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Le Chiavi di casa: la resurrezione di un vincolo familiare mediante l’apprendimento della differenza

Publie le domenica 3 ottobre 2004 par Open-Publishing

Dazibao


L’adattamento di Gianni Amelio del libro autobiografico di Giuseppe Pontiggia é una
lezione di coraggio data da un figlio disabile ad un padre a lungo assente.


Film italiano di Gianni Amelio con Kim Rossi Stuart, Andrea Rossi, Charlotte
Rampling. (1 h 45.)


di Jean-Luc Douin

Cio’ che caratterizza un’immagine memorabile é che appare all’improvviso. La
magia del cinema é quella di far sorgere corpi e visi imprevisti. Dopo una breve
introduzione, abbastanza allusiva perché l’apparizione del personaggio choc delle
Chiavi di casa catturi lo spettatore quanto l’uomo di cui ci invita a condividere
il percorso dello sguardo, Gianni Amelio impone l’immagine di Paolo, grande bambino
con spessi occhiali, bastone e sedia a rotelle, linguaggio disturbato e passo
caotico.

Il film segue, ora per ora, giorno per giorno, l’incontro fra un padre e suo figlio. Rivelazione tardiva : la madre é morta durante il parto, il padre é scappato quando ha appreso che il suo bambino era nato « con qualche problema », senza volerlo vedere. Da allora, il figlio é stato allevato da suo zio e sua zia. Soo passati quindici anni.

Per tre giorni, questo padre indegno accompagna questo figlio, che non aveva voluto conoscere, in un ospedale di Berlino specializzato nella rieducazione dei disabili. E’ con umiltà, con un senso rosselliniano dell’apprendimento dell’alterità che Amelio filma questo reicontrarsi, la resurrezione di un vincolo filiale sepolto fino ad allora sotto una prova dolorosa. Viso d’angelo, il (giovane) padre oscilla fra goffaggine, senso di colpa, vergogna, devozione. Invaso brutalmente da uno straziante senso di responsabilità, passa dallo smarrimento, dal rigetto, dallo scoraggiamento alla paura di non essere all’altezza, all’angoscia di non essere abbastanza protettivo, al timore di essere respinto. Qualcuno gli dice una frase difficile da intendere: „Questo figlio, tu non lo meriti. »

Corpo ingrato, tutto sorrisi, il figlio irradia innocenza, felicità, sete di libertà. Nemmeno l’ombra di un rancore in lui. E’ un ragazzino incosciente del male, « da sgranocchiare », pieno di gioia di vivere, di speranza, un modello di allegria e di fiducia. Quel che ha potuto pensare della diserzione di suo padre resta non detto. Prevale soltanto la conversione.

Rivelazione, resurrezione, conversione : utilizziamo a bella posta termini di cui si sarebbe servito André Bazin stupito dal potere ontologico del cinema. Parafrasandolo, si potrebbe dire che Le chiavi di casa « impone al nostro sguardo un mondo che va d’accordo con i nostri desideri negati ». Come Roberto Rossellini, Amelio persegue una verità interiore, la mutazione dell’enigma esistenziale in miracolo, l’irruzione scolvolgente di una luce all’interno di un uomo. Fa pensare a quella scena di Stromboli in cui Ingrid Bergman, pazza di solitudine, si mette a parlare con un ragazzino dal quale tutto la separa, et ai pianti che provoca questo tentativo di comunicazione. C’é un atto di fede in un cinema che volta le spalle agli effetti speciali e spia l’emozione mediante la semplice rappresentazione del reale. La realtà metafisica, la semplicità di un Giotto.

