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Ho l’età della bomba
di Silvia Ballestra
Non è bello aver l’età della bomba. Eppure io ce l’ho. Si può dire che dalla nascita aspetto di sapere chi ha messo la bomba in Piazza Fontana. Anzi si può dire che lo so (lo sanno tutti, dopo che Pasolini disse Io so), ma da decenni aspetto il timbro, la sentenza, la parola definitiva, la certezza e il rumore di un volume pesante che si chiude per sempre con la parola fine.
Aspetterò ancora, a quanto pare, e se mai arriverà quella verità con il timbro del tribunale avrò ancora l’età della bomba, ma sarà un’età più avanzata. Potrò dire ai miei figli, guardate, sono invecchiata con la bomba di piazza Fontana, sapendo - certo che sì - ma senza sapere.
Ora che quella bomba ha trentacinque anni (trentaquattro e mezzo, per la precisione, il compleanno sarà il 12 dicembre) ci dicono che prove certe non ce ne sono. Che i nazi erano nazi, sì, ma come esserne certi? Che gli americani fecero i loro giochetti, sì, ma come esserne sicuri? Che la strage fu di Stato, sì, ma perché uno dovrebbe aspettarsi il timbro dello Stato sulle sue stesse malefatte? Dopo, altre bombe vennero, ma quella lì restava la madre di tutte, la capostipite. E ora capisco che la cosa ha anche un suo senso: il vero capolavoro della strage, alla fine, è di rimanere impunita.
Il coro orrendo della destra che oggi canta vittoria mi sembra avere il sinistro scricchiolio delle strutture della Banca dell’Agricoltura. E anche il tono del contrappasso. Già. Per me, per esempio, e per molti altri, il voler sapere non ha più nulla di ideologico. Si tratta "soltanto" dell’ovvia pretesa di sapere chi fu, e perché, e con quali mani, e con quali cervelli si tentò di spezzare con l’esplosivo una fase storica del mio Paese. Ora, in oltre trent’anni di attese, rinvii, appelli, contrappelli, spostamenti del processo, frettolose chiusure e riaperture faticose, quel furore ideologico lo trovo invece nella destra esultante, che scambia la clamorosa ingiustizia della sconfitta di tutti per una sua piccola meschina vittoria. La pista anarchica, spiegazione prontacassa, eccola di nuovo sventolata, imbellettata, riesumata da qualche figuro, come non dimostrasse il brutto invecchiamento di questi trentacinque anni, come non fosse stata smontata mille volte. Segno dei tempi: lo Stato non si processa, e se mai si dovesse processare, non si condanna. Meglio indicare bersagli più comodi, meglio depistare, sviare, dimenticare. Come si è dimenticato quel cronista, un tale Vespa, che si presentò davanti alle telecamere con aria raggiante a dire: preso il mostro, è lui, è l’anarchico Valpreda. Che infortunio colossale, per un giornalista. Chissà che fine ha fatto, anche lui, trentacinque anni dopo.