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Il marchio a stella: Uno stato contro un popolo

Publie le sabato 28 febbraio 2004 par Open-Publishing

L’antisemitismo è un’ideologia razzista volta contro gli ebrei. Ha radici
antiche. Nel suo classico "La questione ebraica. Un’interpretazione
marxista", pubblicato postumo in Francia nel 1946, il marxista belga Abram
Leon (attivo nella resistenza durante la II guerra mondiale e giustiziato
dalla Gestapo nel 1944) ha inventato la categoria di un «popolo classe» in
riferimento alla vicenda degli ebrei, che sono riusciti a preservare le loro
caratteristiche linguistiche, etniche e religiose nel corso di tanti secoli
senza essere assimilati.

Questo non è vero unicamente per ebrei; altrettanto si potrebbe affermare di
molte minoranze etniche: i copti, gli armeni della diaspora, i mercanti
cinesi in Asia sud-orientale, i musulmani in Cina, ecc.
Prerogativa comune di questi gruppi è che divennero commercianti in un mondo
pre-capitalistico, dove ricchi e poveri provavano lo stesso disagio.

L’antisemitismo del XX secolo, solitamente fomentato dall’alto dai preti
(Russia, Polonia), da politici o intellettuali (Germania, Francia e, dopo il
1938, Italia), da grossi affaristi (Usa, Gran Bretagna), ha fatto leva sulle
paure e sul sentimento di insicurezza di una popolazione impoverita. Da qui
la definizione di August Bebel dell’antisemitismo come «il socialismo degli
sciocchi». Come in altre forme di razzismo, le radici dell’antisemitismo
sono sociali, politiche, ideologiche, economiche. Lo sterminio degli ebrei
nella II guerra mondiale, attuato dal complesso
politico-militare-industriale dell’imperialismo tedesco, è stato uno dei
peggiori crimini del XX secolo, ma non l’unico. Prima della grande guerra, i
massacri compiuti dal Belgio in Congo causarono tra i dieci e i dodici
milioni di morti.

L’unicità dello sterminio degli ebrei sta nel fatto che esso si è consumato
in Europa (il cuore della civiltà cristiana) e che è stato perpetrato
sistematicamente - da tedeschi, polacchi, ucraini, lituani, francesi e
italiani - come fosse la cosa più normale del mondo. Da qui la definizione
di Hannah Arendt su «la banalità del male». Dopo la fine della II guerra
mondiale, in Europa occidentale l’antisemitismo popolare del vecchio tipo è
declinato restando limitato in larga misura a ciò che restava delle
organizzazioni fasciste o a organizzazioni neofasciste. In Polonia, dove gli
ebrei furono uccisi praticamente tutti, è rimasto forte, così come in
Ungheria.

Nel mondo arabo c’erano minoranze ebraiche bene integrate al Cairo, a
Baghdad e a Damasco, che non soffrirono al tempo dello sterminio degli ebrei
d’Europa. Storicamente, i musulmani e gli ebrei sono stati molto più vicini
gli uni agli altri di quanto entrambi non siano stati vicini alla
cristianità. Anche dopo il 1948, quando tra le due comunità sorsero tensioni
in tutto l’oriente arabo, furono le provocazioni sioniste, come gli
attentati dinamitardi dei caffè ebraici a Baghdad, a spingere gli ebrei
arabi fuori dei loro paesi nativi, in Israele.

Il sionismo non ebraico ha un pedigree antico e permea la cultura europea.
Risale alla nascita delle sette fondamentaliste cristiane dei secoli XVI e
XVII, che prendevano l’Antico Testamento alla lettera. Ne fecero parte
Oliver Cromwell e John Milton. In seguito, per altri motivi, Rousseau, Locke
e Pascal salirono sul carro del sionismo. Infine, per ragioni abiette, anche
il Terzo Reich sostenne l’idea di una patria per gli ebrei. L’introduzione
alle «Leggi di Norimberga» del 15 settembre 1935 recitava: «Se gli ebrei
avessero un loro stato dove la maggior parte di essi si sentisse a casa, la
questione ebraica potrebbe essere considerata risolta già oggi, anche per
gli stessi ebrei. Tra tutti, i sionisti convinti sono quelli che meno hanno
obiettato alle idee fondamentali delle Leggi di Norimberga, perché sanno che
queste leggi sono l’unica soluzione corretta per il popolo ebraico». Molti
anni dopo, Haim Cohen, un ex giudice della Corte Suprema di Israele,
affermava: «L’amara ironia del fato ha decretato che le stesse
argomentazioni biologiche e razziali sviluppate dai nazisti, che ispirarono
le incendiarie leggi di Norimberga, facciano da base alla definizione
ufficiale dell’ebraicità in seno allo stato di Israele» (citato in Joseph
Badi, Fundamental Laws of the State of Israel, 1960).

I leader sionisti hanno spesso negoziato con gli antisemiti per conseguire i
loro obiettivi. Theodor Herzl parlò apertamente con Von Plehve, principale
promotore dei pogrom nella Russia zarista; Jabotinsky collaborò con Petlura,
il boia ucraino degli ebrei; sionisti «revisionisti» trattarono in termini
amichevoli con Mussolini e Pilsudski: gli accordi di Haavara tra le
organizzazioni sioniste e il Terzo Reich stabilirono l’evacuazione dei beni
degli ebrei tedeschi.

