meno una entrata "addizionale" per le
famiglie, che fa il paio con un reddito da lavoro molto più contenuto e da
una distribuzione del reddito legato all’intervento pubblico del tutto
insufficiente per fare fronte ai bisogni collettivi.
Il perdurare della crisi economica del Paese, che è molto diversa da quella
europea, ha nei fatti costretto le imprese ha ulteriori sforzi finanziari,
ma questa volta non per fare investimenti, ma per coprire anche le attività
correnti. Non a caso le emissioni italiane all’estero tra il 2001 e il 2002
sono pari al 16% del totale, contro un 11% degli anni precedenti, tanto è
vero che gli istituti di credito più coinvolti sono quelli stranieri (il
70%).
Ma come è cambiata la situazione finanziaria delle società italiane?
La "Tamburi & Associati" ha analizzato 4 importanti società quotate in Borsa
che valgono qualcosa come un quinto dell’intera capitalizzazione della Borsa
e una passività prossima a un decimo del debito pubblico del Paese (110
miliardi di euro): Fiat, Enel, Pirelli-Telecom Italia, Autostrade (Fonte
Affari e Finanza del 19 gennaio 2004). Se il rapporto tra i debiti lordi e
il patrimonio netto è forse il più importante indicatore di solidità
patrimoniale e finanziaria di una società, per le società osservate siamo in
presenza di una evidente sofferenza finanziaria. Il rapporto è 1,97, cioè
per ogni euro di patrimonio netto sono iscritti in bilancio 1,97 euro di
debiti finanziari. La situazione migliora se consideriamo il rapporto tra l’
indebitamento finanziario netto e il patrimonio netto (1,29), ma non per
questo la sofferenza finanziaria è meno preoccupante.
Anche le indagini di Mediobanca confermano il trend appena sottolineato,
ovvero un eccessivo indebitamento rispetto al patrimonio netto. Un tratto
caratteristico che poteva anche essere gestito in una economia chiusa e con
un sistema creditizio preposto alla sola raccolta del risparmio delle stesse
famiglie, ma che ora diventa pericoloso se consideriamo la destinazione
finale del risparmio delle famiglie. Se le imprese e le famiglie hanno
privilegiato un "rapporto diretto" o attraverso i fondi comuni di
investimento è del tutto evidente che le insufficienze dell’uno (le imprese)
e degli altri (i risparmiatori) hanno effetti deflagranti su tutto il
sistema.
La profondità della crisi
Se l’intreccio tra risparmiatori, banche di credito, fondi comuni di
investimento e imprese era ed è così forte, probabilmente era possibile
supporre lo sviluppo di complicità che vanno oltre la deontologia
professionale o la morale ben richiamata dal Cardinale Dionigi Tettamanzi
Inoltre, la situazione è stata aggravata da un atteggiamento delle imprese
che ha operato sui bilanci per coprire una strutturale incapacità del
sistema imprenditoriale privato a valutare l’efficacia dei propri
investimenti. Evidentemente qualcosa non ha funzionato a tutti i livelli:
21 mld di euro di bond in scadenza nel 2004 sono molto di più di un
campanello di allarme.
Amato (Presidente di Confindustria) ha sostenuto che occorre potenziare i
codici di autocondotta (in questi anni sono aumentati in modo
considerevole), ma se l’autorità fiscale non fa paura, come possono questi
codici condizionare le imprese?
Oggi si discute su chi deve fare che cosa in tema di tutela del risparmio,
ma tutti dimenticano che il TUF (scritto da Draghi) è considerato tra i
migliori testi finanziari europei in tema di trasparenza. In realtà, in
Italia non manca chi deve controllare, piuttosto si è realizzata una
situazione in cui ogni controllo da un esito positivo, nel senso che le
anomalie nei bilanci non sono l’eccezione, ma la regola. Infatti, è
difficile credere che l’abnorme crescita del debito delle imprese non sia
stato notato, anche perché superava i limiti fisiologici dettati dalla
contabilità. Forse non era possibile intervenire diversamente per "tentare"
una via di uscita al modello familiare del capitalismo nazionale, ma se
questa era il panorama nazionale, perché privarsi così velocemente delle
imprese pubbliche?
È un tema che non ha ancora una analisi condivisa e una risposta adeguata,
anche se oggi vediamo e subiamo gli effetti di quelle sciagurate scelte.
GRANELLO DI SABBIA (n°122)
Bollettino elettronico settimanale di ATTAC