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Intervista ad Arundhati Roy

Publie le venerdì 3 settembre 2004 par Open-Publishing

Dazibao


di Monica Capuani

Il coraggio di accusare i potenti, Stati Uniti in testa, una prosa chiara,
un
ragionamento senza involuzioni, la forza delle prove: cosi Arundhati Roy “sacerdotessa” del
Dio delle piccole cose, è diventata la star dei no-global


John Updike ha colto alla perfezione la complessità di Arundhati Roy nella recensione
a Il dio delle piccole cose apparsa sul New Yorker. “Roy sfoglia uno a uno gli
strati dei suoi misteri con una delicatezza così ingegnosa, un’abilità così folgorante
nell’accumulare rivelazioni, che parlare della trama sarebbe usarle violenza”.
Questa riflessione non vale solo per il romanzo del 1997 vincitore del Booker
Prize, venduto in più di 6 milioni di copie: vale anche per la donna che l’ha
scritto.

Arundhati Roy ha la grazia e la sensualità naturale che oggi solo le indiane hanno avuto la forza di conservare. Minuta, bellissima, simile all’icona di un’ennesima divinità del pantheon indù: la dea della fragilità. Qualcuno l’ha paragonata a Audrey Hepburn per il rispetto, la circospezione che una bellezza così delicata suscita in chi la guarda. Ma quando fa tacere il suo sorriso e comincia a parlare, le cose si complicano. Le sue parole sono strali lanciati con semplicità, decisione contro i ricchi, i potenti, i mistificatori, i duri di cuore, gli sfruttatori che distruggono la civiltà. Negli articoli degli ultimi 2 anni, raccolti da Guanda nel recente Guida all’impero per la gente comune, ce n’è per tutti, Berlusconi compreso. Una scrittura chiara, una linea di ragionamento senza involuzioni, un fitto corredo di prove (come quelle prodotte nei saggi dell’amato Chomsky), ricchissime bibliografie. Queste le sue armi per svelare, al di là della propaganda, i retroscena dei conflitti caldi dell’attualità internazionale: Israele, il Golfo, la lotta al terrorismo post-11 settembre. Puntando il dito sull’avidità economica degli Usa, truccata da operazioni di marketing che trasformano l’ingerenza dell’impero in meritoria crociata per l’affermazione della democrazia. E il rigore della sua analisi severa non si applica solo all’America. Quando Sonia Gandhi ha portato il Congresso alla vittoria nelle ultime elezioni, Arundhati ha esultato. Ma poi ha scritto sul Guardian: “Il Congresso è diventato il partito di maggioranza e ai partiti di sinistra è stato dato un mandato senza precedenti. Eppure, mentre festeggiamo, sappiamo che su tutti i temi fondamentali, tranne il manifesto nazionalismo indù (la bomba atomica, le grandi dighe e la privatizzazione), il Congresso e il Bjp non hanno grandi differenze ideologiche”. Nessuna concessione per lei, paladina della piccola gente.

Perché dopo un romanzo straordinario un libro così politico?

«Esplorare il complesso legame tra potere e impotenza è sempre stato il mio tarlo, da quando studiavo architettura. Ho iniziato a pensare in modo politico a 3 anni, e per tre quarti della mia vita ho combattuto contro la tradizione. Sono cresciuta in un piccolo villaggio del Kerala e ho desiderato con tutte le mie forze di non rimanere là, in trappola, costretta a sposare uno di quegli uomini per sfornargli figli. All’inizio del ’98, dopo l’uscita di Il dio delle piccole cose, in India è salito al potere un governo di estrema destra che ha autorizzato i test nucleari. Il plauso è stato quasi unanime e mi sono ritrovata a capo del dissenso. La fine dell’immaginazione è stato il primo di una lunga serie di scritti politici. In quell’articolo c’è una previsione della strage del Gujarat del marzo scorso, quando 2000 musulmani sono stati assassinati, 150 mila strappati alle loro case e il governo accusato d’aver partecipato a quel crimine, rieletto. Oggi in India la minaccia non è quella d’una dittatura, ma di una democrazia fascista. Si svendono il Paese, le sue infrastrutture alle multinazionali in nome della globalizzazione, dell’ingresso nel mercato mondiale, e intanto si istigano gli indù a prender possesso del Paese eliminando i musulmani. Ogni volta che scrivo un intervento politico, spero sia l’ultima volta. Ma non si può tacere che in India la gente vive all’ombra del fascismo».

