Home > Hans Blix: io, Bush e Saddam
Il capo degli ispettori che dovevano trovare le armi di distruzione di massa in Iraq racconta la sua esperienza in un libro. Che anticipa a ’L’espresso’. Colloquio con Hans Blix
di Gigi Riva
Attenzione, autocertifica Hans Blix, non sono un pacifista. Sono per la pace, ma non sono un pacifista. Lo dice col tono di chi sa di essere tirato per la giacca, al punto da essere diventato un’icona del movimento dopo la sua relazione al Consiglio di sicurezza in cui sosteneva di non aver trovato alcuna prova che Saddam Hussein possedeva armi di distruzione di massa. Quell’atto poteva scongiurare la guerra. Le cose, sappiamo, sono andate diversamente, lui ha dovuto ritirare i suoi ispettori, gli Stati Uniti e i loro partner hanno attaccato senza la copertura dell’Onu. Blix ha scritto un libro di prossima uscita in Italia (’Disarmare l’Iraq, la verità su tutte le menzogne’, Einaudi, 265 pagine, 14,80 euro), in cui racconta i tre anni, dal 2000 al 2003 da direttore esecutivo della Commissione di monitoraggio, verifica e ispezione delle Nazioni Unite per l’Iraq (Unmovic). È un diario puntiglioso, con molti retroscena che chiamano in causa i grandi leader, sui giorni che sconvolsero i destini dei mondo. Il 1 luglio, a Roma, ritirerà il premio ’Colomba d’oro per la pace’.
Lo vede che lei è diventato un simbolo?
"Io posso essere solo me stesso. Non credo di meritare tanto per il solo fatto di aver stilato un rapporto onesto. Essere onesti è normale. E del resto non rientrava nei miei compiti suggerire al Consiglio di sicurezza cosa dovesse fare. Quanto al simbolo, ribadisco, non sono un pacifista e ho anche altre posizioni non troppo popolari".
Per esempio?
"Per esempio sono a favore del nucleare a scopi pacifici. Soprattutto perché questo riduce la nostra dipendenza dal petrolio".
È un altro modo per indicare la strada per evitare che il Golfo sia una perenne polveriera?
"Anche, se si vuole. E non si può pretendere, allo stato attuale delle conoscenze, di risolvere tutto con le energie alternative".
Questa è un’altra storia. Ma andiamo all’Iraq.
"Con piacere, ma con una premessa. Il mio libro parla del passato, ma noi dobbiamo guardare al futuro ed essere positivi. L’ultima Risoluzione del Consiglio di sicurezza è incoraggiante, bisogna proseguire su quella strada".
A molti è parso un accordo tra occidentali. Ha ricomposto, solo in parte, una frattura. E di certo non è condiviso da Al Qaeda...
"Non si può negare che, dopo l’intervento armato, il terrorismo sia aumentato, certo. I terroristi sono più forti oggi di prima. Doveva essere un segnale perché si fermassero e invece è stata stimolata la loro aggressività, in Iraq come a Istanbul, Madrid, Casablanca. È la conseguenza del tentativo di portare la democrazia con l’occupazione o provare a disarmare con la guerra. Detto questo, però, allo stato attuale la Risoluzione è la sola cosa che potevamo fare. Anche se non è sufficiente, non basta. Gli iracheni devono consolidare i ministeri, trovare le persone giuste per i posti giusti, rendere sicuro il Paese, ripristinare l’elettricità, ricostruire un forte esercito".
Lei che li ha conosciuti bene è tra le persone più indicate a giudicare se quella popolazione è pronta per la democrazia.
"Davvero non lo so. Lo spero, ma non lo so. Là la democrazia non c’è mai stata. La situazione del dopo-Saddam mi pare simile a quella dell’ex Jugoslavia dopo Tito. Scomparsa la mano forte, risorgono gruppi differenti, forze differenti, curdi, sciiti, sunniti, come si fa a farli convivere? Bisogna trovare la formula giusta. In Libano, dopo una tremenda guerra civile tra diverse fazioni ce l’hanno fatta. Forse In Iraq la soluzione è una Federazione".
