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La disobbedienza prevede flessibilità. Per praticare la vera nonviolenza

Publie le martedì 10 febbraio 2004 par Open-Publishing

Il dibattito su violenza/nonviolenza appare assurdo. Possiamo scomodare le
grandi narrazioni, le uscite dai secoli dei secoli, ma non ce n’è. Messa
così, con lo spiritualismo metafisico che dovrebbe coprire il «vero» del
mondo che attraversiamo tutti i giorni, è anche un imbroglio. Chi pone ai
movimenti il nodo della «violenza», non esclude invece la mediazione e
l’accordo con chi la guerra, anzi le guerre, con
bombardieri, missili, soldati e morti le ha fatte e le farà. A fianco
delle interviste contro il casco ai cortei, rimane il silenzio sulla
vergogna dei carabinieri di Ganzer, della polizia che arresta e usa
pistole, gas tossici, manganelli contro chi protesta. Poi dove sarebbe
tutta questa violenza dei movimenti? In uno scudo, in una protezione
corporea se si sfida un cordone di celere? E’ vero ai cortei si può andare
anche senza casco, dipende da cosa si deve fare. Come davanti ad un filo
spinato di un lager dello stato pieno di migranti. Se si deve provare a
tagliarlo ci vuole una trancia. Se si deve bloccare una strada ci vuole la
gente che si metta in mezzo, come quella volta dei treni delle armi. Se
poi c’è il rischio che la polizia carichi, si potrebbe decidere, come a
Termini Imerese, di fare una barricata.

Dipende tutto da cosa si vuole
fare. Non è un «cosa» che guarda solo a sé stessa, ma questo, come dice
Palombarini, il movimento non ha bisogno di ribadirlo, perché da Seattle
in poi, lo fa parlando a molti, per fare con altri un altro mondo
possibile. Quindi se a un corteo si va solo per sventolare delle bandiere,
i caschi non servono. Ma se si vuole fare un’azione, anche minima, di
disobbedienza alle leggi, che tutti definiscono
ingiuste e da non rispettare, bisogna sapere che la polizia può
«nonviolentemente» spaccarti la testa, quindi è meglio proteggersi. Se poi
si decide di violare una zona rossa, se è un muro come al Cpt di Bologna,
una scala è meglio del casco. E così via.

In Italia si discute di come fermare la polizia quando ti aggredisce, di
come disobbedire a leggi ingiuste, di come si difende una casa occupata.
Tutto questo è essere violenti? E allora che i nonviolenti propongano come
fare a fare le stesse cose in un altro modo, senza tanto menarla. Sarebbe
un bel contributo perché nessuno ha la ricetta perfetta e
definitiva. Ma sempre a patto che riteniamo importante e giusto violare
leggi ingiuste, oltre che sventolare bandiere. Quella che Pisanu chiama la
«violenza politica», aiutato nel concetto anche da dibattiti come questo,
in realtà sono le pratiche di illegalità diffusa, o «nuova legalità dal
basso», di disobbedienza e azione diretta, di boicottaggio, che sono parte
fondamentale dello spirito costituente del movimento che contesta la
legittimità dell’Impero, in ogni parte del globo. Quindi pare molto più
sensato ed utile a tutti mettersi insieme, con pratiche e culture diverse,
con ruoli anche diversi, magari uno con il casco e l’altro con una tessera
da parlamentare, e provare a produrre un unico «linguaggio», temporaneo,
che destrutturi il potere, lo metta in
difficoltà, allarghi i comportamenti di diserzione alla guerra, interna ed
esterna, colleghi mille forme di sciopero sociale e resistenza.

