Home > La catastrofe dell’occidente

La catastrofe dell’occidente

Publie le venerdì 17 settembre 2004 par Open-Publishing

Da www.ventimarzo.org
e da http://www.ilbarbieredellasera.com/article.php?sid=11913

L’Altreuropamerichisraele
di Raniero La Valle

Non sto dicendo che è la fine del mondo, e non lo dirò perché nessuno mi
ascolterebbe, e perché io penso che il mondo sarà salvato. Ma dico, che
quale è progettato e perseguito, il nuovo secolo americano è la fine dell’
Occidente...
Com’è noto il progetto del nuovo secolo americano ("Project for the New
American Century") è stato avanzato nel corso degli anni ’90 dalla destra
neoconservatrice americana, che poi nel 2000 attraverso Bush si è insediata
alla Casa Bianca e che dopo l’11 settembre ha imposto tale progetto come
politica ufficiale degli Stati Uniti.
Dunque la data di inizio della realizzazione di questo progetto è il 14
settembre 2001, tre giorni dopo il crollo delle Torri Gemelle, quando Bush
andò ad annunciare la nuova politica dal pulpito della National Cathedral di
Washington. Pertanto è il 14 settembre, e non 1’11 settembre, il giorno più
lungo, quello dopo il quale nulla sarebbe stato più come prima.
Come è noto, il progetto del nuovo secolo americano è stato promulgato in
modo formale attraverso il documento sulla nuova "Strategia della Sicurezza
Nazionale degli Stati Uniti" del settembre 2002, in cui... si affermava che
in un mondo infido e nemico l’unica sicurezza per gli Stati Uniti era il
dominio, il controllo del mondo; gli Stati Uniti come potere sovrano, non
solo "superiorem non recognoscens", che cioè non riconosce alcun potere al
di sopra di sé, secondo la classica teoria della sovranità, ma anche
"aequalem non recognoscens", cioè che non permette che alcuno sia eguale a
sé, che è la neo moderna teoria dell’unica sovranità universale.

E’ del tutto evidente che non si può stabilire una sovranità universale
senza combattere. Nemmeno i vecchi Imperi poterono
stabilirsi senza combattere, anche se mai furono Imperi universali, tanto è
vero che se non si combattevano l’un l’altro stabilivano un concerto tra
loro, il cosiddetto concerto delle Grandi Potenze. Questa, per gli Stati
Uniti, è appunto la fase da cui vogliono uscire, affrancandosi dal concerto
e dettando la legge per il mondo che è fuori dai loro confini: né superiori
né uguali; ciò che indulgentemente viene definito l’unilateralismo
americano. La figura di questo sovrano universale è una figura nuova, e
perciò probabilmente non si può definire Impero.
Due sono i modelli a cui è paragonabile e a cui si rifà, gli archetipi...:
uno è il Mercato, che domina tutti e non è dominato da nessuno; l’altro è,
come sta nel DNA di tutti i poteri, la Signoria di Dio. Si tratta di due
trascendenze che agiscono con una Mano invisibile, come di Dio ha cantato il
Salmista e del Mercato ha cantato Adamo Smith, ma attraverso la mano
visibile e il braccio disteso degli esseri umani e dei loro poteri.
Il sovrano universale non solo assume come modello queste due trascendenze,
ma le incorpora nel proprio progetto; difatti il documento sulla Strategia
della sicurezza nazionale americana introduce il ’free trade’ ed il ’free
market’, libero commercio e libero mercato come supremi strumenti di
governo del mondo, e Bush prende Dio dalla sua parte, citando, nel discorso
programmatico del 14 settembre, la lettera di Paolo ai Romani: "Nessuno, né
principati né potestà, né altezza né profondità ci potrà separare dall’amore
di Dio"; con la conseguenza che i nemici del sovrano sono assunti col nome
del loro Dio, non sono arabi, sono islamici, non sono più combattenti
palestinesi, sono fanatici religiosi che si suicidano, e così la guerra si
può celebrare come era stata programmata, come uno "scontro di civiltà".

