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INSOMMA che cosa sta succedendo nella roccaforte sciita irachena di Najaf, ...

Publie le martedì 17 agosto 2004 par Open-Publishing

di FRANCO CARDINI

... la città-santuario del sud del paese? Alla vigilia dell’inizio dell’avventura irachena, nel gennaio 2003, i fautori dell’impresa, arroccati intorno a Donald Rumsfeld e al suo Dipartimento della Difesa, usavano replicare alle (molte) voci dubbiose sull’opportunità dell’azione sostenendo che essa non presentava rischi d’una radicalizzazione del problema religioso islamico perchè gli sciiti erano sempre stati avversari del sunnita Saddam Hussein e perchè in Iraq «non esistevano (sic) città sante». La prima affermazione era corretta, anche se corrispondeva a un dato che le autorità militari americane d’occupazione hanno giocato evidentemente molto male. La seconda corrispondeva a una piramidale falsità: e stupisce che personaggi come Paul Wolfowitz fossero così male informati da avallarla (mentre riesce quasi impossibile pensare a pura e semplice malafede).

Najaf non è solo un grande santuario sciita, sacro ai figli di Ali e secondo solo alla città santa (e centro di studi teologici) di Qom in Iran. Essa è anche la città-simbolo della coraggiosa, pluridecennale resistenza degli iracheni sciiti contro la dittatura di Saddam. Solo i curdi hanno, in Iraq, titoli pari agli sciiti di Najaf per rivendicare l’autenticità e l’originalità dei loro sentimenti antisaddamisti, al tempo stesso nessuno più di loro è ostile al messaggio fondamentalista di al-Qaeda, che s’ispira al radicalismo della setta sunnita dei wahabiti profondamente ostile al credo sciita.
La gente di Najaf rimproverava a Bush senior e alla dirigenza americana della prima «guerra del Golfo» il fatto di non averla finita allora con Saddam, e anzi di aver assistito impassibile alla sanguinosa repressione del dittatore ordinata contro quegli sciiti che, convinti della sua prossima caduta, avevano osato ribellarsi.
Le autorità d’occupazione statunitensi, e i loro alleati britannici che gestivano la situazione militare del sud dell’Iraq (dove c’è anche Nassiriya, sede dei nostri soldati) avrebbero avuto fin dalla primavera del 2003, cioè da quando terminò la prima fase della guerra irachena che è ancora in corso, tutto l’interesse a procurarsi il leale appoggio degli iracheni sciiti che peraltro era stato loro offerto. L’unica condizione posta era, ovviamente, una base di autonomia abbastanza larga da fornire alla collaborazione la necessaria credibilità politica.

C’erano le condizioni e gli uomini per questo. Ne è stato lucido testimone il primo rappresentante del governo italiano in quell’area, un liberale e un tecnico esperto come Marco Calamai che sollecitò più volte le autorità occupanti (e anche il governo di Roma) invitando ad ascoltare e ad accogliere le istanze locali. Dinanzi all’ottusità della risposta angloamericana (e il silenzio di Roma) Marco Calamai si dimise: da allora i nostri «massmedia» evitano d’interpellarlo. Se si desse ascolto a personaggi come Calamai (invece che agli improbabili "esperti geopolitici" che abitualmente affollano il nostro piccolo schermo) si capirebbe anche meglio chi siano e da dove provengano personaggi come al Sadr.

Il non ancora trentenne di Najaf è figlio e nipote di rappresentanti davvero notevoli dell’aristocrazia teologico-giuridica sciita irachena letteralmente martirizzati dalla dittatura saddamista. Il suo stesso nome è dunque simbolo di autorevolezza morale. Data la sua posizione religiosa al Sadr è impensabile come complice occulto o palese di al-Qaeda: una superficiale conoscenza dell’Islam basterebbe a chiarire quanto ipotesi del genere siano ridicole calunnie. Infine al-Sadr è abbastanza lontano anche dalle posizioni del governo iraniano. L’Iran è senza dubbio confinante con l’area dei suoi correligionari sciiti iracheni, ma i rapporti fra al Sadr e il dignitaro che è il vero anello di congiunzione fra sciiti d’Iraq e governo di Teheran, il Grande Ajatollah al-Sistani non sono mai stati troppo facili.
Che cosa succede allora a Najaf? È possibile che un giovane imam ostile ad al-Qaeda, guardato con sospetto dalla maggioranza dei governi arabi (che sono di osservanza sunnita) e non appoggiato neppure dal governo iraniano - che in questo momento sembra piuttosto disposto a giocare la carta dello screditato Chalabi - divenga il simbolo, dell’intera Resistenza irachena?

Per rispondere correttamente a tale domanda bisogna anzitutto partire da una considerazione che i mass media italiani hanno in generale a lungo osteggiato. Che cioè l’Iraq non è affatto un paese pacificato, uscito dal conflitto, in via di normalizzazione e minacciato solo da un pervicace terrorismo. Da tempo ormai si è stati costretti ad ammettere che non tutti gli iracheni che speravano negli occupanti o che si oppongono allo stesso governo insediato con l’appoggio di questi possono essere definiti «terroristi». Si è parlato di «ribelli»: una categoria definibile solo in opposizione a un governo autorevole e riconosciuto, cosa che l’attuale authority irachena (in attesa delle "libere elezioni" perviste per il 2005), è lontana dall’essere in quanto espressione di designazione straniera. Si usa ormai parlare di «guerriglieri» un termine ambiguo che oscilla fra la condizione di "fuorilegge" e quella di partigiano.

Il punto è proprio questo. La Najaf di al-Sadr sta diventando il punto di riferimento e di convergenza di armati volontari non solo sciiti, non solo iracheni, non solo arabi. Forse il pasticciaccio iracheno sta entrando in una nuova fase. L’Iraq non è solo un paese avviato sulla strada della ripresa, della democrazia e normalizzazione. È anche un paese occupato da forze militari straniere. C’è pure una guerra civile in corso e siamo dinanzi a istanze che sono anche di libertà. Prima lo si capisce, meglio sarà.

http://213.203.157.187/approfondimenti/index.aspx?id=562968&editionId=5&SectionId=4