Parallelamente a questa evocazione pudica della nascita di una complicità, Gianni Amelio suggerisce un dolore ineffabile. Quello dei genitori colpiti da questa maledizione. All’ospedale, il padre incontra una donna la cui figlia non potrà mai guarire. Charlotte Rampling é magnifica in questo personaggio di madre dalla tristezza infinita, che a volte si domanda perché sua figlia non muore e che ha sacrificato la sua vita per restarle vicina. Questa donna, con la sua dedizione, la sua forza, la sua filosofia e la sua debolezza, appare come una madonna. Lo sguardo di Dio. Ha scoperto subito il segreto del padre di Paolo, sarà la sua casta confidente e la messaggera del rimorso : « Il problema dei bambini non é la malattia, dice. E’ di essere restati soli troppo a lungo. »

« Si prepari a soffrire » gli dice duramente anche lei. Ispirato da un libro autobiografico di Giuseppe Pontiggia (Seuil, 2002), Le chiavi di casa (allusione al momento in cui il bambino, diventato grande, puo’ rientrare a casa da solo) mostra un disabile incapace di essere affidato a sé stesso, ma che dà una lezione di coraggio. Se c’é qui un castigo, é quello di questo padre trasfigurato e condannato a vivere con le sue incapacità, al quale suo figlio dichiara che « non piangere, non si fa cosi’ ! ».

Jean-Luc Douin
LE MONDE, 15.09.2004
Tradotto dal francese da Karl e Rosa


Gianni Amelio, regista : « Il cinema, é il tuo sguardo. L’educazione dell’occhio »
Intervista realizzata da Jean-Luc Douin

Come definirebbe il personaggio di Paolo, il giovane disabile?

E’ una presenza ! Forte, strana ! Come quella di E.T., l’eroe di Spielberg. E’ un innocente. Ora, i bambini non sono innocenti. Lui non é né un bambino né un uomo, ha la sua ricchezza, il suo mistero, la sua specificità. Non é normale, ma non lo vedo come disabile. Non ho voluto fare un film sul dramma dell’handicap, ma sulla differenza. Volevo parlare della difficoltà di amare qualcuno che é fisicamente diverso. Colpito da una disgrazia.

Come ha trovato questo ragazzo, Andrea Rossi ?

Sapevo che le persone che soffrono di distrofia muscolare praticano il nuoto come terapia. Ho deciso di visitare le piscine di Roma, poiché non volevo mettere un annuncio sui giornali. Il primo ragazzo che ho incontrato era lui. In un primo tempo ho avuto paura. E’ impossibile renderlo docile. Non ha memoria, logica, reagisce alle sensazioni. Scegliendolo, correvo il rischio di non poter terminare il film.

Ma mi sono reso conto che tutti i ragazzi che hanno questa malattia hanno nello sguardo una spaventosa tristezza. E avevo il terrore di comunicare questo sentimento di un avvenire senza orizzonti. Di fatto, irradiando la sua gioia di vivere, la sua costante allegria, Andrea mi offriva un regalo inaudito.

Come si é comportato mentre si girava ?

Sul set ha reagito alla sua maniera, quella di un ragazzino che, a 17 anni, non ha nozione del sesso e non ha coscienza del male. Il terzo giorno di riprese, é venuto ad annunciarmi che si fidanzava con la costumista. « E’ bella, mi diceva, mi accarezza le guance, io le prendo la mano. » Qualche giorno più tardi mi ha sussurrato : « Sai, stanotte verrà nella mia camera ! » E una settimana dopo mi ha annunciato che aveva lasciato Cristina e che era fidanzato con Simone, il clap-man. Ho capito che, per lui, il fidanzamento significava una complicità, guardarsi negli occhi, parlarsi con un tono amichevole. Come dice Kim Rossi Stuart, che nel film interpreta suo padre, « é come un cagnolino che ti ama perché riconosce il tuo odore ».

Tutti i suoi film parlano di bambini.

Non é l’infanzia che m’interessa, sono i rapporti fra il bambino e l’adulto. Una volta mi identifico con l’uno, una volta con l’altro.

In Il ladro di bambini c’era già un bambino che cercava di ritrovare suo padre.

