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La coalizione lacerata dalla guerra

Publie le martedì 24 febbraio 2004 par Open-Publishing

Tra Margherita e DS, ma anche all’interno dei DS, ci sono problemi crescenti: non tanto perché c’è
qualcuno che se ne va sbattendo la porta (magari perché non gli si riconferma un seggio a
Strasburgo, come Vattimo), o per l’aggressività della maggioranza governativa, ma per l’offensiva della
destra interna.

I DS, già in difficoltà per le campagne isteriche dei vari Bondi, che sono sempre loro all’attacco
e li accusano di ogni crimine (compresi gli arricchimenti illeciti, che non saranno veri, ma
appaiono verosimili a un gran numero di italiani...), si trovano sballottati tra le proteste via fax
dei pacifisti, e le intimidazioni degli aggressivi “riformisti” interni, come i 30 senatori che
diffidano Fassino dall’assumere alla camera un atteggiamento meno ponziopilatesco di quello escogitato
nella camera alta. In questo quadro si inseriscono poi le dichiarazioni al Corsera del 17 febbraio
di Umberto Ranieri, oggi vicepresidente della commissione Esteri e da sempre esponente di un’ala
dei DS apertamente imperialista che ha plaudito a tutte le imprese belliche di questi anni; egli
non si accontenta di dire che “prendere sul serio la pace non può voler dire ritirarsi dall’Iraq”,
naturalmente perché in quel paese sarebbe iniziato un processo di stabilizzazione grazie alla
risoluzione n. 1515 dell’ONU. Va molto oltre: “Oggi il problema non è il ritiro, perché, diciamolo con
chiarezza, gli unici che hanno interesse a che i soldati occidentali ripartano sono coloro che in
Medio Oriente fomentano il terrorismo”.
Siamo serviti: siamo tutti “fomentatori del terrorismo”!

Naturalmente Ranieri tende un ponte a chi nel suo partito è meno oltranzista di lui e ha ancora
qualche dubbio: in Iraq bisogna restare, ma “l’importante è rendere la presenza delle truppe,
italiane e non solo, funzionali a un futuro di pace”. Una frase degna di Orwell: la pace si costruisce
con le truppe (comprese quelle statunitensi, a interpretare bene quel “non solo”).
Il correntone intanto non si preoccupa tanto per chi se ne va dai DS verso Di Pietro (come Falomi
e la De Zulueta), ma pensa solo a salvarsi la faccia; comunque snobba il PRC, che finisce per
essere coinvolto in questa confusione, senza riuscire ad incidere sul malessere diffuso.

Il nostro partito indubbiamente potrebbe avere un ruolo, ma di fatto non riesce: denuncia nei
comizi e sul giornale i cedimenti del centrosinistra, ma è talmente legato alla coalizione ormai in
quasi tutte le amministrazioni locali, e impegnato nella costruzione di un accordo per le elezioni
politiche (che le tensioni nel Polo potrebbero far anticipare), che non riesce a mobilitare
iscritti ed elettorato come sarebbe necessario per far esplodere le contraddizioni dei DS.
Certo appare compatto, perché con Bertinotti si è schierato senza defezioni gran parte del “ceto
politico”, tanto entusiasta della svolta e delle prospettive che apre sul piano elettorale, da non
rendersi conto del pericolo – non solo elettorale - che il partito corre. È un dato sconcertante:
una svolta di 180 gradi rispetto alle scelte di un congresso recente, viene accettata senza
reagire dalla maggioranza dei quadri nazionali e intermedi (una parte dei quali forse non se ne
accorgono neppure, impelagati come sono nella scelta di candidati a sindaco o presidente di provincia e
nella contrattazione di posti di assessore).

