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Il governo Bush accumula petrolio: obiettivo 700 milioni di barili
Publie le giovedì 5 agosto 2004 par Open-Publishing
di GALAPAGOS
Il governo Bush accumula petrolio: è da novembre del 2001 che le scorte strategiche statunitensi sono in crescita. La decisione la prese dopo le Twin towers il presidente Usa che ordinò di accumulare 700 milioni di barili. Attualmente le riserve strategiche ammontano a 665 milioni. La meta quindi è vicina, ma secondo gli esperti il governo Usa seguita a comprare petrolio «strategico» anche se tutto sconsiglierebbe, in questa fase di tensioni devastanti sui prezzi (ieri sono stati segnati nuovi record storici per il greggia), di seguitare a accumulare «oro nero». Il governo Usa compra petrolio e lo paga con una moneta fasulla. Compra petrolio e accumula disinvoltamente deficit enormi sul fronte della bilancia commerciale: negli ultimi dodici mesi oltre 500 miliardi di dollari, 900 mila miliardi di lire. Al tempo stesso accumula un bilancio federale pari al 5% del pil: questo spiega, meglio è più della flessibilità e del modello americano, perché l’economia statunitense è in ripresa e le altre economia (le europee) rimangono al palo.
L’economia Usa brucia energia: il 40% dei consumi mondiali di petrolio è concentrato negli states. Gli Usa sono il primo importatore di petrolio al mondo. Di fatto il prezzo del petrolio lo fanno loro: solo quando l’economia Usa è in recessione il prezzo del greggio diminuisce. Il modello di consumi Usa è inimitabile: nessun altro paese può permettersi consumi energetici paragonabili a quelli Usa. Nulla è al «risparmio» e, salvo alcuni stati, la politica economica non favorisce il risparmio e il contenimento delle emissioni. Il modello Usa è un modello «imperiale» e tale, per Bush, deve rimanere. Rifiutando, anche, accordi internazionali, come ad esempio il protocollo di Kyoto.
Il bisogno energetico spiega - molto di più della «libertà duratura» - larga parte della politica estera: sono le basi materiali del vivere Usa che giustificano tutto. E Bush lo ha detto e riaffermato più volte. E anche ora che le cose in Iraq non vanno granché bene (non passa giorno che un oleodotto non vada in fiamme) per gli Usa non va male: grazie al dollaro seguitano a comprare petrolio dappertutto, facendo la pace perfino col diavolo Gheddafi.
Esistono anche cause oggettive che limitano l’estrazione di petrolio: la capacità produttiva su tutte. Che significa anche giacimenti in via di esaurimento, almeno quelli economicamente più convenienti. I paesi con più riserve sono, non casualmente, l’Iraq, il Kuwait, gli Emirati Arabi e l’Arabia Saudita. Fuori del Medio oriente solo il Venezuela ha riserve gigantesche. E non è casuale che la strategia di Bush sia di riprendere il controllo del Venezuela, per farne il serbatoio statunitense.
Gli alti prezzi del petrolio (sono ormai parecchi gli istituti di ricerca che fanno ipotesi su quello che accadrà con un petrolio a 50 dollari al barile) rischiano di mettere in crisi lo sviluppo di molti paesi. In primo luogo la Cina e l’India; più in generale tutti i paesi del Far East che dipendono per il 70% dei loro consumi energetici dalle importazioni.
Diverso, invece, è il caso dell’Europa: il petrolio che si infiamma ha riflessi immediati soprattutto sul sistema dei prezzi. In Italia, la benzina a 2.300 lire (1,18 euro al litro) è già una realtà. Se gli aumenti non si fermano tra poco aumenteranno tutti i prodotti. Non solo quelli nei quali la componente energetica è alta. La sensazione è che con l’alibi del petrolio anche il prezzo del caffè salirà.
L’unica possibilità, in questo contesto, è l’avvio di una politica economica che crei sviluppo puntando su fonti energetiche alternative. La legge Marzano sul riordino energetico varata alcuni giorni fa non muove, però, in questa direzione. E l’annuncio di ieri di una nuova tranche (la terza) di privatizzazione dell’Enel (la presenza pubblica scenderà al 30%) ne è la conferma: la privatizzazione e la liberalizzazione dell’energia elettrica hanno portato non libertà economica per tutti, ma profitti enormi per pochi.