E la guerra ci vuole, perché non si può stabilire una sovranità universale
senza combattere. E poiché la guerra deve debellare tutti quelli che via
via si opporranno a tale sovranità, la lista dei nemici resta aperta, e i
nemici avranno via via molti nomi, non è più come quando il nemico si
chiamava Unione Sovietica e comunismo e le dottrine della sicurezza
nazionale come quelle dell’America Latina si modellavano su quell’unico
nemico; ci vuole un nuovo ed universale nome per il nemico, e il nome è il
terrorismo. E’ un nome sufficientemente malvagio e aborrito per dire:
terrorismo, terrorismo e non dover dare ulteriori spiegazioni. Mi ricorda l
’invettiva di Geremia (7,4) contro quelli che dicevano: "tempio del Signore,
tempio del Signore". Il terrorismo comprende tutto: i soldati italiani sono
stati uccisi dal terrorismo, l’Iraq che combatte con missili, mortai e
carretti dell’esercito iracheno disciolto è terrorismo, gli attacchi alle
sinagoghe e gli attentati in Turchia sono terrorismo, la resistenza cecena è
terrorismo, l’irredentismo irlandese o basco è terrorismo.

... ma chi sono, perché combattono, quali moventi, quali fini, quali le
possibili risposte politiche, tutto questo è perfino proibito chiederselo;
sono mostri, e chissà perché odiano la civiltà, la nostra civiltà, e ciò è
quanto basta a esecrarli; poi il cardinale Ruini... aggiunge che bisogna
amarli come nemici, come aveva suggerito la vedova di uno dei carabinieri
uccisi; amarli e annientarli, amarli ma non come si amano gli uomini. Ora
il problema, anche teorico, è che i terroristi si possono uccidere, magari
anche prima che diventino terroristi, come si fa in Israele con gli omicidi
mirati, ma il terrorismo non può essere estirpato, almeno fino a quando
venga perseguito il progetto della sovranità universale. E ciò perché
mentre il nuovo sovrano ha bisogno della guerra per stabilire la sua
sovranità universale, e per questo se ne è riappropriato con la prima guerra
del Golfo nel ’91, nello stesso tempo ha reso la guerra impossibile.
Creando e gloriandosi di avere una potenza militare senza pari e quale mai
si è avuta nella storia, inventandosi una guerra dove si muore da una parte
sola, affidandosi ad armi intelligenti e maneggiate da lontano, e
sprigionando una superiorità schiacciante su qualsiasi avversario, ha reso
la guerra, fatto di per sé essenzialmente dialettico, per chiunque altro
impossibile. Chi osa resistergli in guerra fa la fine della Yugoslavia,
dell’Afghanistan, dell’Iraq. Le sole guerre che sono ancora possibili sono
quelle tra poveracci, le cosiddette guerre dimenticate. Ma con l’America non
c’è partita, se la partita è la guerra. Del resto tutte le acrobazie
intellettuali e mediatiche che si sono fatte per definire le guerre con un
nome che la contraddicesse, guerra umanitaria, guerra come operazione di
polizia, guerra per il diritto, guerre preventive, guerre come operazioni di
pace, non sono altro che confessioni del fatto che la guerra senza aggettivi
non è più possibile; non è più possibile per le buone ragioni per le quali
fu ripudiata 50 anni fa, e non è più possibile per le nuove ragioni che si
sono rivelate col passaggio al mondo unipolare e al predominio di un’unica
potenza nell’ultimo decennio.
E allora se la guerra è stata resa impossibile, il suo surrogato è il
terrorismo. Non potendo ricorrere al terrorismo principale, che è la guerra,
che si combatte con armi pubbliche (publicorum armorum contentio), si
ricorre al terrorismo secondario, che si combatte con "armi private". Il
terrorismo è la guerra degli sconfitti, che non vogliono continuare
ad essere sconfitti, e che sperano di non essere più oltre sconfitti. E’
terribile ma è ancora umano; e perciò è politico, ed è suscettibile di una
soluzione politica. E’ quello che pensava Aldo Moro, persino quando stava
nelle mani dei terroristi.
Invece considerare il terrorismo come pura espressione di una pulsione
omicida e suicida, vuol dire considerarlo non umano, e perciò non politico e
non suscettibile di una soluzione politica. Ma poiché, come abbiamo detto,
per ragioni anche teoriche nell’attuale situazione è possibile uccidere i
terroristi, ma non è possibile estirpare il terrorismo, questa è una
posizione disperata, che ci costringe a morire di terrorismo.

