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Intervista a Piero Fassino: «Non votare, non rinunciare»

Publie le sabato 28 febbraio 2004 par Open-Publishing

Intervista a Piero Fassino: «Non voteremo sul finanziamento alla missione in
Iraq». La guerra «era e resta sbagliata, ma non possiamo ritirare subito i
nostri soldati». Per il segretario Ds è in corso «una campagna strumentale
d’impronta staliniana che punta alla divisione del partito»

«Ma perché ci hai proposto quest’intervista?» La domanda ci accompagna nello
studio di Piero Fassino e la giriamo subito al segretario dei Ds: «Perché
noi - risponde - crediamo al pluralismo a sinistra e poiché i nodi della
guerra in Iraq e del voto sul finanziamento alle truppe italiane sono
rilevanti, vogliamo dialogare anche con chi, nel movimento pacifista, ha
posizioni diverse dalle nostre. Anche con chi come il manifesto ci sottopone
a continui attacchi usando un metodo d’impronta staliniana, adottando la
categoria del tradimento, come quando - dopo il voto al senato - avete
sbattuto in prima pagina la faccia mia e di Rutelli con il titolo
`Responsabili’; per non parlare delle vignette di Vauro, le jene, gli
editoriali. Ma oggi il punto è il merito del rapporto tra l’Italia e la
situazione irachena, su cui c’è un confronto aperto nel movimento per la
pace, nel centro sinistra e anche nel nostro partito. Questa è la
questione». Appunto, parliamo di questo.

Come fate a non votare contro una missione militare pur dicendo che la
guerra è stata sbagliata, con quale coerenza?

La guerra è stata sbagliata e lo abbiamo sempre detto, come tragiche sono le
conseguenze di un conflitto che ha aggravato la situazione irachena e
mondiale. Ma il voto di cui parliamo racchiude - per una forzatura
strumentale del governo - dieci diverse missioni: su nove di esse, dalla
Bosnia al Kosovo, noi concordiamo, su quella irachena no. Per questo
presenteremo emendamenti che dicono un chiaro no al prolungamento della
missione in Iraq e non parteciperemo al voto finale, non accetteremo il
ricatto del governo.

Però, visto anche che il voto del centro-sinistra non è determinante, è
evidente che questo è un voto politico sulla guerra in Iraq...

Questa è una forzatura. La non partecipazione al voto non cambia di un
millimetro il nostro giudizio sulla guerra e la nostra contrarietà a come
l’Italia sta nel dopoguerra. Ma perché devo bocciare le missioni che
condivido?

Ma allora se è un voto solo sul finanziamento delle missioni perché non
votate direttamente a favore?

Perché voterei sì anche alla missione in Iraq...

Vedi che il senso politico del voto è quello? E che così rischiate di
«scomparire»?

No, non scompaio affatto, scelgo una terza soluzione, che non è
l’astensione, ma il non voto. La realtà è che è in corso una campagna contro
i Ds e le sue scelte politiche, in primo luogo la lista unitaria, che viene
rappresentata come scelta moderata del nostro partito. E allora si assegna
al voto sull’Iraq un valore simbolico per «dimostrare» che la lista unitaria
scivola a destra. Non c’entra niente la guerra, né l’Iraq, è una lettura
strumentale che io respingo e contesto.

Ma non puoi dire che le divisioni interne ai Ds siano solo frutto di una
campagna di stampa o di una pressione politica su di voi. La vostra gente
ragiona soprattutto con la propria testa....

Sì ci sono opinioni diverse tra di noi, che io rispetto, ma dall’esterno si
cerca di alimentare e ingigantire queste divisioni.

Qui sei tu che applichi categorie staliniane, cos’è un complotto?

Macché... io guardo ciò che succede: noi e voi siamo in disaccordo da tanti
anni su tante cose, dal Medio Oriente - e voi state facendo danni enormi con
il vostro unilateralismo - alle politiche del lavoro. A questo aggiungete un
pregiudizio di fondo.

A noi sembra semplicemente che le polemiche sul merito siano utili. E,
allora, torniamo al merito. Non voterete, ma volete dire almeno qualcosa di
chiaro sulla presenza delle truppe. Siete o no per il ritiro dei soldati
italiani dall’Iraq?

