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Francesco Guccini, «piazza Alimonda». Quella Genova per noi

Publie le giovedì 19 febbraio 2004 par Open-Publishing

MILANO C’eravamo sentiti agli inizi di gennaio. Questione di auguri. L’ho finita, mi aveva detto
contento come un bambino. E come ti è venuta? Osti, bella, bella. Sentirai. Guccini parlava di
«Piazza Alimonda», il brano che sta dentro questa sua ultima fatica - lui lavora con crescente
attenzione alle sue cose in musica - poetico/discografica. Era il pezzo conclusivo di «Ritratti»,
aspettava solo quella per chiudersi in sala di registrazione e battezzare l’album. «Piazza Alimonda», lo
avrete capito, è una dedica, un racconto, un lamento, un grido soffocato che si porta appresso le
terribili immagini del G8 genovese con quel tributo di sangue messo nel conto da una regìa
antidemocratica, vile e fascista che Genova e l’Italia non hanno dimenticato. Ma non è un pregiudizio
politico che ci porta a premiare questo brano avvicinandoci a questo nuovo disco di Francesco.

Piuttosto, lo ammettiamo, siamo assetati di cronaca, di racconti e di temi che affrontino questa
Italia con le sue più atroci contraddizioni: la verità è che stiamo sempre lì ad aspettare che
qualcuno, qualche artista, cantautore o regista cinematografico o teatrale, dimostri di essere in
grado di testimoniare questa realtà così fortemente velata, troppo spesso nascosta, vietata, zittita.
Un Omero per noi, un cantastorie cui affidare i nostri ricordi, la nostra memoria. Francesco, con
la discrezione di un montanaro ossessionato da sogni di mare, di tanto in tanto ci regala
frammenti d’epica dei nostri giorni ed è forse per questo che i ragazzini del nostro mondo gli dedicano
tanta attenzione, quanta ne darebbero ad un loro coetaneo, informato sui fatti. Così, ecco «Piazza
Alimonda», il testo ve lo potete leggere qui accanto; ci è piaciuta, non sarà una ballata che col
tempo perderà significato e che Guccini prima o poi farà sparire dalle sue scalette da palco.

Il
nostro
Carlo Giuliani non viene mai nominato ma è come se in virtù di questo semplice artificio la sua
immagine aleggiasse, come una Morgana, sul testo, sui ritmi, sulle armoniche. «Sì - ha detto ieri
presentando l’album - è una canzone politica»: e quanto è bello e sano e forte sentirsi rispondere
così da un artista italiano, evitando le cautele, gli opportunismi, la banale paura di spiacere a
qualcuno. «Spiacere è il mio piacere», aveva cantato Francesco in «Cyrano». Ci sta. Per il resto,
il disco avrebbe potuto reggere anche un altro titolo, tipo «Sogni» e nessuno se ne sarebbe
lamentato. Voglio dire che, prestando a questo lavoro uno sguardo complessivo che tenga conto del sapore
depositato dal primo ascolto, si ha la sensazione di sentir scorrere una sequenza di avventure mai
uscite allo scoperto della coscienza, ma covate di notte tra un cuscino e un piumone. Scorrete i
titoli: «Odysseus», «Canzone per il Che», «Vite», «Cristoforo Colombo».

È un trionfo di mari, di
gen
te che va, di avventure lontane ma lui, Francesco, è tra le persone più immobili che esistano, ha
una sua persistenza salgariana, annidato tra i monti che non ce la fanno a separare per bene le
province di Pistoia e di Bologna. È un segno del destino che, circondato da boschi e casali amati
appassionatamente, trovi quel che non cerca in orizzonti non finiti, dove tutto è instabile, il
cielo, il mare e ancora il mare. In questo andare dove tutto è fluido, Guccini trova coerenze anche
negli schemi musicali, non solo nell’onnipresente parola. Liquidi sono gli arrangiamenti, liquido
l’incedere di un modulo che solo di rado si inerpica e sorprende e quando evade lo fa assecondando
un gioco di citazioni ritmiche alle quali affida l’eccipiente del potere evocatore di atmosfere
appropriate.

È vero, non è mai stato uno che adatta reciprocamente testi e musiche, musiche e testi,
ma in questo caso sembra più forte e trasparente il suo rilasciare le parole in una sorta
di galleggiamento perenne, anche saltellando tra un brano e l’altro. La voce lo segue fedele in
questo depositare sensi poetici onda su onda, tanto che pare avvicinarsi, per questa coerenza, al
grande Leo Ferré che alla musica faceva fare esattamente ciò che serviva alla parola. Attonito e
felice, ancora una volta come un bimbo, Guccini continua a scoprire la vita seguendone la curva
epica disegnata dalla assenza di moventi: «E andare - recita in Odysseus - come spinto dal destino
verso una guerra, verso l’avventura e tornare contro ogni vaticinio contro gli Dei e contro la
paura».

