Home > G8/ Genova siamo tutti parte lesa
G8/ Genova siamo tutti parte lesa
di Gian Giacomo Migone
La verità storica sui fatti del G8 di Genova sta emergendo con forza
dalla cronaca di quelle tragiche giornate e anche dalle successive
iniziative giudiziarie contro i presunti responsabili degli atti di
distruzione nel corso delle manifestazioni; dell’attacco proditorio nei
confronti di coloro che alloggiavano alla scuola Diaz; delle sevizie
operate nei confronti degli arrestati nella caserma di Bolzaneto.
È una verità storica che, sulla base di una robusta quanto unitaria
volontà politica, deve essere depositata ai piedi del patrio governo
tuttora in carica, del vice presidente del Consiglio, Fini, dell’allora
ministro dell’Interno, Scajola, e (spiace dirlo) del capo della polizia
in carica, Gianni De Gennaro. Senza quel chiarimento politico, la verità
storica rischia di implodere, colmo dell’ironia, all’interno della
coalizione di centrosinistra, prima a Genova, poi in Italia.
Per la prima volta, dopo diversi anni di più corretta gestione
dell’ordine pubblico, a Genova, per chiara istigazione governativa (non
abbiamo dimenticato la presenza operativa in prima linea di Gianfranco
Fini), si è tornati a un antico modello di gestione provocatoria
dell’ordine pubblico. Non mi riferisco all’ovvia esigenza di garantire
la sicurezza delle delegazioni straniere ospitate. Dopo l’attacco alle
Due Torri qualcuno se la sentirebbe di continuare a ironizzare sulle
precauzioni del generale Orofino, responsabile della sicurezza
all’interno del perimetro della conferenza, che ebbe cura di installare
la contraerea e di sorvegliare il sottosuolo della città?
Altra cosa fu la tecnica usata nei confronti di donne e uomini, anziani
e bambini che esercitavano il loro diritto costituzionale di manifestare
pubblicamente le loro convinzioni. Anche la loro sicurezza avrebbe
dovuto essere tutelata, mentre avvenne esattamente il contrario: le
forze dell’ordine rimasero per lo più passive nei confronti di chi,
violando le regole che gli organizzatori e i principali responsabili
politici delle manifestazioni avevano diffuso, compiva atti di violenza
distruttiva nei confronti di persone e cose. Chi non ricorda le ripetute
e tempestive sollecitazioni, da parte della presidente della Provincia,
Marta Vincenzi, nei confronti della Questura, invitandola a intervenire
contro i cosiddetti “black block”, sin dalla vigilia intenti a compiere
atti di vandalismo e a preparare atti di aggressione?
Alla mancanza di
prevenzione e di contenimento selettivo corrispose, secondo un
collaudato modello del passato, una successiva repressione violenta di
stampo vendicativo che sarebbe generoso chiamare indiscriminata perché,
come hanno chiarito le inchieste giudiziarie, è stata selettivamente e
vilmente diretta contro bersagli umani inermi, che si trattasse di
pacifici manifestanti, persone ritirate per la notte nella scuola Diaz o
arrestati alle mercé delle forze dell’ordine all’interno della caserma
di Bolzaneto.
È appena il caso di aggiungere che, come le degenerazioni di singoli
manifestanti non siano imputabili a quei responsabili delle
manifestazioni che intesero assicurarne la natura pacifica, nemmeno lo
sarebbero i singoli atti di violenza eccessiva o gratuita commessi da
singoli agenti, alle superiori autorità responsabili dell’ordine
pubblico. Tuttavia, ciò è vero soltanto in linea teorica, perché le
medesime inchieste giudiziarie hanno anche dimostrato partecipazione, in
posizione di comando, di alti funzionari e ufficiali nelle azioni
citate. Chiunque conosca i principi gerarchici e le linee di comando
vigenti all’interno delle forze dell’ordine è portato ad escludere che
ciò potesse avvenire senza precisi ordini o consenso superiori.
La
gravità e l’entità degli eventi ricostruiti dalla magistratura chiamano
in causa il principale responsabile tecnico dell’ordine pubblico, ovvero
il capo della polizia e, al di sopra di lui, l’autorità politica del
ministro dell’Interno e, per la sua presenza “in loco”, del
vicepresidente del Consiglio, usciti relativamente indenni dalle
iniziative giudiziarie e parlamentari finora attuate. Ne deriva una
ferita non sanata di tutti coloro che, con diverse modalità, sono stati
colpiti dagli eventi: le vittime di violenze o danni, la città di
Genova, manifestanti e membri delle forze dell’ordine che non abbiano
commesso reati, con un complessivo indebolimento dell’indirizzo
democratico nei corpi di cui fanno parte.
Ancora una volta, se non vi
fossero dei giudici a Berlino o, in questo caso, a Genova, la vicenda
rischierebbe di archiviarsi in maniera tristemente italiana, panni
sporchi lavati in famiglia, responsabilità politiche o comunque apicali
riversate a livello inferiore (chi non ricorda l’ordine del giorno del
generale Cadorna che imputava ai soldati la disfatta di Caporetto?).
Tra le parti lese vi è sicuramente Genova la cui giunta municipale si è
costituita parte civile nei confronti di quei manifestanti che hanno
inflitto danni morali e materiali alla città ospitante. Non sarebbe
giusto e necessario che essa compisse atti analoghi nei confronti di
coloro che avevano il dovere di assicurare la sicurezza, e invece, hanno
contribuito in maniera significativa, forse addirittura decisiva, a
metterla a repentaglio?
Solo un contributo al ristabilimento della
verità storica che si va delineando può consentire alla giustizia di
fare il suo corso, alle vittime di essere risarcite nei limiti di quanto
umanamente è possibile, alla democrazia di non essere sconfitta (mi pare
questo il senso profondo dell’iniziativa di Giuliano Giuliani,
sicuramente tra le principali vittime di quanto accaduto, che ha
proposto un’emendamento all’atto con cui la giunta di Genova si è
costituita parte civile).
http://www.unita.it/index.asp?SEZIONE_COD=HP&TOPIC_TIPO=&topic_id=33444