In una trasmissione di "Porta a Porta" dopo l’11 settembre, qualcuno rievocò
il fatto che in regime democristiano, dopo la strage di Monaco, l’Italia
era riuscita a stabilire un’intesa politica con gli arabo palestinesi, per
cui l’Italia sarebbe stata tenuta fuori dal conflitto medio orientale, e sul
suo territorio non sarebbe stato compiuto nessun attentato...l’Italia
avrebbe sostenuto Israele, senza abbandonare la causa palestinese, e ciò
...fu nell’interesse dell’intero Occidente. E l’Italia rimase indenne e
sicura per decenni da quel terrorismo, anche se se ne inventò uno per conto
suo in casa propria. Ebbene, in quella trasmissione dagli esponenti del
nuovo regime si levò un coro di esecrazione, e si disse che mai più l’Italia
sarebbe scesa a patti, e che doveva affrontare il terrorismo come gli altri,
fare come gli eroici newyorkesi e i pompieri americani. Così oggi viviamo
tremando come una foglia, sperando che non ci capiti quello che è capitato
in Turchia. In tal modo anche noi siamo entrati in pieno nel circuito
guerra-terrorismo. E’ il circuito in cui si è cacciato tutto l’Occidente,
con la debole resistenza della Francia e della Germania. Ma da questo
circuito non si può uscire. Né la guerra può vincere il terrorismo, né il
terrorismo può vincere la guerra. Essi sono figli l’uno dell’altra. "Figlia
del tuo figlio",.. della guerra perpetua di Bush, applicando ad una
categoria politica un concetto teologico secolarizzato. Una volta, padre
David Maria Turoldo scrisse una lettera al Gazzettino di Venezia... per
spiegare...perché ce l’aveva con l’Occidente. " Io sento che l’Occidente può
essere tanto la salvezza quanto la rovina del mondo, mettendo in cima, al
vertice di tutto, la stessa Chiesa; e poi l’Europa; e poi gli Stati Uniti d’
America; e poi uno a uno tutti noi e i nostri Paesi. E non scriverei così se
non amassi; ne sentirei tanta pena (o sdegno, o vergogna) se non mi sentissi
ugualmente coinvolto, se non fossi della stessa carne, e partecipe della
stessa sorte". Se l’Occidente muore noi prendiamo il lutto per l’Occidente,
se l’Occidente uccide noi prendiamo il lutto per quelli che l’Occidente ha
ucciso. Padre David diceva perché ce l’aveva con l’Occidente: perché
seminava il suo cammino di vittime, "immolate agli egoismi più neri, alla
follia di un faraone dal cuore sempre più indurito", sicché la tentazione di
tanti di fronte a tutto ciò era di dire: "a che serve, tanto cosa si può
fare", con la risposta già scontata: "Non c’è niente da fare". E questa è la
più grave sconfitta, è ciò che queste forze sprigionate dall’Occidente "si
proponevano e si propongono di ottenere con il loro terrorismo. Ed è questo
il vero terrorismo, padre dell’altro contro cui è scatenata l’informazione
ufficiale. E questo secondo, invece, non è che il figlio naturale neppure
bastardo del primo terrorismo. Cosicché assistiamo da impotenti a un puro
scontro edipico, con strage di Innocenti senza fine" ...
Ma poiché non può durare senza fine, si può ipotizzare che questa fine sia
catastrofica. Nakba, la catastrofe, è il nome che i palestinesi danno all’
inizio della loro rovina, che è cominciata con l’espulsione dalle terre su
cui venne istituito lo Stato di Israele nel 1948, e continua ancora oggi con
l’annessione della restante Palestina ad Israele e la chiusura dei
palestinesi rimasti nelle enclaves circondate dal Muro. Ma catastrofe è
anche il nome che l’ebreo Gershom Scholem ha dato alla
realizzazione terrena delle speranze messianiche, realizzazione che perciò
doveva essere differita; tuttavia oggi la realizzazione di questa speranza
viene vista nello Stato ebraico, salutato nelle sinagoghe il sabato come l’
"inizio della redenzione". La politica che questo Stato conduce sembra
fatta apposta per dare ragione a questa teoria della catastrofe, intesa come