Il sionismo moderno è l’ideologia del nazionalismo secolare ebraico. Esso ha
poco a che fare con il giudaismo come religione e, a oggi, molti ebrei
ortodossi sono rimasti ostili al sionismo. Tra questi, la setta chassidica
che, nell’aprile 2002, ha partecipato a una manifestazione palestinese a
Washington portando cartelli che dicevano: «abbasso il sionismo» e «Sharon:
il sangue palestinese non è acqua».

Il sionismo nacque nel XIX secolo come risposta diretta al feroce
antisemitismo che permeava l’Austria. I primi immigrati ebrei in Palestina
arrivarono nel 1882, e molti di loro erano interessati solo a mantenere una
presenza culturale. Non esiste un «diritto storico» degli ebrei nei
confronti della Palestina. Questo mito grottesco ignora la storia reale (già
nel XVII secolo, Baruch Spinoza definì l’Antico Testamento «una raccolta di
favole», censurò i profeti e per questo fu scomunicato dalla sinagoga di
Amsterdam). Molto prima della conquista romana della Giudea nel 70 d.C., la
maggioranza della popolazione ebraica viveva al di fuori della Palestina.
Gli ebrei nativi furono gradualmente assimilati nei gruppi confinanti come i
fenici, i filistei, ecc. I palestinesi sono, nella maggior parte dei casi, i
discendenti delle antiche tribù ebraiche e la scienza genetica recentemente
ha confermato questo dato sgradito ai sionisti.

Lo stato di Israele fu creato nel 1948 dall’Impero britannico e sostenuto
poi dal suo successore americano. Era uno stato di coloni europei. I suoi
primi leader proclamarono il mito di una «terra senza popolo per un popolo
senza terra», negando così la presenza dei palestinesi. Alcune settimane fa
lo storico sionista Benny Morris in una agghiacciante intervista a Haaretz
ha ammesso l’intera verità. Nel 1948, l’esercito sionista cacciò 700.000
palestinesi dai loro villaggi. Si verificarono numerosi episodi di stupri.
Egli parla di «pulizia etnica», distinguendola accuratamente dal genocidio,
e prosegue difendendo la pulizia etnica se perpetrata da una civiltà
superiore, paragonandola allo sterminio dei nativi americani da parte dei
coloni europei in Nord America. Anche questo, per Morris, fu giustificato.

Gli antisemiti e i sionisti avevano un aspetto in comune: l’idea che gli
ebrei fossero una razza speciale, che questa non potesse integrarsi nelle
società europee e che necessitasse di un suo grande ghetto o patria. La
falsità di questa idea è dimostrata dalle realtà di oggi. La maggioranza
degli ebrei del mondo non vivono in Israele, ma in Europa occidentale e in
Nord America.

L’antisionismo fu una battaglia che prese le mosse dal progetto di
colonizzazione sionista. Alcuni intellettuali di origine ebraica hanno
svolto un ruolo importante in questa campagna e lo fanno ancora oggi, anche
in Israele. Tutte le mie conoscenze su sionismo e antisionismo derivano
dagli scritti e dai discorsi di ebrei antisionisti: Akiva Orr, Moshe
Machover, Haim Hanegbi, Isaac Deutscher, Ygael Gluckstein (Tony Cliff),
Ernest Mandel, Maxime Rodinson, Nathan Weinstock, solo per citarne alcuni.
Essi hanno obiettato che il sionismo e le strutture dello stato ebraico non
hanno offerto un vero futuro al popolo ebraico insediatosi in Israele. Non
hanno offerto altro che una guerra infinita. Dopo il 1967 c’è stato un
revival del movimento nazionale palestinese che ha visto sorgere molti
gruppi differenti, la maggior parte dei quali distinguevano attentamente tra
antisionismo e antisemitismo. Nondimeno, il ruolo svolto da Israele
indubitabilmente ha alimentato un antisemitismo popolare nel mondo arabo.
Comunque questo non ha radici antiche e uno stato sovrano palestinese vi
porrebbe fine rapidamente. Storicamente, si sono verificati pochissimi
scontri tra ebrei e musulmani negli imperi arabi.

La campagna contro il presunto, nuovo «antisemitismo» odierno in Europa è
fondamentalmente un cinico espediente da parte del governo israeliano per
sottrarre lo stato sionista a qualunque critica alla sua costante e
sistematica brutalità contro i palestinesi. Gli attacchi quotidiani sferrati
dall’esercito israeliano hanno devastato le città e i villaggi palestinesi,
ucciso migliaia di civili (specialmente bambini) e i cittadini europei sono
consapevoli di questo. La critica a Israele non può e non deve essere
equiparata all’antisemitismo. Il fatto è che Israele non è uno stato debole
e indifeso. È il più forte stato della regione. Possiede armi di distruzione
di massa vere, non immaginarie. Possiede più carri armati, aerei da guerra e
piloti che il resto del mondo arabo messo insieme. Affermare che questo
stato è minacciato da un qualunque stato arabo è pura demagogia. È Israele a
creare le condizioni che portano agli attentatori suicidi, come persino i
sionisti più convinti stanno cominciano a capire. Fintantoché la Palestina
resterà oppressa, non ci sarà pace nella regione.

La sofferenza quotidiana dei palestinesi non appassiona la coscienza
liberale dell’Europa, oppressa dal senso di colpa (e a ragione) per non aver
saputo difendere in passato gli ebrei dell’Europa centrale dal rischio di
estinzione. Ma il loro sterminio non dovrebbe essere usato come copertura
per commettere crimini contro il popolo palestinese. Su questa questione le
voci dell’Europa dovrebbero levarsi forti e chiare, e non farsi intimidire
dal ricatto sionista.

(Traduzione di Marina Impallomeni)

(da Il Manifesto)