Home > Le ipocrisie del governo italiano

Le ipocrisie del governo italiano

Publie le mercoledì 15 settembre 2004 par Open-Publishing

Da Aprile

Le ipocrisie del Governo Berlusconi non aiuteranno il ritorno delle due Simona

Ormai la guerra in Iraq è un succedersi di bollettini e di filmati che raccontano una lunga scia di morti e di distruzioni che, con il loro ripetersi, anestetizza la nostra indignazione e induce un senso di inevitabilità. Le immagini che vediamo sono indistinguibili da quelle di dieci anni di nuova intifada, di repressione israeliana e di guerra cecena: cumuli di macerie ovunque, cadaveri smembrati, macchine militari che martellano e distruggono, giorno dopo giorno, con la “variante” irachena dei rapimenti, degli sgozzamenti, degli appelli inconcludenti, delle generiche per quanto appassionate esortazioni ad un maggiore senso di umanità.

Tutto questo, oltre ad anestetizzare l’orrore, allontana anche dall’assunzione di responsabilità, non le generiche responsabilità dell’Occidente per lo sfruttamento economico, per la diffusione delle armi, per l’iniquità della distribuzione delle ricchezze - tutte cose giuste, ma lontane nel tempo e nei rimedi, ma le specifiche responsabilità di noi italiani, là e ora. Perché non dobbiamo dimenticare che non siamo solo il popolo della pace e della solidarietà, siamo anche la nazione che ha un contingente militare, il terzo per numero di uomini, in quel paese, che controlla una vasta provincia irachena e che è pienamente integrato nella catena di comando del capofila dell’occupazione militare, l’esercito degli Stati Uniti.

Solo negli ultimi due giorni, in un intensificarsi di violenza, ci sono state a Bagdad, Falluja, Ramadi e Talafar 78 vittime (tra cui un giornalista televisivo e sei in un’ambulanza colpita “per sbaglio”) e molte centinaia di feriti, per lo più civili colpiti dall’alto con bombe e missili con l’obbiettivo di stanare un pugno di “terroristi”. Al di là dell’obbrobrio morale, al di là della violazione, senza scrupolo alcuno, delle leggi di guerra, chi saprà mai se quei morti erano davvero, almeno in parte, terroristi? Quando gli stessi analisti della cosiddetta “intelligence” (altra parola magica dietro la quale c’è spesso solo un vuoto di sicumera senza fondamento) dichiarano che oltre il 90 per cento delle informazioni ottenute dalle fonti sul teatro iracheno sono inattendibili.

Ma torniamo alle nostre responsabilità. Si sta ripetendo la farsa dello scandalo delle torture nelle prigioni irachene. Ricordate? Quando a primavera nelle carceri di Nassiryia venne ucciso, con un colpo alla nuca, un detenuto che i nostri soldati avevano consegnato alla polizia irachena, ci si affrettò a dire che non ne sapevamo nulla, che non eravamo informati delle condizioni dei detenuti; finché un ufficiale italiano, appena tornato in patria, smentì tutto davanti al giudice. Gli italiani sapevano ciò che gli iracheni facevano ai detenuti e sapevano ciò che facevano gli americani ad Abu Ghraib. Avevano il dovere di saperlo, perché in quanto truppe di occupazione, inserite nel comando generale dell’esercito di occupazione, avevano l’obbligo, sancito dalle convenzioni di Ginevra, di garantire la sicurezza dei civili posti sotto il loro controllo e sotto il controllo della coalizione. Era troppo chiedere a un paese democratico che, anche in guerra, nonostante la guerra, si rispetti il limite all’uccidere fissato dalle norme del diritto internazionale per frenare la pura bestialità della macchina militare?

Oggi non si parla più di prigioni. Per tutto il gran numero di atti, di pratiche barbare, che hanno portato alla morte, alla menomazione e all’umiliazione di centinaia di detenuti, solo due graduati sono stati a tutt’oggi puniti, rispettivamente ad un anno e a otto mesi di carcere; e questo nonostante sia emersa una vasta rete di complicità, conseguenza diretta delle di direttive del ministro della difesa (Rumsfeld), degli ordini del comandante in capo (Sanchez), e del comandante delle prigioni irachene (Miller).

