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LA CRISI DELL’ANTIFASCISMO, di SERGIO LUZZATTO
Publie le giovedì 14 ottobre 2004 par Open-Publishing
di Patrick Karlsen
Con «La crisi dell’antifascismo», Sergio Luzzatto, studioso della Rivoluzione
francese e del fascismo, ha scritto un pamphlet sapidissimo e assai efficace:
adatto a qualunque cittadino italiano che voglia schiarirsi le idee intorno ad
alcuni fra i temi più ricorrenti nel dibattito pubblico in corso nel suo paese.
Si parte dalla constatazione che l’antifascismo, inteso quale insieme di valori fondanti il vivere civile della nostra democrazia, versi oggi in una crisi evidente di attrattiva e prestigio. Le cause, scrive l’autore, si possono rintracciare prima di tutto in un’inevitabile condizione di senilità: nelle leggi biologiche cui non solo le esistenze individuali, ma le vicende umane per intero sembrano dover soggiacere. Sessant’anni sono ormai passati, infatti, dalla fine del fascismo e dagli eventi della Resistenza, e oggi è adulta la generazione dei figli di coloro che già nacquero in età repubblicana. E poi anche in un declino di credibilità, cui l’antifascismo non è riuscito a sfuggire dopo il 1989 e la fine ingloriosa del «socialismo reale»: dato il rapporto «sottile e spesso equivoco che la memoria dell’antifascismo ha storicamente intrattenuto con la rimozione del comunismo» (p. 9). In altre parole, data la certa disponibilità, presso alcuni ambienti della cultura e della militanza antifascista, a tacere o minimizzare la portata storica delle colpe del comunismo. E se quest’ultimo ha costituito, di fatto, una delle anime più vitali e importanti dell’antifascismo, pare ora che la sua agonia sottenda, o quanto meno stia favorendo, l’agonia dell’altro.
È lo scenario periglioso di quanto sta avvenendo in Italia. Dove il rischio è che la condanna del comunismo (specie se sommaria e anacronistica, cioè incapace di tener conto «quanto fosse siderale la distanza che separava un comunista italiano da un fascista in termini di obiettivi politici, di immaginario sociale, di valori umani», p. 38) ecceda in ingordigia, e giunga a inglobare nel suo campo semantico la condanna dell’antifascismo. Offrendo il destro, per le medesime vie, a un’altra forma di equidistanza, che Norberto Bobbio ebbe a definire, pochi anni prima della morte, «aberrante»: quella tra antifascismo e fascismo.
Infatti, da sponde capziosamente terziste, è possibile prendere le distanze dall’uno come dall’altro. Ma diremmo meglio che purtroppo non si tratta di un rischio, quanto di una realtà già in atto. La posizione dei tre né, né fascista né comunista né antifascista, è proprio quella che sta dominando le scene della discussione massmediatica attuale: propagandata com’è da un’influente e composita legione di intellettuali (molti dei quali, ahimè, sedicenti liberali), poligrafi, operatori della cultura i più vari, dalle colonne dei maggiori quotidiani come dalle poltrone dei talk show televisivi, e finanche dagli sceneggiati nazional-popolari di prima serata.
Luzzatto lo chiama il «verbo post-antifascista». E non fa altro che sviscerare, con acume, una tendenza abbracciata entusiasticamente sin dalle più alte cariche istituzionali: da Marcello Pera, Presidente del Senato, il quale senza timore ha affibbiato all’antifascismo, parafrasando Renzo De Felice, la qualifica di «mito incapacitante», come a dire del tutto inservibile per definire una liberaldemocrazia moderna; a Silvio Berlusconi, che non ha mai ritenuto di dover presenziare, in veste di premier, ad alcuna celebrazione del 25 aprile. Il verbo post-antifascista, insomma, è il credo ispiratore di quel grande progetto revisionista, politico e storico insieme, cui oggi arride in Italia tanta fortuna. Storia e politica - trapela chiaramente dall’analisi di Luzzatto - procedono infatti a braccetto nella duplice volontà di riscrivere l’assetto istituzionale del paese, da un lato, e il suo passato recente, dall’altro. C’è, in altri termini, una relazione strumentale fra il revisionismo storiografico, che da almeno un decennio scarica a priori il suo discredito sopra il mito fondativo della Resistenza (che la buona storiografia, peraltro, ha già contribuito a smitizzare, pur senza liquidare), e il revisionismo politico che intende metter mano alla Costituzione della Repubblica, sorta appunto da quell’esperienza, e dagli ideali antifascisti che la animarono.
Nella fattispecie, è noto, il fine è di ridisegnare il ruolo della magistratura, il primato del Parlamento, le prerogative del Capo dello Stato, lo statuto della Consulta: non a caso, i caratteri «più genuinamente antifascisti» (p. 95) della nostra Carta costituzionale. Perché l’identità dell’Italia repubblicana, come di qualsiasi altra nazione, è fondata su valori scaturiti dalla sua storia: o meglio - essenziale precisazione - da alcuni episodi della sua storia, piuttosto che da altri. La scelta, che è morale e politica, di celebrare gli uni oppure gli altri, è una scelta che non ammette conciliazioni fra memorie per forza divise e contrastanti, e che tali debbono rimanere. Pena l’annacquamento della storia del Novecento nel mare indistinto di un’improponibile, quanto improbabile, storia bipartisan.
«Onora il padre e la madre. Qualunque padre e qualunque madre. Cos’altro invitano a fare - in effetti - gli storici, i giornalisti, i politici che perorano la causa di una riconciliazione nazionale tra i figli dei resistenti e i figli dei saloini, o che sognano addirittura lo spettacolo di un abbraccio in extremis tra gli epigoni delle brigate partigiane e gli epigoni delle brigate nere, se non ad annacquare le motivazioni ideologiche, psicologiche, etiche degli uni e degli altri nell’oceano di un embrassons-nous generale?» (p. 21).
EDIZIONE ESAMINATA E BREVI NOTE.
Sergio Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Einaudi, Torino 2004, pp. 105, 7 €.
L’autore (Genova, 1963) insegna Storia moderna all’Università di Torino. Tra i suoi libri, Il corpo del duce (1998), Il Terrore ricordato (2000) e, con Victoria de Grazia, per Einaudi, Il Dizionario del fascismo (2002-2003).