risvolto inevitabile del messianismo: ne è prova quanto hanno scritto sullo
Yediot Ahronot, il maggior quotidiano israeliano, i quattro ex capi negli
ultimi 20 anni dello Shin Bet, il servizio segreto israeliano, che perciò
sanno bene di che cosa parlano; criticando a tutta pagina la politica
israeliana verso i palestinesi, hanno scritto: "Attenti!
Avanti così andiamo dritti verso la catastrofe". "Se non troviamo un accordo
di pace, se lo Stato non alleggerisce la pressione nei Territori" (neppure
loro li chiamano Territori occupati) "si va verso l’autodistruzione".
Uno di loro, Ami Ayalon, capo dei servizi dal 1996 al 2000, dice: "Stiamo
procedendo a passi sicuri verso il punto in cui Israele non sarà più una
democrazia e una casa per il popolo ebreo".
E un altro, Avraham Shalom, capo dei servizi dall’81 all’86, ha detto:
"Dobbiamo riconoscere una volta per tutte che c’è una controparte. Dobbiamo
ammettere che l’altra parte ha sentimenti, che sta soffrendo, e che ci
stiamo comportando vergognosamente. Li umiliamo pubblicamente. Nemmeno noi
lo accetteremmo".
E un terzo, Yacov Peri, a capo dei servizi dall’88 al 94 ha chiesto il
ritiro unilaterale di Israele dalla striscia di Gaza.
Questi capi dell’intelligence israeliana non nutrono sentimenti
filopalestinesi, come non li nutriva il generale Rabin. La loro
preoccupazione è di evitare la catastrofe a Israele. La stessa
preoccupazione che ha esternato l’ex presidente della
Knesset, il Parlamento israeliano, Avraham Burg, quando ha scritto, anche
lui sullo Yediot Ahronot, che questa può essere l’ultima generazione
sionista, e che se Israele vuole costruirsi come la grande Israele, dal mare
al Giordano, mantenendo tuttavia una maggioranza ebraica, deve abbandonare
la democrazia: o deve espellere i palestinesi mettendoli "su carri
ferroviari, su bus, su cammelli e su asini" per farli partire, oppure deve
"istituire un efficiente sistema di separazione razziale, rinchiudendo i
palestinesi in campi di prigionia e villaggi di detenzione, il ghetto di
Qalqilya e il gulag di Jenin".
Non per questo eravamo venuti qui, dice Burg; "in questo abbiamo fallito".
Sono sentenze assai dolorose per Israele; più dolorose io credo di quella
percentuale del 59% di europei che secondo il sondaggio Eurobarometro
ritengono Israele un pericolo per la pace. Certo questi ebrei d’Israele non
si possono accusare di antisemitismo; però annunciano, se non ci sarà un
cambiamento, la rovina di Israele e la fine del sionismo... Ancora una volta
il pericolo non si può mettere fuori di noi, il male non lo si può
allontanare lasciandolo, fuori del muro; il pericolo viene da dentro di noi.
L’ulteriore problema è se la rovina di Israele può venire da sola, o se non
è destinata a travolgere molti altri...se sono in gioco la pace e la sorte
del mondo. Nessuno si azzarda, a parte Bin Laden, a preannunciare un’analoga
catastrofe agli Stati Uniti. Si arrivano a predire "disastrose conseguenze",
come ha fatto il sen. Robert Byrd in un discorso al Senato americano il 12
febbraio 2003: "Nello spazio di soli due brevi anni, questa irresponsabile e
arrogante Amministrazione ha avviato politiche che possono provocare
disastrose conseguenze per anni". In ogni caso a due anni dall’inizio del
nuovo secolo americano, che era stato annunciato come un secolo in cui
avrebbero trionfato gli interessi e i valori americani, e a un anno dal
documento in cui si prometteva che attraverso il controllo del mondo si
sarebbe garantita la sicurezza americana, gli Stati Uniti sono in una
situazione in cui sono insicuri e infelici come non sono mai stati finora.
La vena apocalittica del potere impersonata da Bush, comportando come
apocalisse secolarizzata un’apocalisse senza redenzione, un Ultimo Giudizio
senza giustificazione e senza grazia, non è che un suicidio.