Il problema vero non è tanto come si vota tra qualche giorno, ma come si
esce dal pantano del dopoguerra iracheno. Joschka Fischer ha dichiarato, e
sono d’accordo con lui, che la questione vera è come riconquistare la pace.
E allora dico che si deve fare di tutto per passare all’Onu la guida
effettiva della transizione, che va applicata la risoluzione 1511, che si
deve dotare l’Iraq di una costituzione prima di fare le elezioni, e che poi
deve andare il prima possibile verso un graduale passaggio di poteri
dall’Onu alle autorità irachene. Vogliamo tutti insieme incalzare il governo
su questi obiettivi? Ad esempio per avere una posizione comune dell’Europa
che oggi non c’è, per riconvocare il consiglio di sicurezza dell’Onu, per
dare un termine perentorio entro cui o c’è una svolta oppure il governo
viene in parlamento proponendo di riconsiderare la nostra presenza lì.

Ma stai sfuggendo alla domanda di prima: i Ds chiedono o no il ritiro
immediato delle truppe italiane dall’Iraq?

La proposta del ritiro immediato mi sembra sbagliata e insufficiente, perché
qualunque persona di buon senso si chiede cosa succederebbe in Iraq se tutti
decidessero di ritirarsi immediatamente. Ci sono organizzazioni umanitarie e
associazioni - cattoliche e laiche - che pur dicendo no al rifinanziamento
della missione non chiedono il ritiro immediato delle truppe. Anche perché
ritirando i nostri soldati gli americani resterebbero padroni assoluti del
campo.

Non siamo d’accordo, ma comunque il 30 giugno scade la missione italiana:
perché non dite da subito che se le cose non cambiano ce ne dobbiamo andare?

Nessuno sa cosa succederà in Iraq da qui a giugno. Certo quel che possiamo
chiedere al governo è di riconsiderare la presenza militare italiana se al
30 giugno non ci sarà una svolta nella situazione irachena.

Hai citato l’Onu. Pensi che debba gestire una missione di pace con le truppe
dei paesi che hanno partecipato alla guerra oppure questi stati - iniziando
dagli Usa - ne dovrebbero essere esclusi per garantire una transizione
pacifica?

Penso a una forza multinazionale, anche con paesi arabi, sotto egida Onu. Ma
bisogna parlare un linguaggio di verità e non fare demagogia: non è
pensabile escludere gli Stati uniti, gli unici a possedere una logistica
capace di sostenere un impegno così grande in un paese appena uscito da una
guerra.

Gli americani sotto comando Onu? Ti sembra credibile?

Perché no? Se c’è un accordo all’Onu si può fare, è stato fatto in tante
altre aree del mondo...

Tu dai giudizi molto diversi tra le varie missioni in cui l’Italia è
impegnata. Viene il dubbio, pensando al Kosovo, che per voi siano buone le
guerre decise sotto governi di centro-sinistra e cattive solo quelle dei
governi di centro-destra...

No. Io condivido le missioni in Bosnia, Macedonia e Kosovo perché decise in
chiave di peacekeeping e avvengono sotto bandiera Onu. Garantiscono
stabilità e sicurezza. Per ragioni di merito io sono d’accordo, non perché
sono state decise da governi di centro-sinistra.

Ma ti sembra che in Iraq i nostri soldati sono impegnati in una missione di
pace? Non stanno facendo la guerra?

Per come stanno andando le cose, con i nostri soldati sotto comando inglese
e senza un deliberato dell’Onu, la nostra presenza lì si affianca a quelle
di occupazione anglo-americana. Ma guardando quello che gli italiani hanno
fatto in concreto finora non mi sembra che si possa dire che stanno facendo
la guerra: nessun iracheno è morto per un proiettile italiano.

Il 20 marzo sarai in piazza?

Certo, insieme a migliaia di militanti dei Ds, noi facciamo parte del
movimento per la pace che è fatto di diverse culture e sensibilità. Anche
sul tema dell’uso della forza. Su questo vorrei essere chiaro. Io ho il
massimo rispetto per chi rifiuta a priori l’uso della forza, ma trent’anni
di politica mi hanno insegnato che ci sono dei passaggi in cui la politica
può essere costretta a ricorrere alla forza come estremo rimedio. E’ però
necessario che ciò accada in un quadro di legalità internazionale e dopo che
ogni altro strumento sia stato utilizzato e si sia rivelato vano.

INTERVISTA AL MANIFESTO DEL 27 febbraio