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«Liberatele, liberiamoci»

Publie le sabato 11 settembre 2004 par Open-Publishing

Dazibao


Decine di migliaia di romani hanno sfilato in silenzio, a lume di candela,
per chiedere la liberazione degli ostaggi e la fine della guerra in Iraq. Il
pacifismo torna in scena, con tristezza


di LORIS CAMPETTI

Se la tristezza è - come è - un sentimento nobile, ieri sera ha sfilato una buona
rappresentanza della nobiltà romana. Era «gente comune», persone semplici. Pacifisti
che hanno a cuore la pace perché hanno a cuore la vita di uomini e donne che,
invece, la cultura della guerra e del terrore vede e pretendere di muovere come
pedine. Migliaia di fiaccole accese, un’altra volta, come pochi giorni fa per
piangere i bambini osseti. Ieri, invece, per non piangere altre vittime innocenti,
le «due Simone», Mahnaz e Ra’ad rapite da chissà chi. Nessuno lo sapeva, ieri
in corteo, chi fossero i rapitori, tutti però si sussurravano la stessa cosa: «Vogliono
eliminare gli ultimi testimoni di pace per lasciar liberi di agire i macellai».

Ma i testimoni devono restare, «fuori i militari, dentro i volontari» è uno dei pochi slogan che si sono sentiti in un corteo silenzioso, sofferente. A tratti, quasi una processione. Sembrano in pochi alla partenza, appena alcune migliaia. Ci sono i politici, alcuni politici di sinistra, oggetto della massima attenzione da parte dei giornalisti rimasti piuttosto delusi dall’assenza di Fausto Bertinotti. Fassino e Cossutta non hanno bisogno di cercare le parole che fluiscono copiose, c’è chi non riesce mai a restare in silenzio. Poi, via via che le fiaccole cominciano a illuminare i Fori imperiali e quindi via Cavour, i politici si disperdono e scende in strada il cuore di Roma ingrossando il corteo, su su fino a piazza Vittorio dov’è la sede di «Un ponte per Baghdad». Non una folla oceanica, alcune decine di migliaia. In un silenzio rotto a tratti soltanto dagli slogan e dai comizi dei «Disobbedienti», quelli che «Liberate le Simone e 6 miliardi di persone/ Fuori le truppe dall’Iraq».

Si sta in silenzio perché a volte le parole non servono, o non si trovano. Eppure, a chiunque chiedi se oltre a rivendicare la liberazione degli ostaggi si debba chiedere al governo il ritiro dalle truppe e l’uscita dell’Italia da una «guerra che è entrata nelle nostre case», la risposta, magari a gesti, è sempre la stessa: «E’ ovvio, che domande del cazzo». Senza parolacce lo dice anche don Luigi Ciotti, che aggiunge: «Non so chi le ha rapite, mi vengono brutti pensieri». Ci sono sindacalisti, come il segretario generale della Fiom Gianni Rinaldini, o Benzi che per la Cgil si occupa di politica internazionale e del rapporto con il movimento pacifista e i Social forum. Benzi racconta il suo lavoro da ambasciatore di pace in Palestina, dove ha raccolto appelli per la liberazione dei quattro rapiti («anzi sei perché ci sono anche i due giornalisti francesi») da settori importanti della società civile e religiosa di Gerusalemme. Ci sono ex dirigenti sindacali come Bruno Trentin.

In testa il piccolo e glorioso striscione di «Un ponte per», visto in tutte le manifestazioni pacifiste degli ultimi cinque anni. Dietro, un grande striscione che dà il senso della giornata di ieri: «Liberate la pace». E ancora, più che uno striscione un appello disperato quanto determinato a chi ci ha portati in guerra, perché si faccia interprete presso il suo amico di Washington di un sentimento generale: «Stop bombing the Cities». Tante t-shirt di Emergency, nessuna bandiera di partito ma solo arcobaleno, i colori della pace in forma di stendardi, foulard, magliette, collari per i cani. Qualche bandiera kurda con l’immancabile volto di Ocalan, volti noti palestinesi, lo striscione della Comunità irachena in Italia retto da chi è fuggito dalle persecuzioni di Saddam e pensa che questa guerra sia un disastro, come pensa che il rapimento delle volontarie sia un atto anche contro il popolo iracheno. Proprio la Comunità irachena, insieme a «Un ponte per» stava lavorando a un diario di Simona Torretta che dovrebbe uscire a novembre. C’è monsignor Capucci e l’imam sciita Jawwad al-Kalisi, docente nella scuola in cui studiava Simona Torretta. Al-Kalisi - che con il sindaco Veltroni, il presidente di «Un ponte per» Fabio Alberti e un rappresentante della Comunità di sant’Egidio ha lanciato un appello per la liberazione degli ostaggi - ha preso la parola in piazza Vittorio.

Si incrociano, tra tanti pacifisti anonimi, anche volti noti, testimoni d’un altro tempo, partigiani di un’altra pace, come Raniero La Valle. Tanti bambini, italiani e non solo. C’è una famigliola cingalese, padre muratore madre colf e tre figli, ognuno con una torcia in mano. Su via Cavour qualche finestra è illuminata da una candela di speranza.

Tocca a Fabio Alberti il compito difficile di chiudere gli interventi. Parla con la sofferenza di chi vive giorni d’angoscia, supera un lieve malore, parla di tutte le vittime della maledetta guerra, ringrazia per la solidarietà per le compagne rapite e non dimentica le migliaia di morti tra i civili iracheni, la popolazione di Falluja. Come tutti quelli che sono in piazza, pensa e dice che la filosofia dello «scontro tra civiltà» sia una menzogna e un’offesa: «Chiediamo che finiscano i massacri e la guerra e che gli ostaggi vengano liberati». Neppure Alberti, ovviamente, sa chi siano i rapitori e se la rivendicazione e l’ultimatum usciti da un sito web siano attendibili. In ogni caso, la richiesta non cambia: «Liberatele, senza condizioni».

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