In questo lungo suicidio, si consuma l’agonia dell’Occidente. Certo, si
potrebbe dire che il conflitto tra guerra e terrorismo riguarda gli Stati
Uniti come sovrano universale e Israele come Stato ebraico, e non l’
Occidente tutto intero. Gli stessi Stati Uniti si sono messi fuori dall’
Occidente, si sono proposti non più come capo e guida dell’Occidente, ma
fuori di esso e al di sopra anche di esso; nel documento sulle sicurezza
nazionale americana, Stati Uniti e Comunità Atlantica sono ormai nominati
come distinti, e la NATO è solo una delle tante, al quarto posto, delle
organizzazioni internazionali con cui gli Stati Uniti hanno a che fare.
L’Europa non ne è fuori. Dunque si potrebbe pensare che almeno l’Europa si
potrebbe tirar
fuori, salvare almeno se stessa. Ma ciò non è realistico. Ha ragione Robert
Kagan, uno dei maggiori esponenti della destra
radicale americana, quando dice, in un libro pubblicato anche in Italia
"Paradiso e potere", che Europa e Stati Uniti non possono differenziarsi sul
punto del primato del diritto sulla forza: anche l’Europa ha usato la forza
e spregiato il diritto, ha predicato la politica di potenza, ha dominato
sugli altri popoli non certo ispirandosi a principi illuministici.
... abbiamo la stessa storia, veniamo dagli stessi genocidi, noi l’abbiamo
fatto nell’America centrale e meridionale, loro nell’America del Nord, e
finora siamo stati insieme senza troppi scrupoli nella partita del Mercato
globale.
Perciò quando critichiamo le politiche di Bush e di Sharon... non possiamo
illuderci di tirarcene fuori. Non esiste un destino dell’Europa separato e
contrapposto a quello dell’America. L’America, l’Inghilterra, Israele...
sono l’Occidente; se vanno verso il suicidio, verso la catastrofe, è tutto l
’Occidente che va verso la catastrofe. E’ difficile però pensare che questo
esito potenzialmente catastrofico nella spirale guerra-terrorismo, sia
legato solo a quest’ultima emergenza, sia, come scriveva Franca D’Agostini
sul Manifest... "un disguido legato alla sventurata amministrazione Bush", e
che il rischio che corriamo nasca solo dalla politica di Sharon. La
tragedia che viviamo è in realtà la stazione terminale e il punto di caduta
di un intero corso storico, di cui il processo culminato nella guerra finale
di Bush e lo stesso capitalismo rappresentano solo l’ultimo tratto. Le
convulsioni di un mondo drammaticamente diviso dalla globalizzazione e
investito dalla guerra indetta dal sovrano globale rappresentano l’aspetto
certo più appariscente della crisi dell’Occidente.