Allo stesso modo la coppia guerra/terrorismo è un altro imbroglio. Non è
vero che tutto ciò che resiste alla guerra è terrorismo. Per cercare la
pace, dobbiamo boicottare attivamente la guerra. Che è fatta in Iraq
dell’occupazione militare da cui la gente cerca anche di difendersi, e per
questo viene ammazzata per strada, anche se manifesta con le mani alzate.
Così come i bimbi di Gaza in Palestina. E difronte a queste tragedie, non
è accettabile liquidare tutto con una formuletta. Il 20 marzo in tutto il
mondo scenderemo nelle piazze. Dovremo portare con noi l’idea forza che un
altro mondo è possibile, non solo lo slogan. L’idea che è giusto
ribellarsi alla barbarie, costruire spazi pubblici e
pratiche contrapposti alle leggi dominanti. Chi produce il terrore, con i
bombardieri o con il secondo celere, non ha difronte Al Quaeda. Quella ce
l’ha dentro. Non ha nemmeno difronte pacchi infiammabili spediti a destra
e a manca per posta, e nemmeno militanti filo-haideriani che scrivono le
rivendicazioni degli Nta. Quelli li ha al suo fianco.
Difronte ha le pratiche sociali dei movimenti, in tutto il mondo. Si
aspetta che non facciamo nulla, si aspetta che ci basti un seggio per
denunciare l’orrore. E’ possibile invece che si trovi dinnanzi a un affare
serio, a una moltitudine globale che non rispetta più i comandi. Che mette
l’intelligenza della cooperazione al servizio di un
cambiamento radicale. Che vive di comportamenti sociali in antitesi al
neoliberismo, dal consumo critico alla distruzione dei cpt, dai sit-in
all’invasione delle sedi delle multinazionali della guerra.
Dall’accensione delle telestreet al taglio dei tralicci
dell’inquinamento elettromagnetico. Allo sciopero, che è «selvaggio» solo
perché non è «addomesticato» dai padroni. Chi l’ha detto che tutto questo
non può stare assieme, se l’obiettivo è comune? Forse Pisanu, forse chi ha
condannato la lotta dei tranvieri, forse la polizia, ma loro che cosa
c’entrano con il dibattito del movimento?

Abbiamo, dopo questo primo ciclo di lotte globali, costruito un «luogo in
comune», il movimento, ed è ora che assumiamo seriamente questo dato.
Assumiamoci la responsabilità di essere parte di un qualcosa che non è
istituzionale e non segue le regole del gioco. Se c’è un dibattito da
aprire con urgenza è quello sulla violenza della polizia, dei
carabinieri, è quello sulla restrizione dei diritti e delle libertà che è
in atto, applicata anche da giudici che fanno i girotondi, dalle
precettazioni agli arresti, confino e sorveglianza speciale per chi fa i
picchetti, occupa case, partecipa a manifestazioni. Per chi
disobbedisce, con o senza il casco. La guerra interna è anche questo.
Speriamo che con la stessa profusione di interviste, saggi e convegni
dedicati al tema della violenza e nonviolenza, si apra su questo un
dibattito forte. Pensando a Genova, al 2 marzo, a un processo politico
contro il movimento.

di Luca Casarini
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Vorrei ringraziare Luca Casarini per il suo contributo sulla "vera
nonviolenza". Non perché sia d’accordo su tutto, ma perché trovo in esso
un desiderio di dialogo che è da incontrare e continuare, per capirsi
meglio e per spostarsi. Perché, prima ancora che lui, possiamo spostare
noi stessi, amici della nonviolenza. Il desiderio di dialogo ci invita
infatti in primo luogo a riflettere su quelli che possono essere a volte,
o spesso, i limiti di chi di noi si richiama alla nonviolenza ma si ferma
al buonismo o alla chiacchiera. Il contributo di Luca ci interpella perché
a volte, tendendo all’aspetto costruttivo, ci capita forse di
sottovalutare l’aspetto conflittuale. Luca sottolinea soprattutto
quest’ultimo e va preso molto sul serio. Ci interroga forse indirettamente
anche sui limiti della nostra capacità di comunicare o mostrare che cosa è
nonviolenza.

Le parole di Luca Casarini mostrano sdegno e insofferenza per la situazione
di violenza in cui viviamo giornalmente: questo mi pare bello e degno di
apprezzamento e condivisione. Altrettanto bella e condivisibile mi sembra
la sua esigenza schietta che i nonviolenti, a proposito "di come fermare
la polizia quando ti aggredisce, di come disobbedire a leggi ingiuste, di
come si difende una casa occupata", dicano "come fare a fare le stesse
cose in un altro modo, senza tanto menarla". E’ una domanda non vacua, ma
chiara e concreta. E forse l’accettare, prima, che ci venga ricordato che
la nonviolenza è attività e presa in carica del conflitto e la possibilità
di rispondere alla domanda, per dir così, di informazione fattaci da Luca
non sono due cose separate. Provo a fare qualche considerazione
rapidamente e non troppo ordinatamente.

