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La disobbedienza prevede flessibilità. Per praticare la vera nonviolenza
Il dibattito su violenza/nonviolenza appare assurdo. Possiamo scomodare le
grandi narrazioni, le uscite dai secoli dei secoli, ma non ce n’è. Messa
così, con lo spiritualismo metafisico che dovrebbe coprire il «vero» del
mondo che attraversiamo tutti i giorni, è anche un imbroglio. Chi pone ai
movimenti il nodo della «violenza», non esclude invece la mediazione e
l’accordo con chi la guerra, anzi le guerre, con bombardieri, missili,
soldati e morti le ha fatte e le farà. A fianco delle interviste contro il
casco ai cortei, rimane il silenzio sulla vergogna dei carabinieri di
Ganzer, della polizia che arresta e usa pistole, gas tossici, manganelli
contro chi protesta. Poi dove sarebbe tutta questa violenza dei movimenti?
In uno scudo, in una protezione corporea se si sfida un cordone di celere?
E’ vero ai cortei si può andare anche senza casco, dipende da cosa si deve
fare. Come davanti ad un filo spinato di un lager dello stato pieno di
migranti. Se si deve provare a tagliarlo ci vuole una trancia. Se si deve
bloccare una strada ci vuole la gente che si metta in mezzo, come quella
volta dei treni delle armi. Se poi c’è il rischio che la polizia carichi,
si potrebbe decidere, come a Termini Imerese, di fare una barricata.
Dipende tutto da cosa si vuole fare. Non è un «cosa» che guarda solo a sé
stessa, ma questo, come dice Palombarini, il movimento non ha bisogno di
ribadirlo, perché da Seattle in poi, lo fa parlando a molti, per fare con
altri un altro mondo possibile. Quindi se a un corteo si va solo per
sventolare delle bandiere, i caschi non servono. Ma se si vuole fare
un’azione, anche minima, di disobbedienza alle leggi, che tutti definiscono
ingiuste e da non rispettare, bisogna sapere che la polizia può
«nonviolentemente» spaccarti la testa, quindi è meglio proteggersi. Se poi
si decide di violare una zona rossa, se è un muro come al Cpt di Bologna,
una scala è meglio del casco. E così via.
In Italia si discute di come fermare la polizia quando ti aggredisce, di
come disobbedire a leggi ingiuste, di come si difende una casa occupata.
Tutto questo è essere violenti? E allora che i nonviolenti propongano come
fare a fare le stesse cose in un altro modo, senza tanto menarla. Sarebbe
un bel contributo perché nessuno ha la ricetta perfetta e definitiva. Ma
sempre a patto che riteniamo importante e giusto violare leggi ingiuste,
oltre che sventolare bandiere. Quella che Pisanu chiama la «violenza
politica», aiutato nel concetto anche da dibattiti come questo, in realtà
sono le pratiche di illegalità diffusa, o «nuova legalità dal basso», di
disobbedienza e azione diretta, di boicottaggio, che sono parte
fondamentale dello spirito costituente del movimento che contesta la
legittimità dell’Impero, in ogni parte del globo. Quindi pare molto più
sensato ed utile a tutti mettersi insieme, con pratiche e culture diverse,
con ruoli anche diversi, magari uno con il casco e l’altro con una tessera
da parlamentare, e provare a produrre un unico «linguaggio», temporaneo,
che destrutturi il potere, lo metta in difficoltà, allarghi i comportamenti
di diserzione alla guerra, interna ed esterna, colleghi mille forme di
sciopero sociale e resistenza.
Allo stesso modo la coppia guerra/terrorismo è un altro imbroglio. Non è
vero che tutto ciò che resiste alla guerra è terrorismo. Per cercare la
pace, dobbiamo boicottare attivamente la guerra. Che è fatta in Iraq
dell’occupazione militare da cui la gente cerca anche di difendersi, e per
questo viene ammazzata per strada, anche se manifesta con le mani alzate.
Così come i bimbi di Gaza in Palestina. E difronte a queste tragedie, non è
accettabile liquidare tutto con una formuletta. Il 20 marzo in tutto il
mondo scenderemo nelle piazze. Dovremo portare con noi l’idea forza che un
altro mondo è possibile, non solo lo slogan. L’idea che è giusto ribellarsi
alla barbarie, costruire spazi pubblici e pratiche contrapposti alle leggi
dominanti. Chi produce il terrore, con i bombardieri o con il secondo
celere, non ha difronte Al Quaeda. Quella ce l’ha dentro. Non ha nemmeno
difronte pacchi infiammabili spediti a destra e a manca per posta, e
nemmeno militanti filo-haideriani che scrivono le rivendicazioni degli Nta.
Quelli li ha al suo fianco. Difronte ha le pratiche sociali dei movimenti,
in tutto il mondo.
Si aspetta che non facciamo nulla, si aspetta che ci
basti un seggio per denunciare l’orrore. E’ possibile invece che si trovi
dinnanzi a un affare serio, a una moltitudine globale che non rispetta più
i comandi. Che mette l’intelligenza della cooperazione al servizio di un
cambiamento radicale. Che vive di comportamenti sociali in antitesi al
neoliberismo, dal consumo critico alla distruzione dei cpt, dai sit-in
all’invasione delle sedi delle multinazionali della guerra. Dall’accensione
delle telestreet al taglio dei tralicci dell’inquinamento elettromagnetico.
Allo sciopero, che è «selvaggio» solo perché non è «addomesticato» dai
padroni. Chi l’ha detto che tutto questo non può stare assieme, se
l’obiettivo è comune? Forse Pisanu, forse chi ha condannato la lotta dei
tranvieri, forse la polizia, ma loro che cosa c’entrano con il dibattito
del movimento?
Abbiamo, dopo questo primo ciclo di lotte globali, costruito un «luogo in
comune», il movimento, ed è ora che assumiamo seriamente questo dato.
Assumiamoci la responsabilità di essere parte di un qualcosa che non è
istituzionale e non segue le regole del gioco. Se c’è un dibattito da
aprire con urgenza è quello sulla violenza della polizia, dei carabinieri,
è quello sulla restrizione dei diritti e delle libertà che è in atto,
applicata anche da giudici che fanno i girotondi, dalle precettazioni agli
arresti, confino e sorveglianza speciale per chi fa i picchetti, occupa
case, partecipa a manifestazioni. Per chi disobbedisce, con o senza il
casco. La guerra interna è anche questo. Speriamo che con la stessa
profusione di interviste, saggi e convegni dedicati al tema della violenza
e nonviolenza, si apra su questo un dibattito forte. Pensando a Genova, al
2 marzo, a un processo politico contro il movimento.
il manifesto