Ma questa crisi ha molte altre componenti ...
1) la crisi dell’ethos dell’Occidente. Recentemente Umberto Galimberti, su
Repubblica, sosteneva che non funzionano più le tre etiche dell’Occidente.
Non funziona più l’etica dell’intenzione, perché nell’epoca atomica contano
gli effetti e non l’intenzione delle azioni, ...l’etica laica dell’uomo come
fine, perché i mezzi si mangiano il fine e la natura, ridotta a mezzo va in
frantumi, e ...l’etica della responsabilità perché la tecnica rende gli
effetti delle azioni più che mai imprevedibili. Nel mercato tecnicizzato non
c’è più spazio per l’agire, ma solo per il fare e ciascuno esegue azioni già
descritte e prescritte dall’apparato, che poi è lo stesso mercato. Dunque
non c’è libertà. Né l’ethos ha più corso nella politica, dove non si danno
più azioni morali o immorali, ma solo azioni misurate dal potere e dalla
forza, e dove è stigmatizzato il sogno, anzi il sogno, e perciò l’utopia, è
considerato la massima trasgressione e la massima minaccia, come insegna
Giuliano Ferrara nelle trasmissioni serali di La 7 e nelle reprimende
mattutine del Foglio.
2) La crisi del logos dell’Occidente. Finito il ciclo della filosofia dell’
essere, e quello della filosofia dell’io, come aveva avvertito Italo
Mancini, non è partito il ciclo della filosofia dell’altro e del suo volto,
come era stato auspicato. Non c’è più verità, l’appello alla verità è
considerato violento, totalitario, il pensiero è debole, il tentativo di
legare la politica
a una conoscenza delle cose, lo sforzo di farla dipendere non dall’
intelligence ma dalla intelligenza, da quella che Moro chiamava "l’
intelligenza degli avvenimenti", è considerato disfattista, quando c’è da
compattare l’opinione pubblica per la guerra: "silete sociologi" intimava,
come si ricorderà, un perentorio articolo del Corriere della Sera durante la
guerra di Afghanistan.
3) La crisi dello ius, la caduta verticale del diritto in Occidente...
voglio solo rilevare che la catastrofe del diritto è intervenuta proprio nel
momento in cui esso aveva raggiunto il suo apice, era arrivato a mettere
fuori legge la guerra, a proclamare i diritti fondamentali dell’uomo, a
disegnare un ordinamento universale e democratico delle Nazioni. Non solo
"miseria e grandezza del diritto", come Dossetti aveva titolato il suo
lavoro scientifico per la cattedra di diritto
canonico, ma la miseria e la caduta proprio nel momento della massima
grandezza del diritto. Dovremo chiederci perché.
Dunque crisi dell’ethos, del logos e dello ius. Ma questa triplice crisi
significa il venir meno di tre dei quattro pilastri su cui secondo la Pacem
in Terris di papa Giovanni doveva fondarsi la pace, e cioè la libertà, la
verità e la giustizia. Certo resta il quarto pilastro, l’amore, ed è per
questo che la casa è ancora in piedi.

