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L’intervista di Bertinotti a "Repubblica": «Il problema è la politica Usa»

Publie le domenica 22 agosto 2004 par Open-Publishing

«L’antiamericanismo non è la questione significativa all’ordine del giorno. E’ un fenomeno marginale, non in grado di incidere politicamente. Non stiamo discutendo se bere o no la Coca Cola, stiamo parlando di un fatto nuovo, enorme, che è l’avversione, ai confini con l’odio, nei confronti degli Stati Uniti d’America come potenza aggressiva portatrice di un linguaggio di oppressione».

Avversione squisitamente politica, dunque.

Sì, e con almeno due ragioni strutturali. La prima è che il mondo, i Paesi poveri, identificano gli Usa come gli autori e impositori di un modello di globalizzazione neoliberista che invece di portare sviluppo ha prodotto crisi e diseguaglianze. Questo è quel che pensa l’opinione pubblica sudamericana, non Castro e Marcos. Il secondo motivo scatenante dell’avversione è la teoria della guerra preventiva introdotta da Bush. Ha agito da moltiplicatore, da spartiacque.

Appunto, la critica all’amministrazione Bush sta producendo antiamericanismo.

Insisto nel non voler usare questo termine, così come, controcorrente, dico che chi condanna Sharon e la vergogna del muro di Israele non può essere accusato di antisemitismo.

Messa così, per lei ha un significato un’eventuale vittoria di Kerry? Cambierebbe le cose?

Certo, sarebbe comunque un punto di contraddizione importante, rappresenterebbe un’inversione di tendenza di quel conflitto fra civiltà che è la cornice nella quale stiamo vivendo. Kerry è un volto più compatibile con il mondo, oppone all’unilateralismo di Bush il multilateralismo delle azioni. Ma l’uno e l’altro rimangono sempre interni ad una costruzione imperiale dei rapporti con gli altri Stati. L’avversione verso gli Usa cambierà solo quando essi accetteranno il declino come potenza...
Un Paese come l’Italia può essere governato da posizioni antagoniste agli Stati Uniti?

Le relazioni fra Stati devono essere autonome e non subalterne. E questo vale per l’Italia, ma anche per l’Europa. La salvezza non viene dall’elezione di Kerry, ma dalla costruzione di un’Europa forte che sia in grado di garantire orizzonti di pace ai Paesi poveri. La prospettiva va rovesciata. E’ l’Europa che deve chiedere agli Stati Uniti, in questo momento portatori di guerra, un cambiamento strutturale. In questo senso il movimento per la pace è un’enorme risorsa.

(Stralci dall’intervista a Repubblica di ieri)

http://www.liberazione.it/giornale/040822/LB12D6C0.asp