Home > Guerra in Iraq, i dubbi dell’America
di Red
NEW YORK Il primo era stato il New York Times un paio di mesi fa, ora tocca al Washington
Post recitare il mea culpa. "Sulla guerra in Iraq abbiamo sempre pubblicato
in prima pagina le ragioni del governo e seppellito in ultima quelle dell’opposizione",
ha scritto Hoeard Kurtz in un lungo editoriale. Viene citato ad esempio un articolo
a firma di Walter Pincus, scritto proprio alla vigilia del conflitto, apertamente
critico sulle prove fornite dalla Casa Bianca circa i famigerati arsenali di
sterminio che Saddam Hissein avrebbe tenuto nascosti. La direzione non era affatto
entusiasta del servizio e se non fosse stato per le pressioni di Bob Woodward,
uno dei reporter che fecero venire a galla lo scandalo Watergate, sarebbe probabilmente
finito nel cestino. Anche con l’autorevole spinta, non ha avuto un posto migliore
di pagina 17.
"Abbiamo fatto il nostro lavoro, ma non bene abbastanza - ha dichiarato Woodward,
che nel frattempo ha pubblicato il libro Plan of Attack (Piano d’attacco) - Mi
sento personalmente responsabile per non aver insistito abbastanza con la direzione.
Avremmo dovuto mettere in guardia i nostri lettori che le informazioni sulle
armi chimiche batteriologiche erano di dubbia provenienza. Questo è quello che
avremmo dovuto mettere in prima pagina".
Nelle ultime settimane il quotidiano della capitale ha svolto una specie d’inchiesta interna sulla copertura del dibattito immediatamente precedente la guerra in Iraq. Sono stati sentiti decine di giornalisti e capo servizio e la conclusione è stata che materiale per sfidare la versione ufficiale dell’amministrazione Bush, ovvero che l’Iraq costituiva un immediato e grave pericolo per la sicurezza degli Stati Uniti e dei loro alleati, ce n’era in abbondanza, ma non ha mai avuto il rilievo che si meritava, spesso scavalcato da notizie sportive e di costume.
"L’atteggiamento corrente fra i capo redattori era del tipo: ehi, stiamo per entrare in guerra, che senso ha pubblicare tutta questa roba negativa?", ricorda Thomas Rick, corrispondente dal Pentagono. Il direttore esecutivo, Leonard Downie Jr. , non si è tirato indietro: "Eravamo tanto presi a capire cosa avesse intenzione di fare il governo, che non abbiamo offerto lo stesso spazio a chi dal primo momento sosteneva che ci si andava a cacciare in un’impresa sbagliata. Riconosco che è stato un errore da parte mia". A parziale giustificazione della scarsa visibilità data alle ragioni di chi si opponeva alla guerra, il quotidiano cita la difficoltà di raccogliere informazioni in merito da fonti che non pretendessero di essere coperte da anonimato. Questa tuttavia non avrebbe dovuto essere una sorpresa, sotto un’amministrazione come quella attuale, che sistematicamente soffoca ogni dissenso interno e dove vige la consegna dell’assoluta fedeltà al capo.
Michael Massing, autore di Now They Tell Us (Adesso ce lo vengono a dire), un libro di prossima uscita che affronta il rapporto tra media e potere riguiardo al conflitto ancora in corso, spiega: "Il Washington Post si è distinto tra i mezzi d’informazione per aver avuto il coraggio di criticare in più occasioni le scelte politiche di George W. Bush, ma sul tema cruciale delle armi di distruzione di massa, ha seguito l’andazzo generale. Ai lettori ha dato pochi spunti sulla credibilità delle informazioni sbandierate dal governo".
La parola d’ordine per tutti era: "sostenere le nostre truppe". Quelle truppe soltanto adesso prendono finalmente la parola. I reportage dal fronte raccontano di soldati sfiniti e delusi, costretti a guardarsi le spalle giorno e notte per non cadere in qualche agguato, consapevoli di essere invisi alla popolazione, senza più l’illusione di passare per i liberatori, odiati come ogni potenza occupante in terra straniera. "Non ho visto nessun miglioramento da quando sono arrivato qui - ha dichiarato il caporale James Duenas, 23 anni appena compiuti, catapultato nel Golfo da Nogales, una cittadina sempre nel deserto, ma quello dell’Arizona - Anzi: l’anno scorso quando i ragazzini ci vedevano passare ci correvano incontro e ci salutavano. Adesso ci tirano le pietre". Come tanti altri mandati in guerra, si aspettava di dare una mano alla ricostruzione del Paese, un compito che non gli è toccato nemmeno per sbaglio. "La gente non ne può più di averci tra i piedi - spiega il caporale Anthony Robert, 21 anni, da Charlottesville in Virginia - È come se qualcuno piombasse negli Stati Uniti e pretendesse di avere il controllo della situazione, di venirci a dire quello che dobbiamo fare. Capisco perfettamente come si sentono gli iracheni".
Il Pentagono, a corto di personale dopo i tagli imposti dal segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, più propenso a dar contratti all’industria bellica che la paga mensile ai soldati, è stato costretto a cancellare le turnazioni e chi quest’estate avrebbe dovuto tornare a casa rimane a combattere. Per quanto ancora nessuno lo sa dire, ma i militari al fronte son convinti che "ormai che si stia qui un giorno o dieci anni non fa nessuna differenza. Non saremo certo noi a impedire il caos. Tanto varrebbe levare subito le tende".