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Fratelli d’Italia

Publie le mercoledì 6 ottobre 2004 par Open-Publishing

Dazibao


di Cosimo Rossi

Le tonalità del tricolore le hanno codificate norma di legge: sventola su tutti
gli edifici pubblici, a cominciare dagli asili, in compagnia con il vessillo
d’Europa. Dell’Inno rinascimentale di Goffredo Mameli - sul cui dubbio gusto
musicale tocca glissare proprio per amor di patria - è stata fatta una promozione
degna delle più trite major discografiche: sia uno stadio o un’assemblea di partiti
ci si alza in piedi per intonarlo senza un perché. La Costituzione, intanto,
la riscrivono in parlamento dopo averla già manomessa nel paese. Ma la guerra,
a ben vedere, non è più nemmeno questione di Costituzione. Il garrir di patria,
infatti, di qualsiasi patria, si affloscia immediatamente di fronte a una violenza
che non conosce più bandiere, né cittadinanza. Né, perciò, pietà pubblica e civile.

E’ vero: basta avere sangue iracheno per non essere morti italiani, come Ayad Anwar Wali, che probabilmente contribuiva con le sue tasse alla nostra assistenza sanitaria. Basta la governo italiano, che ha effettivamente considerato l’imprenditore rapito un ostaggio di serie B. Basta alle opposizioni, che volenti o nolenti hanno fatto altrettanto. Basta al circo mediatico, che preferisce la complice autocensura e il folle inseguimento dell’audience assicurata dalle ragazze scampate alla morte. E basta a chiunque si opponga alla guerra, che volente o nolente ha perso il senso della cittadinanza, della libertà della persona umana, nel labirinto dell’ideologia.

Perché nella guerra globale la cittadinanza non c’è più. E’ spezzata, divisa in due, tre, forse quattro. Vista da qui ci sono gli italiani perché italiani, ci sono gli italiani perché combattono sotto il vessillo del loro paese, ci sono gli italiani perché sono contro la guerra e ci sono forse anche gli italiani che è meglio che ci restano secchi così si capisce che la guerra è sbagliata.

Cittadini italiani, però non ce ne sono: né per chi vuole restituire la cittadinanza agli iracheni con i missili statunitensi né talvolta per chi vuole restituirgliela tramite la loro autodeterminazione. Perché di cittadini - iracheni, americani, italiani - non ce ne sono più quasi per nessuno, se non per come si collocano rispetto agli assi cartesiani della violenza.

Ma la violenza omicida che millenariamente ha trovato fondamento nel diritto (di sopraffazione) di stati, regni e nazioni, nei confini, nelle bandiere, negli ideali, financo nelle etnie e nel razzismo è sopraffatta dall’unica violenza senza fondamento razioncinabile: la violenza della paura. Una violenza che perciò non conosce più la differenza, che spinge all’estremo le identità, che fomenta il razzismo insieme più primordiale e astratto; che assume caratteri biologici.

Altro che impero. Nemmeno quel concetto regge più. Cives romanus sum. L’impero romano, la sua guerra e la sua pax si basavano sul concetto repubblicano di cittadinanza: fatto il bagno di sangue - perché quello facevano a colpi di daga - arrivava anche la cittadinanza con le sue gabelle e le sue prebende. E la cittadinanza bastava per diventare anche imperatori; troppi se ne contano dai natali tutt’altro che italiani.

Cittadino, si sono chiamati poi nella comune parigini. Cittadini ci chiamiamo e ci chiamano le leggi. Ma non siamo più cittadini: siamo solo cecchini dentro gli assi della violenza; pronti a dimenticare la morte che non ci fa comodo e a magnificare quella utile, immemori anche del nostro rifiuto della morte di stato come di quella per mano privata.

In nome di cosa? Probabilmente di un vessillo - per ciascuno il suo - che non è più quello nazionale perché semplicemente non è. Perché alla sua ombra non c’è diritto di cittadinanza. Beata invece la comunità umana che non avrà bisogno di bandiere nelle proprie scuole.

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/05-Ottobre-2004/art20.html