Probabilmente queste caratteristiche del partito si spiegano con un dato più volte segnalato dallo
stesso Bertinotti, ma non sufficientemente interpretato: il turnover enorme degli iscritti. Ogni
anno se ne è andato in media un terzo degli iscritti, con punte più alte in alcuni anni. Il numero
complessivo degli iscritti si è ridotto, ma non moltissimo, per l’afflusso di giovani e meno
giovani attratti dall’immagine radicale del partito, che poi in gran parte se ne vanno quando lo
conoscono dall’interno. Si direbbe che – almeno a giudicare dalle ondate di lettere pubblicate su
“Liberazione” – molti iscritti siano condizionati dagli umori del cosiddetto “ popolo di sinistra”.
Quando non si gettano a valanga sulle emozioni pilotate dai media (ultimo esempio, la morte di
Pantani), sono impegnati a denunciare l’ultima malefatta del “Cavalier Banana” e a domandarsi sterilmente
“fino a quando sopporteremo?” Oppure si lasciano andare a considerazioni nostalgiche per il campo
socialista e il grande partito comunista, senza essere sfiorati dalla semplicissima domanda “ma
perché sono finiti come sono finiti?”.

Anche ammettendo che le lettere pubblicate siano un riflesso un po’ deformato degli stati d’animo
degli iscritti, per i criteri di selezione redazionale, si ha ugualmente la sensazione che il
partito subisca i riflessi del travaglio del centrosinistra più che incidere su di esso.
La ragione è che, soprattutto da quando è cominciata la corsa a un’intesa col centrosinistra, di
illusioni su Ciampi, sul papa e soprattutto sull’ONU ne sono state seminate tante, o non sono state
contrastate quelle sparse a piene mani da altre forze. Si pensi a Ciampi chiamato a “testimonial”
della discesa in campo di Prodi al Palalottomatic, ma anche alla insufficiente reazione alla
retorica sciovinista sugli “eroi di Nasiriya”, con una discutibile partecipazione ai funerali di Stato
(altra cosa sarebbe stata la visita alle famiglie dei caduti per esprimere solidarietà umana e
comprensione per il loro dramma).

Quanto al papa, su cui avevamo tentato invano di scrivere su “Liberazione” qualcosa anche nel
quadro della strana discussione sulla religione (che oggi non sarebbe più l’oppio, o il
“tranquillante” dei popoli), le sue reticenze e ambiguità (equidistanza tra vittime e carnefici, a cui si fa
ugualmente appello perché “cessi la violenza”) sono state brutalmente chiarite dal cardinal Sodano,
in senso opposto ai desideri di chi aveva attribuito alla Chiesa cattolica e alle religioni in
genere (tranne quella islamica, s’intende...) un ruolo essenziale per la pace. La situazione è
cambiata, restiamo in Iraq, ha detto.
Rutelli poi si schiera sempre più apertamente (senza le ambiguità di chi finge di opporsi) a
favore di un impegno ulteriore in Iraq: “Scrivendo il programma andrà chiarito che, dinnanzi a una
missione condivisa dall’ONU, il centro-sinistra dovrà impegnare uomini e risorse.

Questo andrà messo
nero su bianco”. E a chi gli chiede se Bertinotti potrebbe accettare questo programma, risponde
aggressivamente che “c’è un problema di credibilità per chi si candida a governare”. Prendere o
lasciare.

Bertinotti ha polemizzato seccamente con Rutelli (e ha anche lamentato giustamente che il
centrosinistra si occupi tanto degli interventi di Berlusconi sul Milan e poco di altri problemi
scottanti), ma nel complesso è stata debole la risposta a questa deriva a destra di coloro che
ipocritamente avevano partecipato alle manifestazioni per la pace quando queste raccoglievano milioni di
persone.
Tra l’altro la maggior parte delle organizzazioni cattoliche che fanno capo al Tavolo della pace
di Assisi hanno ribadito la fiducia all’ONU, e hanno protestato perché il verde Cento ha invitato a
non farsi vedere in piazza il 20 marzo i parlamentari che non votano contro il prolungamento della
missione. Insomma l’asse politico di parte del movimento pacifista si è spostato nettamente verso
il centro.

Ma non è una fatalità, è anche il frutto della rinuncia a chiarire il ruolo dell’ONU,
mentre si introduceva nel dibattito sulla non violenza la delegittimazione della resistenza (e
quindi di fatto la legittimazione del ruolo di polizia internazionale e di “pacificazione” delle
nostre truppe...).