Con i bombardamenti e le uccisioni di questi giorni si sta ripetendo la stessa farsa, con un di più, un moltiplicatore, di morte e di violenza nei confronti dei civili. Quartieri vengono rasi al suolo, si spara dall’alto con missili sulla folla, si assediano intere città impedendo l’afflusso di acqua e di viveri - e a noi la cosa non ci riguarda. Il governo italiano tace, i comandi militari tacciono. Come se non fossimo anche noi truppe di occupazione. Come se l’Italia non facesse parte integrante della “coalizione dei volenterosi”. E allora come pensare che le nostre parole di amicizia per il popolo iracheno non suonino vuote, quando la stragrande maggioranza degli iracheni, pur non essendo né estremisti, né seguaci di Al Qaeda, odia gli americani per quello che fanno e vorrebbero che se ne andassero? Come pensare di aiutare la liberazione di Simona Torretta e Simona Pari, prigioniere forse a Falluja o altrove nel triangolo sunnita, quando si bombarda quella città e molte altre con totale disprezzo per la vita umana — di civili inermi?

Qui non si tratta di chiedere il ritiro delle truppe, che è comunque sempre stata la posizione della sinistra, almeno di questa parte della sinistra, fin dall’inizio della guerra. Quelle truppe non dovevano mai partire e prima tornano meglio è. Punto. Ma il governo italiano cosa aspetta a convocare l’ambasciatore americano e comunicargli la sua ferma protesta contro questo modo disumano di condurre le operazioni militari? Cosa aspetta a dichiarare che i vincoli di alleanza hanno un limite e non possono coprire qualsiasi comportamento contrario al diritto di guerra e alle convenzioni di Ginevra, prima nella gestione delle carceri e poi nella conduzione delle operazioni militari? Proprio perché siamo presenti sul campo e siamo inseriti nel dispositivo militare, non si tratta di compiere un semplice atto di testimonianza morale, che lascia il tempo che trova, ma un preciso gesto politico e diplomatico.

Forse, al momento, è irrealistica la richiesta di un cessate il fuoco - pure necessaria di fronte al marasma e all’ingovernabilità patente del paese - per iniziare serie trattative tra tutte le parti in causa (sul modello indicato dall’assedio di Najaf, dove un bagno di sangue è stato evitato grazie al leader sciita Al Sistani). Ma è realistica e doverosa manifestazione di dignità nazionale pretendere moderazione nell’uso della forza e l’abbandono di inaccettabili tecniche belliche che producono uno sproporzionato numero di vittime tra la popolazione civile. Dobbiamo essere consapevoli che, se non faremo questo, gli appelli per la liberazione delle nostre due rapite, così come le professioni di amicizia nei confronti del mondo islamico, suoneranno alle orecchie degli iracheni vacue e ipocrite.

C’è infine una domanda che deve essere posta al Presidente del consiglio. Nell’aprile 2003 il parlamento ha approvato una risoluzione nella quale si autorizzava la missione militare italiana in Iraq con lo scopo, essenzialmente, di fornire protezione militare agli aiuti umanitari e per la ricostruzione. Ora, i volontari di Un ponte per... e delle altre organizzazioni non governative svolgono, con il consenso delle forze di occupazione, del governo iracheno e, si presume, del governo italiano, quest’opera di assistenza umanitaria e di aiuto alla ricostruzione.

Chi li proteggeva? E, poiché oggi in questo momento sono là, chi li protegge?

Dov’erano l’esercito e i carabinieri italiani inviati in Iraq con questo specifico e vincolante scopo? A farsi sparare addosso con inutili pattuglie nella provincia di Nassiryia, che mettono a repentaglio la vita dei nostri soldati? Quali ordini sono stati dati per tutelare i volontari italiani che svolgono attività umanitaria?

Quali ordini dovevano e non sono stati dati? Chi è responsabile di queste gravissime omissioni che, speriamo, non avranno conseguenze ancora più tragiche?

E non si dica che "Un ponte per..." e "Intersos" non volevano la protezione, perché questa deve essere assicurata comunque nei confronti di qualunque cittadino italiano in Iraq, tanto più nei confronti di coloro che sono lì per assolvere proprio a quella “missione umanitaria” deliberata dal parlamento a giustificazione dell’invio delle truppe.

[Stefano Rizzo]