Penso che la nonviolenza, lungi dal "liquidare tutto con una formuletta",
sia creatività ed apertura. Alcuni dei casi menzionati da Luca, ad esempio
il blocco dei treni che trasportavano armi o la barricata, non mi pare che
siano contestabili da un punto di vista nonviolento; proprio al contrario,
sono modalità nonviolente -a patto che, poi, il blocco dei treni non sia
effettuato per esempio insultando chi li guida o la polizia che interviene
ecc., e la barricata sia di difesa e non serva poi da luogo di offesa.
Non sto dicendo che ciò sia avvenuto, sto dicendo solo che per essere
chiari su ciò che si sta mettendo in pratica non basta dire "faccio un
blocco" e "faccio una barricata". Piuttosto, per riferirsi realmente alla
violenza o nonviolenza del "fare", bisogna badare alla concreta dinamica
della messa in opera di quel fare, bisogna badare al come fare "nei suoi
singoli aspetti concreti" (e sono convinto che chiunque, si possa egli
chiamare Gandhi o Casarini, abbia effettuato il blocco dei treni delle
armi senza recare offese fisiche o verbali a nessuno, ha compiuto
un’azione nonviolenta). E dico questo anche rispetto all’efficacia
dell’azione sul piano pubblico, l’attenzione al quale mi pare un elemento
mancante nel discorso di Luca.

Il movimento ha tra i suoi fini la sua
crescita e quando Luca divide la nostra società, per così dire, in
"Pisanu, chi ha condannato le lotte dei ferrotranvieri e la polizia" da
una parte, e "il movimento" dall’altra, a mio parere sottovaluta sia la
pluralità di soggetti (con motivazioni ecc.) che rientrano tra coloro che
hanno condannato gli scioperi dei ferrotranvieri, sia la varietà degli
elementi presenti nella polizia, e trascura completamente la possibilità
di spostare alcuni di questi nonché il resto dell’opinione pubblica che,
grazie ai mass-media, dei blocchi, cortei e barricate ha la possibilità di
vedere quasi soltanto gli aspetti ambigui, per esempio i famigerati caschi
e scudi. Insomma, perché il messaggio sia chiaro e non manipolabile,
bisogna comunicare innanzitutto in un modo che non si presti a
fraintendimenti. E’ in gioco la possibilità che il movimento cresca
oppure, screditato pubblicamente, si sgonfi. E’ proprio
preoccupandosi di questo, credo, che si smette di essere "una ’cosa’ che
guarda solo a se stessa".

Per tornare allora alla domanda di Luca Casarini, direi che la risposta
nonviolenta va elaborata di volta in volta, a seconda dei contesti, ma
sulla base di alcuni principi generali che sono appunto quelli che tutti
gli amici della nonviolenza conoscono e che qui, per semplicità, non
richiamo. Così, per i casi esemplificativi rispetto ai quali Luca ci
interroga, altrettanto esemplificativamente direi:

1) una casa occupata potrebbe essere difesa cercando di informare la gente
del quartiere del significato dell’occupazione, incatenandosi alle sue
mura nel caso di minacciato sgombero e ritornandovi ancora dopo essere
stati sgomberati;

2) la polizia, quando ti aggredisce, può (ho detto "può" -il che significa
che ciò ha possibilità di funzionare ed anche di non funzionare -come, del
resto, anche la difesa violenta) essere fermata se ti metti a lanciarle
fiori e a cantare canti gioiosi;

3) si può disobbedire a leggi ingiuste in maniera civile (che è aggettivo
che, se la richiesta di Luca è rispetto alla "vera nonviolenza", non può
essere eliminato), cioè assumendosi la responsabilità delle proprie azioni
con l’accettare la pena che le leggi prevedono, e facendo attenzione ai
mezzi che si usano (che non siano cioè violenti, nemmeno per difesa, e,
aggiungerei sulla base di quanto detto sopra, che siano chiari per tutta
l’opinione pubblica). Resta fermo per me che la nonviolenza non può essere
imposta a nessuno, perché essa va compresa e, caso mai, va accettata,
appunto, anche nel suo rischio di subire temporanea violenza (che in
realtà smette di essere un "subire" se il rischio lo si sceglie; ma ripeto
che il rischio lo corre, beninteso, anche chi invece sceglie di
difendersi, perché non non è detto che ci riesca).

Andrea Cozzo

(Palermo)