Certo non è responsabilità solo nostra, ma anche nostra. Certo pesa lo stato del partito, a cui
abbiamo accennato, e che ha molti aspetti: ad esempio il partito, incapace di funzionare con
l’autofinanziamento, dipende soprattutto dai contributi statali e da quelli degli eletti; essendosi
ridotto fortemente come dimensioni del corpo militante e come elettorato, per ottenere deputati o
consiglieri regionali, deve stabilire, quasi ad ogni costo, alleanze con i moderati, nascondendo le
divergenze con essi dietro fumosi programmi senza implicazioni pratiche (vedi accordo con Illy nel
Friuli e relativa “sorpresa” quando di nuovo costui ha manifestato la sua vecchia amicizia col
razzista xenofobo Haider).

È una delle ragioni per cui il nostro partito finisce per subire le pressioni dei partiti del
centrosinistra, senza essere in grado di farne. Inoltre, a forza di occultare o sfumare il più
possibile le divergenze con la sinistra moderata, si è fatta opera di diseducazione sugli iscritti, già
ben poco “formati” teoricamente.
Il recente dibattito sulle pagine di “Liberazione”, esaltato come un grande apporto teorico alla
sinistra, ha creato ancora più confusione, sia per il carattere metafisico e idealistico
dell’impostazione dei problemi in gran parte degli interventi, sia e soprattutto perché era stato avviato
inspiegabilmente a freddo (c’era forse un pericolo della “violenza” nelle nostre file o in quelle
della stragrande maggioranza del movimento?). In alcuni settori del partito è nato il sospetto che
l’obiettivo principale fosse quello di attenuare le differenze dai riformisti, e ad alcune
forzature “nuoviste” una parte dei compagni ha reagito con arroccamenti nostalgici e dogmatici, che non
servono certo a rendere più incisiva la nostra azione.

Ben altri sono i problemi di orientamento dei militanti: essi, ad esempio, come il resto del
“popolo della sinistra”, sono stati spinti a pensare che l’ONU potrebbe essere “garante di libertà,
democrazia e sicurezza”. Sono le parole della convocazione della manifestazione unitaria del 24
febbraio, in cui parlerà come primo oratore Bertinotti, riprodotte più volte su un’intera pagina
manifesto di “Liberazione”. Eppure l’ONU non ha risolto in tutta la sua storia uno solo dei problemi
della violenza e dell’ingiustizia nel mondo, e più spesso ha avallato a posteriori le stesse
prepotenze degli aggressori che inizialmente aveva tentato di criticare blandamente. L’ONU, tra l’altro,
non può sopravvivere senza il contributo economico degli USA, che a ogni difficoltà minacciano di
tagliarlo.

Nel quadro del dibattito sulla “nonviolenza” inoltre si sono sentite spesso condannare come
“terroriste” gran parte delle azioni della resistenza palestinese. Già in passato Marisa Musu aveva
protestato per titoli e articoli di Liberazione che avevano questa impostazione. Sulla questione
palestinese, e sul dibattito interno al movimento israeliano contro l’occupazione, “Liberazione” ha
spesso scelto la strada dell’appoggio alle soluzioni moderate, prendendo le distanze con comunicati
“autorevoli” quando - eccezionalmente - era stato dato un po’ di spazio a qualche voce israeliana
scettica a proposito dei cosiddetti “accordi di Ginevra”. Così di fatto anche su questo terreno
l’atteggiamento del nostro partito si è avvicinato a quello dei DS: cercare ad ogni costo di trovare
qualcosa di buono nell’impostazione più che ambigua della sinistra laburista, contribuendo così a
nascondere le voci più coerenti e coraggiose della sinistra israeliana.