Tutto questo é autobiografico. Ogni volta mi dico che non affrontero’ più questo tema e poi, il problema é mio. Mio padre mi ha abbandonato quando avevo meno di 1 anno ed é tornato quando ne avevo 17.

Già Lamerica trattava questo tema del viaggio che redime.

Ho sognato di fare questo viaggio con mio padre e l’ho realizzato con mio figlio. Di fatto, detesto i viaggi, in termini di scoperta di un paese, non li concepisco che come mezzo per imparare a conoscere qualcuno.

Lei si accinge a girare in Cina.

Con Le chiavi di casa comincio un viaggio a ritroso. Ho passato la metà della mia vita ad imparare il mio mestiere, credendo che il cinema era la macchina da presa. Cercando di migliorarmi ! Mi sono appena accorto, troppo tardi, del mio errore. Il cinema, é il tuo sguardo. L’educazione dell’occhio. L’incontro con gli attori. Non voglio parlare di personaggi, ma di persone.


Le chiavi di casa
L’incontro di un padre con suo figlio, disabile, filmato con pudore da Gianni Amelio

E’ scappato, una volta. Lontano dalla sua giovanissima moglie, morta di parto. Senza vedere il suo bambino, disabile. Da allora, Gianni si é rifatto una vita, é sposato, é padre di un bambino di 9 mesi e, per la prima volta, accompagna in Germania, per una serie di esami, questo primo figlio, allevato dalla cognata e dal marito. Paolo ha 15 anni, ma ne dimostra 10. Cammina male con l’aiuto di un bastone, gioca con la Game Boy, sorride molto, conosce a memoria i nomi dei suoi calciatori preferiti, é orgoglioso di avere in tasca le chiavi di casa, che gli sono state affidate. Questo lo rassicura, lo rende importante.

Gianni é all’estero : non parla la lingua del paese dove si reca ed ancora meno quella di suo figlio. Lentamente, guidato da questo bambino quasi divertito dalla sua goffaggine, impara. Cominciare dalla manica destra per infilargli il giubbotto, altrimenti Paolo sente male. E dalla sinistra per toglierglielo, altrimenti Paolo sente ancora più male. Gianni é maldestro, spiazzato, una nullità. Al punto da interrompere una seduta di rieducazione un po’ rude, condotta da una dottoressa che crede senza pietà. Ma é il bambino che allora gli dice, meravigliato : « Ma che cosa hai fatto ? »

Come sempre in Gianni Amelio, l’orrore della disgrazia é meno importante della sua rivelazione agli esseri che se ne proteggono fuggendone. Le vere vittime sono loro (noi ?) ostinatamente ciechi o facilmente pietosi. Amelio se la cava abilmente nelle scene scontate : il padre e il figlio in un letto, per esempio, uniti da una stessa tenerezza.

Ma cio’ che lo interessa é l’incontro di Gianni (Kim Rossi Stuart, bel giovane qui metamorfosato in adulto commovente e fragile) con una donna meno giovane, Nicole (Charlotte Rampling). Lui scopre la sofferenza, lei viene da tutti i dolori. Nessuna indulgenza fra loro. E neppure attaccamento. Semplicemente, Gianni confida a questa estranea la sua paura davanti a « questo animaletto incapace di pensare e che vuol bene a tutti senza ragione ». E lei, che ha sacrificato la sua vita per sua figlia, fa a quest’uomo incontrato casualmente questa terribile confessione : « A volte mi guarda con gli occhi della disperazione ed io mi dico : « Perché non muori ? » Come dire che Le chiavi di casa non é mai rassicurante. Ancora meno compiacente. Oltre al suo estremo pudore, il film porta in sé delle rivolte, dei tormenti e dei rimpianti. Questioni senza risposta, le più belle.

Pierre Murat
Télérama n° 2853 - 18 settembre 2004
Tradotto dal francese da Karl e Rosa