Lei ha scritto che oggi “la democrazia è la puttana del mondo libero”. Cosa intendeva dire esattamente? «Il neoliberismo ha imparato a minare le basi della democrazia: rosicchiata dall’interno, è diventata solo un guscio vuoto. L’anno scorso sono stata in carcere per disprezzo della corte: i giornali indiani mi hanno trattata come una celebrità impertinente che cerca di farsi pubblicità. La Corte Suprema indiana è un’istituzione autoritaria, interna a una democrazia, che prende tutte le decisioni, dall’istituzione dei templi alle privatizzazioni. Alle sue sentenze non ci si può appellare e i sondaggi affermano che tra i giudici c’è una corruzione del 60%. Negli Usa c’è una legislazione avanzata sulla stampa libera, ma lo spazio in cui viene esercitata è venduto al migliore offerente. C’è un consenso manipolato, come dice Noam Chomsky. Risultato: il 68% degli americani, stando ai sondaggi, ha creduto che Saddam Hussein fosse in combutta con al Qaeda e quindi giustifica la guerra. L’intreccio perverso tra mass media, alta finanza e tribunali fa sì che oggi crediamo di vivere in un regime di libertà, e invece siamo rinchiusi in un manicomio».

Come si può combattere questa mistificazione?

«Nessun Paese può opporsi alla macchina da guerra americana, nemmeno un’Europa unita. Ma attenzione. L’Iraq e l’Afghanistan sono riusciti a modificare dall’interno le strategie della guerra, arrendendosi e consentendo alle truppe americane di occuparli. In quel modo hanno disinnescato la potente aviazione dell’impero: gli Usa non possono bombardarli, perché ci sono i suoi uomini, né possono attaccare un altro Paese perché il grosso delle truppe - 130.000 soldati dei quali 30.000, non americani, che combattono sperando d’ottenere il passaporto - è impegnato là. Il fatto che siano impantanati là è già una vittoria. L’impero va affrontato neutralizzandone i punti chiave. Il campo di battaglia è l’Iraq, prima cosa occorre isolare, boicottare, costringere alla chiusura le società che trarranno profitto dalla privatizzazione delle enormi risorse petrolifere».

Quali previsioni fa sul futuro della situazione internazionale?

«Al di là dei confini nazionali, queste guerre inique hanno l’effetto di creare una società civile che è d’accordo nel resistere alle logiche solo economiche dei governi. Viaggiando negli Usa ho constatato che le critiche più aspre contro la politica di Bush vengono dall’interno del Paese. Dobbiamo rafforzare questa solidarietà di pensiero, aggirare gli Stati. La resistenza non violenta è stata neutralizzata, ormai è pura rappresentazione, si esprime nei weekend. Ci lasciano fare le nostre manifestazioni, così le acque si calmano e il lunedì torniamo buoni a lavorare. La Marcia del Sale di Gandhi del 1931 fu un grande pezzo di teatro politico ma anche un colpo terribile inferto al cuore economico del colonialismo. Oggi gli economisti governano il mondo, guai a toccare la loro sfera d’azione. L’African National Congress è al potere da 10 anni in Sudafrica e il reddito del 40% della popolazione nera povera è calato del 20%. Le privatizzazioni hanno tolto a milioni di persone servizi come acqua, elettricità. “Bisogna pagare” dicono, perché il profitto è il motore dell’economia. In un tribunale Usa c’è una causa per danni alle multinazionali arricchitesi sfruttando la manodopera nera durante l’apartheid. L’Anc è intervenuto cercando di chiudere la causa, per paura di guastare il clima propizio agli investimenti».

Ora tornerà a scrivere romanzi o continuerà le sue battaglie? «La letteratura è la forma di interpretazione del mondo più sovversiva, così molta gente oggi ascolta ciò che dico grazie a Il dio delle piccole cose. Ma in questi ultimi anni ci sono stati avvenimenti, nel mondo, che dovevano essere portati alla conoscenza di tutti. Ora i confini del campo di battaglia sono stati tracciati, bisogna chiedersi come rendere efficace la nostra militanza, e vincere. Non dico che non scriverò altri romanzi, ma non ho fretta, anche perché scrivere per me non è una carriera. Quando questo rumore di fondo sarà cessato, forse sarà il momento di tornare alla letteratura. Non c’è nulla che ami di più, non vedo l’ora. Quando scrivo un romanzo è come se le parole scaturissero da me a passo di danza, quando scrivo un saggio politico è la rabbia che me le strappa di bocca».

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