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Genova:siamo tutti parte lesa

Publie le martedì 2 marzo 2004 par Open-Publishing

G8/ Genova siamo tutti parte lesa
di Gian Giacomo Migone

La verità storica sui fatti del G8 di Genova sta emergendo con forza dalla cronaca di quelle tragiche giornate e anche dalle successive iniziative giudiziarie contro i presunti responsabili degli atti di distruzione nel corso delle manifestazioni; dell’attacco proditorio nei confronti di coloro che alloggiavano alla scuola Diaz; delle sevizie operate nei confronti degli arrestati nella caserma di Bolzaneto.
È una verità storica che, sulla base di una robusta quanto unitaria volontà politica, deve essere depositata ai piedi del patrio governo tuttora in carica, del vice presidente del Consiglio, Fini, dell’allora ministro dell’Interno, Scajola, e (spiace dirlo) del capo della polizia in carica, Gianni De Gennaro. Senza quel chiarimento politico, la verità storica rischia di implodere, colmo dell’ironia, all’interno della coalizione di centrosinistra, prima a Genova, poi in Italia.
Per la prima volta, dopo diversi anni di più corretta gestione dell’ordine pubblico, a Genova, per chiara istigazione governativa (non abbiamo dimenticato la presenza operativa in prima linea di Gianfranco Fini), si è tornati a un antico modello di gestione provocatoria dell’ordine pubblico. Non mi riferisco all’ovvia esigenza di garantire la sicurezza delle delegazioni straniere ospitate. Dopo l’attacco alle Due Torri qualcuno se la sentirebbe di continuare a ironizzare sulle precauzioni del generale Orofino, responsabile della sicurezza all’interno del perimetro della conferenza, che ebbe cura di installare la contraerea e di sorvegliare il sottosuolo della città?
Altra cosa fu la tecnica usata nei confronti di donne e uomini, anziani e bambini che esercitavano il loro diritto costituzionale di manifestare pubblicamente le loro convinzioni. Anche la loro sicurezza avrebbe dovuto essere tutelata, mentre avvenne esattamente il contrario: le forze dell’ordine rimasero per lo più passive nei confronti di chi, violando le regole che gli organizzatori e i principali responsabili politici delle manifestazioni avevano diffuso, compiva atti di violenza distruttiva nei confronti di persone e cose. Chi non ricorda le ripetute e tempestive sollecitazioni, da parte della presidente della Provincia, Marta Vincenzi, nei confronti della Questura, invitandola a intervenire contro i cosiddetti "black block", sin dalla vigilia intenti a compiere atti di vandalismo e a preparare atti di aggressione? Alla mancanza di prevenzione e di contenimento selettivo corrispose, secondo un collaudato modello del passato, una successiva repressione violenta di stampo vendicativo che sarebbe generoso chiamare indiscriminata perché, come hanno chiarito le inchieste giudiziarie, è stata selettivamente e vilmente diretta contro bersagli umani inermi, che si trattasse di pacifici manifestanti, persone ritirate per la notte nella scuola Diaz o arrestati alle mercé delle forze dell’ordine all’interno della caserma di Bolzaneto.
È appena il caso di aggiungere che, come le degenerazioni di singoli manifestanti non siano imputabili a quei responsabili delle manifestazioni che intesero assicurarne la natura pacifica, nemmeno lo sarebbero i singoli atti di violenza eccessiva o gratuita commessi da singoli agenti, alle superiori autorità responsabili dell’ordine pubblico. Tuttavia, ciò è vero soltanto in linea teorica, perché le medesime inchieste giudiziarie hanno anche dimostrato partecipazione, in posizione di comando, di alti funzionari e ufficiali nelle azioni citate. Chiunque conosca i principi gerarchici e le linee di comando vigenti all’interno delle forze dell’ordine è portato ad escludere che ciò potesse avvenire senza precisi ordini o consenso superiori. La gravità e l’entità degli eventi ricostruiti dalla magistratura chiamano in causa il principale responsabile tecnico dell’ordine pubblico, ovvero il capo della polizia e, al di sopra di lui, l’autorità politica del ministro dell’Interno e, per la sua presenza "in loco", del vicepresidente del Consiglio, usciti relativamente indenni dalle iniziative giudiziarie e parlamentari finora attuate. Ne deriva una ferita non sanata di tutti coloro che, con diverse modalità, sono stati colpiti dagli eventi: le vittime di violenze o danni, la città di Genova, manifestanti e membri delle forze dell’ordine che non abbiano commesso reati, con un complessivo indebolimento dell’indirizzo democratico nei corpi di cui fanno parte. Ancora una volta, se non vi fossero dei giudici a Berlino o, in questo caso, a Genova, la vicenda rischierebbe di archiviarsi in maniera tristemente italiana, panni sporchi lavati in famiglia, responsabilità politiche o comunque apicali riversate a livello inferiore (chi non ricorda l’ordine del giorno del generale Cadorna che imputava ai soldati la disfatta di Caporetto?).
Tra le parti lese vi è sicuramente Genova la cui giunta municipale si è costituita parte civile nei confronti di quei manifestanti che hanno inflitto danni morali e materiali alla città ospitante. Non sarebbe giusto e necessario che essa compisse atti analoghi nei confronti di coloro che avevano il dovere di assicurare la sicurezza, e invece, hanno contribuito in maniera significativa, forse addirittura decisiva, a metterla a repentaglio? Solo un contributo al ristabilimento della verità storica che si va delineando può consentire alla giustizia di fare il suo corso, alle vittime di essere risarcite nei limiti di quanto umanamente è possibile, alla democrazia di non essere sconfitta (mi pare questo il senso profondo dell’iniziativa di Giuliano Giuliani, sicuramente tra le principali vittime di quanto accaduto, che ha proposto un’emendamento all’atto con cui la giunta di Genova si è costituita parte civile).

Da L’Unita 02-03-04