Ma la crisi della libertà, della verità e della giustizia in Occidente
significa che è andato in crisi l’ordinamento complessivo dell’Occidente, la
sua identità e il suo rapporto con gli altri, che è ciò che con un termine
complessivo si può chiamare il suo nomos. Nomos è la legge, ma non è solo
il diritto. Nomos è il principio ispiratore, il fondamento dell’ordine e
insieme è un ordinamento concreto. Esso comprende la norma e nello stesso
tempo i rapporti reali e perciò il sistema economico sociale. Il
capitalismo, la globalizzazione, il Mercato, fanno parte del nomos. Il nomos
è la legge di cui parlava Paolo, di cui denunciava la schiavitù e anzi la
"maledizione", e nei cui confronti postulava e annunciava un ordine che la
depotenziasse e la superasse. Questa legge conteneva in sé un codice di
diseguaglianza, una antropologia della esclusione; infatti sanciva la
salvezza per gli uni, la perdizione per gli altri. E non solo la Torah, ma
anche il nomos greco e la lex romana. Questa disuguaglianza, pur superata in
via di principio nei secoli per quanto riguarda la discriminazione razziale,
etnica, sessuale, religiosa, servile (schiavi e liberi), di fatto è
arrivata fino a noi e si riproduce su larga scala nella grande selezione
operata dal Mercato globale e amministrata dal suo sovrano armato. Carl
Schmitt ci ha spiegato che il nomos, dal suo inizio, consiste essenzialmente
in tre cose: consiste nel modo in cui, nella società, è regolata l’
appropriazione, la distribuzione delle cose appropriate nonché l’uso, la
coltivazione e la valorizzazione delle terre e delle cose appropriate:
dunque appropriazione, divisione e produzione sono i parametri fondamentali,
secondo questo nomos, di ogni ordinamento concreto. Questo è il nomos che è
in crisi, il nomos dell’Occidente. Nella crisi di questo nomos, che va
dalla sua pretesa di imporsi su tutta la terra sotto lo scettro del sovrano
universale, fino alla spoliazione della natura e all’esclusione dalla vita
di miliardi di uomini operata dai rapporti di proprietà, di produzione e di
distribuzione, sta la crisi dell’Occidente; il suo agone, il suo
combattimento senza quartiere, ma anche la sua agonia.
...l’uscita dalla crisi non può stare solo nella conservazione di quanto di
buono e di grande pur questo nomos ha prodotto; non possiamo essere solo i
nostalgici conservatori dell’ONU o della Carta dei diritti umani o del
concetto di persona; non possiamo ridurci ad essere la Conservatoria di
registri e atti pubblici insigni cui non corrisponda la vita reale o il
Conservatorio appassionato di una musica classica ormai travolta dalla
musica pop; piuttosto dobbiamo resistere, criticare e innovare il nomos,
rivederne i presupposti e i fondamenti, per vedere in che cosa, al momento
di tirare le somme, hanno fallito. Infatti non c’è solo l’agonia dell’
Occidente, c’è anche la sua gloria che oggi è oscurata, c’è la sua vocazione
che oggi è interrotta, c’è la promessa o la speranza del suo futuro che era
stata seminata nella sua storia, che oggi è delusa.
La gloria dell’Occidente è la giustizia incorporata nel diritto; la sua
vocazione è l’universalità, la promessa o la speranza del suo futuro è di
non essere un Occidente contro il mondo, ma un Occidente per il mondo, parte
vitale di un mondo ricomposto nella sua unità, salvato nella sua integrità,
armonioso nelle sue differenze. Ebraismo, cristianesimo, Islam, illuminismo,
comunismo, ecumenismo delle Nazioni unite hanno sognato questo. L’Occidente
è stato scopritore di mondi, non alla maniera di Colombo o di Pizarro, ma
anche alla maniera di Francesco d’Assisi, di Marco Polo e di Matteo Ricci.
Il tradimento della vocazione dell’Occidente è questo, è questa rottura dell
’unità del mondo, è questa amputazione da sé del malvagio, è questo
immaginarsi predestinato a permanere in un mondo di scartati e di esuberi, è
questo definire gli altri non mediante una parola che afferma, ma mediante
una parola che nega: gli extracomunitari, i non americani, i non europei, i
non democratici, i non civili, i non sviluppati, i popoli non dello Spirito,
gli esuberi, i terroristi assassini.
La vocazione dell’Occidente è una vocazione all’inclusione, non all’
esclusione. La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è stata
accusata di essere occidentale... Ma non è un’accusa.. è una vocazione. E’
una chiamata a cui l’Occidente deve tornare a rispondere. Non dall’agonia
alla morte, ma a una nuova nascita nella vita del mondo. Questa è la nostra
speranza, che non è solo della volontà, ma anche della ragione; perché ha
dalla sua la storia, e ha dalla sua quelle enormi riserve di energia che si
sono manifestate nelle Chiese, nelle piazze, nei movimenti, anche in questi
ultimi mesi...io propongo che questo pensiero in qualche modo si faccia
movimento; non voglio dire un movimento nel senso organizzativo del
termine..ma che ci si deve mettere in movimento per stabilire un raccordo,
un dialogo, una convergenza tra l’altra Europa, l’altra America e l’altro
Israele, con un unico termine 1’Altreuropamerichisraele, un movimento che
unisca quanti diversamente pensano l’Occidente sui tre lati del mare, e ne
vogliano cambiare il destino, agendo nelle società civili, nelle istituzioni
e in seno ai diversi partiti e movimenti...

Raniero La Valle