Sull’Iraq si è perfino trovato il modo di far scrivere su “Liberazione” un’esponente di quel
troncone del PC che collabora con gli invasori e siede nella giunta che affianca Bremer!
Per giunta, in parecchi interventi che rivelavano scarsa conoscenza della concreta storia dei
movimenti di liberazione nell’ultimo secolo, ma che erano firmati da responsabili di primo piano delle
politiche internazionali o della pace, si è ribadita una condanna, in blocco, della resistenza
irachena col pretesto di una presunta mancanza di chiarezza sui suoi soggetti e progetti.
Abbiamo avuto la gradita sorpresa di vedere invece criticati questi atteggiamenti da Luciana
Castellina, che era uscita “da destra” dal nostro partito ma oggi, senza essere cambiata molto, si
trova ben più a sinistra di esso, almeno sulle questioni internazionali.

La Castellina, in un articolo sul “manifesto” a proposito del bel libro di Tariq Ali, “Bush in
Babilonia” riconosce all’autore il merito di “restituire dignità e legittimità all’opposizione
irachena, usando finalmente a piene lettere le parole «occupazione straniera», che anche parte del
movimento pacifista sembra talvolta far fatica a pronunciare. Quasi che tutti si fossero scordati, pur
richiamandosi continuamente all’ONU, che proprio la Carta delle Nazioni Unite riconosce a tutti i
popoli il diritto a resistere con le armi all’occupazione straniera, ben distinguendo così tra
attacco e difesa.”

La Castellina è anche stupita da chi – nel fronte anti-guerra - sostiene che “in Iraq non c’è, o
non c’è solo, resistenza: c’è terrorismo”, e osserva giustamente che “non è distinguendo nelle
forme di lotta che si può arrivare a distinguere. Con il rischio costante di prendere le distanze
dalla resistenza armata in sé, anche quella mirata a respingere l’aggressione/occupazione, e perciò
necessaria e legittima, in nome di una interpretazione della non-violenza quale è emersa anche nel
recente dibattito apparso sul “manifesto” e su “Liberazione”, che a me è francamente sembrato non
privo di ambiguità”. (“il manifesto”, 21/2/04).

Come stupirsi dunque se il nostro partito non riesce a mordere nelle contraddizioni della sinistra
moderata? Il dibattito “ideologico”, così come è stato impostato, non ha per giunta nulla di quel
“nuovo” che pretende di rappresentare, e per molti aspetti ripropone posizioni già presenti nella
socialdemocrazia tedesca della fine del XIX secolo: contro la “non violenza” Engels aveva scritto
vari capitoli del suo bellissimo “Antidühring (che è del 1877, lo ricordiamo per sottolineare che
il dibattito non è oggi così nuovo, anche se gran parte degli intervenuti non lo sospettano
neppure). Alla fine, il dibattito sulla non violenza ha partorito un confronto a Pisa tra Bertinotti, la
Menapace, Tronti e Toni Negri. Alla faccia del “nuovo”!

Ma se il famoso dibattito è servito e servirà a poco, quel che fa maggior danno è la presentazione
quotidiana delle questioni internazionali su “Liberazione”, e le iniziative come quella del 24
febbraio sotto la parola d’ordine dell’ONU come “garante di libertà, democrazia e sicurezza”...
Con queste posizioni è difficile battere perfino il grossolano filoimperialismo del Noske
italiano, Umberto Ranieri: gli basterà fare appello alla risoluzione n. 1515 dell’ONU e definire la
presenza delle truppe in Iraq “funzionale a un futuro di pace”. La truffa è fatta. Con l’aiuto dei
grandi mass media, naturalmente, che come hanno sempre presentato come “terrorista” ogni azione di
guerriglia palestinese contro una postazione israeliana nei territori occupati, ora hanno cominciato
a chiamare “aggressioni alla società civile irachena” gli attacchi di formazioni armate alle
prigioni, alle caserme, ai centri di arruolamento nella polizia collaborazionista. Un capolavoro di
“neolingua” orwelliana!

La battaglia contro i difensori dell’imperialismo è dura, difficile, impari: vorremmo almeno che
non ci si sparasse addosso dalle file dei nostri alleati... (a. m. 23/2/04)