Lo trovi sempre lì, accovacciato davanti ai grandi portali del mito, come all’inizio della sua
attività di poeta in musica quando cantava: «Vedremo soltanto una sfera di fuoco, più grande del sole
più vasta del mondo, mai mano d’uomo la toccherà e solo il silenzio come un sudario si stenderà
tra il cielo e la terra per mille secoli almeno», candidamente rapito da immagini immense disegnate
una fantasia popolare, poeticamente enfatizzate da una trasmissione orale, come un canto omerico.
«E fuggendo si muore...», prosegue nello stesso Odysseus e par che anticipi il senso di «Canzone
per il Che», il cui testo non è suo ma di Vasquez Montalban «e se il rivoluzionario non trova altro
riposo che la morte...niente o nessuno lo trattenga», e insieme si allinea con le parole dedicate
a Giuliani in «Piazza Alimonda»: «Uscir di casa a vent’anni è quasi un obbligo, quasi un dovere».

La tragedia dell’andare, il destino dell’uomo. Tra un’onda e l’a
ltra nel mare dell’epica, piccole dediche di grandi amori: «Vite», offerta non alla gente ma alle
persone, alle loro storie, «Certo non sai», non alle persone ma a una sola, quella che divide il
suo cuscino e il suo sognare, «La ziatta», non alle persone ma a una lingua, il modenese. Sorpresa:
in coda all’album c’è un brano di Guccini che ha la sua bella età (il pezzo, non Francesco); è
datato 1971, eseguito allora mai edito prima e inserito nella scaletta; si intitola «La tua libertà».
È bella anche se lui dice che è datata e che se ci avesse pensato in tempo l’avrebbe scartata. Non
gli piacciono nemmeno gli arrangiamenti. Pazienza, per fortuna non ha avuto quel tempo.

Note al margine: Guccini fa sapere che al festival di Mantova non canterà solo perché non
ama i festival: «Sono invecchiato - dice - ma è anche l’unico modo per non morire giovani»; ci sarà
comunque per presentare il suo libro Cittanova Blues; contano le azioni. Tifa, ma si sapeva,
Cofferati come prossimo sindaco di Bologna perché è bravo, serio e preparato, lo conosce da vicino. Non
ha il coraggio di fare pronostici in proposito, ma racconta che i suoi vati preferiti, i taxisti,
segnano bel tempo per la sinistra e i suoi candidati. Scrive più lentamente di una volta: «Forse
ero più bravo - racconta - ora scrivo e ci torno su». È la dittatura della parola, la sola verso la
quale si può correre senza perdere la libertà.

www.unita.it


Questo è il testo della canzone del nuovo disco di Francesco Guccini ispirata
alla morte di Carlo Giuliani.

Genova, schiacciata sul mare, sembra cercare
respiro al largo, verso l’orizzonte.

Genova, repubblicana di cuore, vento di sale,
d’anima forte.

Genova che si perde in centro nei labirintici vecchi carrugi,
parole antiche e nuove sparate a colpi come da archibugi.

Genova, quella giornata di luglio, d’un caldo torrido
d’Africa nera.

Sfera di sole a piombo, rombo di gente, tesa atmosfera.

Nera o blu l’uniforme, precisi gli ordini, sudore e rabbia;
facce e scudi da Opliti, l’odio di dentro come una scabbia.

Ma poco più lontano, un pensionato ed un vecchio cane
guardavano un aeroplano che lento andava macchiando il mare;
una voce spezzava l’urlare estatico dei bambini.

Panni distesi al sole, come una beffa, dentro ai giardini.

Uscir di casa a vent’anni è quasi un obbligo, quasi un dovere,
piacere d’incontri a grappoli, ideali identici, essere e avere,
la grande folla chiama, canti e colori, grida ed avanza,
sfida il sole implacabile, quasi incredibile passo di danza.

Genova chiusa da sbarre, Genova soffre come in prigione,
Genova marcata a vista attende un soffio di liberazione.
Dentro gli uffici uomini freddi discutono la strategia
e uomini caldi esplodono un colpo secco, morte e follia.

Si rompe il tempo e l’attimo, per un istante, resta sospeso,
appeso al buio e al niente, poi l’assurdo video ritorna acceso;
marionette si muovono, cercando alibi per quelle vite
dissipate e disperse nell’aspro odore della cordite.

Genova non sa ancora niente, lenta agonizza, fuoco e rumore,
ma come quella vita giovane spenta, Genova muore.
Per quanti giorni l’odio colpirà ancora a mani piene.

Genova risponde al porto con l’urlo alto delle sirene.

Poi tutto ricomincia come ogni giorno e chi ha la ragione,
dico nobili uomini, danno implacabile giustificazione,
come ci fosse un modo, uno soltanto, per riportare
una vita troncata, tutta una vita da immaginare.

Genova non ha scordato perché è difficile dimenticare,
c’è traffico, mare e accento danzante e vicoli da camminare.
La Lanterna impassibile guarda da secoli gli scogli e l’onda.
Ritorna come sempre, quasi normale, piazza Alimonda.

La «salvia splèndens» luccica, copre un’aiuola triangolare,
viaggia il traffico solito scorrendo rapido e irregolare.
Dal bar caffè e grappini, verde un’edicola vende la vita.
Resta, amara e indelebile, la traccia aperta di una ferita.