Con un re che faccia da garante, come alcuni propongono?
"Non credo nella monarchia. Nel 2004, poi!".
Eppure lei, svedese, ne dovrebbe avere una benevola opinione.
"Da noi il re fa un buon lavoro, ma non si può fare nessun paragone con l’Iraq".
Lei non si è mai detto: avevo ragione, se solo mi avessero dato più tempo il mondo non si troverebbe in questo pantano.
"Io avevo solo il compito di fare delle ispezioni. E se vuole la morale che ne ho tratto è la seguente. Le ispezioni fatte da noi, sotto l’egida delle Nazioni Unite, si sono avvicinate di più alla realtà perché avevamo un approccio critico maggiore di quello usato, per esempio, dai servizi di intelligence. Personalmente reputo che Saddam fosse un mostro ma non mi dovevo occupare del suo carattere, della sua personalità. Dovevo solo arrivare a concludere se aveva armi o non le aveva. Potevo anche essere convinto che le avesse, ho cominciato a diventare molto scettico sull’ipotesi verso il gennaio del 2003 quando abbiamo cominciato a visitare siti segnalati dai vari servizi segreti senza trovare nulla, assolutamente nulla".
Perché Saddam non collaborò più a fondo se non aveva le armi di distruzione di massa?
"È una questione che rimane aperta. Ce lo dirà la storia. Ma credo che abbia giocato un ruolo la sua voglia di sfidare ed essere superiore a Usa e Onu. Per accrescere la sua popolarità nel mondo arabo".
Se non lui, altri leader estremisti adesso sono più popolari fra quelle strade.
"Sì, è la reazione verso l’America. La gente difende il suo amor proprio. Per questo, durante il nostro lavoro laggiù non mi stancavo di ripetere, siamo qui per le ispezioni non per provocare o per umiliare".
C’è un riferimento alla prigione di Abu Ghraib?
"Abu Ghraib è stato un episodio terribile, che lo stesso presidente George Bush ha condannato. Io mi riferivo anche ad altro, a certi metodi usati nel passato. Non è un mistero per nessuno che i membri dell’Unscom, la commissione speciale per le Nazioni Unite che aveva operato in Iraq prima di noi, venissero chiamati ’cowboy’ e che spesso agissero in stile Rambo. Al contrario dei funzionari di altre agenzie dell’Onu chiamati invece ’mammole’".
I suoi metodi, il suo fair play ha perso. E hanno vinto i bugiardi, i Bush, i Blair. Almeno nella fase della decisione sulla guerra.
"Mai definiti bugiardi. Non ho alcuna ragione per sostenere che lo siano stati".
Però sono partiti per una campagna militare adducendo pretesti falsi.
"Bush e Blair non hanno usato in modo sufficientemente critico le informazioni dei servizi segreti. È la sola cosa che posso dire di loro".
In quei giorni fatali lei ha visto da vicino tutti gli attori protagonisti. Spenda una parola per ciascuno. Dich Cheney, vicepresidente Usa.
"Un politico navigato. Trasformato dalla traumatica esperienza dell11 settembre. Da allora ha perso il suo senso critico".
Condoleezza Rice, consigliere per la sicurezza nazionale
"Una intellettuale con cui ho avuto spesso buone discussioni razionali. E che non ha mai cercato di influenzare il mio lavoro".
Colin Powell, segretario di Stato.
"Vale lo stesso discorso fatto per la Rice. Emerge se lo si paragona a superfalchi come Wolfowitz o a uccelli esotici come Richard Pearle".
Jacques Chirac, il presidente francese.
"Uno coi piedi per terra. Che aveva ragione su molti punti. Compresa l’analisi sulla psicologia di Saddam Hussein. Mi disse durante un incontro: si è asserragliato in un sicuro bunker intellettuale e nessuno del suo entourage osa dirgli la verità sulle conseguenze di una guerra".