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Lo vogliamo dire subito: per noi la disobbedienza è, in questo frangente
storico, l’invenzione politica più matura prodotta da una umanità spiazzata. Per
sottrarsi al regime pervasivo dell’impero e alle sue regole, sono milioni gli
uomini e le donne che trovano in essa, nell’essere "fuori posto", nell’essere
altrove, motivo d’esistenza e di sopravvivenza prima ancora che un’opzione
politica cosciente. Lo spiazzamento è probabilmente l’esperienza fondamentale
della contemporaneità tanto da poterci azzardare a sostenere che assume i
caratteri di un orizzonte costitutivo.
In questa discussione tra violenza e non violenza ancora una volta
avremmo voluto agire "fuori posto" ma siamo stati "messi dentro a forza", nostro
malgrado. E’ il Ministro Pisanu che ci invita a partecipare a un dibattito che
altrimenti non sarebbe né centrale né attuale, con la sua specifica posizione di
chi pretende di restringere l’agibilità politica a tutti quelli che nel
movimento non assumono la non violenza come loro credo politico. E tra questi
ahimè ci siamo anche noi.
Perché non è attuale né centrale questa discussione? Perché non viviamo
un’epoca nella quale i movimenti hanno scelto di praticare l’uso della forza
come forma prevalente del loro agire politico, anzi. Le stesse argomentazioni
per esempio di Bertinotti, che riconosce il carattere prevalentemente non
aggressivo dei nuovi movimenti, ci servono proprio per capire che la discussione
non ha molto senso. Se vogliamo veramente uscire dai canoni del Novecento è su
altro che dobbiamo interrogarci, per esempio sulle forme della politica che
vengono rimesse potentemente in discussione sia dalla scelta strategica di non
lottare per il potere bensì dentro una nuova dinamica di "agire comunitario",
sia dalle trasformazioni del modo di produzione che impongono una
riorganizzazione reticolare delle resistenze, più legate al territorio e assai
meno verticalizzate come era tipico dei vecchi partiti comunisti. Né, peraltro,
viviamo in una di quelle zone del mondo dove i conflitti sono più acuti e le
scelte che assumono i movimenti molto più drammatiche. Lo diciamo come
provocazione: interrogarsi sull’uso della violenza in Palestina certo avrebbe
molto più senso vista la strategia di sterminio messa in atto da Israele e le
difficoltà del movimento di resistenza e non a caso diversi movimenti sono già
stati in quelle terre a praticare azioni coraggiosissime di disobbedienza
davanti ai tank di Israele. Ma qui da noi qual è il senso di questa
discussione?
Per una sorta di riflesso condizionato anche tra i disobbedienti potrebbe
scattare però un atteggiamento difensivo che finirebbe per cucirci addosso
esattamente il vestito che altri vorrebbero che noi indossassimo. A chi osanna
la non violenza come paradigma teorico del nuovo millennio noi ci affanniamo a
contrapporre tutti quei conflitti che in giro per il pianeta sconfessano questa
tesi, diventando i paladini di tutti i movimenti armati pur di poter dimostrare
che la non violenza resta una concezione astratta tipica di chi pretende di
mettere le braghe al mondo. Ma così facendo noi ci limitiamo a respingere la
pretesa di concepire una sorta di decalogo prescrittivi per le lotte, in nome del diritto dei popoli e dei movimenti a ricercare e sperimentare il cammino della loro e nostra liberazione.
Tutto ciò non basta né è in grado di rimandare con precisione, e di
valorizzare, l’immagine della tanta strada che abbiamo fatto in questi anni.
Certo dà fastidio questa nuova filosofia da "movimento delle buone maniere", che
prescrive, limita e detta le condizioni, magari per rispondere ad esigenze di
relazione politica che sanno molto di secolo scorso, soprattutto quando questo
avviene nel pieno di un’operazione giudiziaria che prepara il terreno per il
processo di Genova dei primi di marzo. Ma questo non deve impedirci di
affrontare con serenità i nodi della discussione, sfuggendo alla caricatura di
noi stessi con cui i media ci vanno dipingendo.
E il primo nodo è la costatazione di
come la disobbedienza, non come logo politico ma come pratica diffusa,
abbia acquistato in questi anni una inaspettata cittadinanza globale. Se
c’è una forma nuova e includente di agire il conflitto senza riprodurre lo
stereotipo della "guerra alla guerra" e senza ricadere nel vecchio errore di
separare il rapporto tra mezzi e fini è proprio la disobbedienza sociale. E per
trovare le conferme a questa considerazione non abbiamo certo bisogno di rifugiarci all’estero, basterà dare un’occhiata a quello che è successo in Basilicata, o alla vertenza degli autoferrotranviari, o a quella degli aeroportuali, o più in generale al crescere di un’effervescenza sociale che trova nella disobbedienza alle leggi ingiuste la sua più immediata e quasi naturale forma di espressione. Disobbedienza quindi come rottura delle regole, scelta consapevole di chi vuole affermare un diritto e per farlo è portato a infrangere una legalità opprimente. Disobbedienza non come nuovo modello o codice di condotta ma piuttosto come orizzonte comune che tiene insieme contesti diversi e che si adatta alle diverse circostanze storiche, politiche e culturali. E che prevede l’adozione di una quantità
infinita di modalità d’azione come è infinita la fantasia dei movimenti. E’all’interno di questo universo di forme e di pratiche che trova pieno diritto di cittadinanza anche l’agire non violento, che è infatti una delle tante forme dell’azione praticata dai movimenti in tutto il pianeta e che noi viviamo come un terreno di sperimentazione di nuove pratiche di lotta. Come non rilevare che qui in Italia uno
dei pochi soggetti che ha praticato azioni non violente siamo stati noi disobbedienti? Viviamo il paradosso che altri vorrebbero imporci una modalità che noi per primi abbiamo saputo utilizzare, evitando di farla diventare una camicia di forza buona per tutte le stagioni, mentre i "non violenti doc" ancora stentano a tradurre in azione le loro prescrizioni. In questo Bertinotti ha veramente ragione quando sul manifesto del 21 gennaio riconosce alla pratica una precedenza sulla teoria.
La forma moderna e matura di un
movimento è quella di chi non possiede icone né mitologie e che sceglie le forme
più adatte di lotta in base al contesto nel quale si trova ad operare ma anche e
soprattutto in base al tipo di società che vuole costruire, elaborando un’idea
di politica segnata da una qualche discontinuità con il "paradigma
dell’assolutizzazione della forza in forma di potenza" così come avveniva un
tempo. Ed è proprio questo secondo punto, il rapporto tra i mezzi attuali e i fini strategici, l’argomentazione più efficace dei "non violenti" ed il terreno su cui va raccolta la sfida per riconoscere che la disobbedienza da sola non basta. Non basta contravvenire alle regole per costruire un altro mondo. Occorre affiancare alla disobbedienza l’agire comunitario, il costruire società su scala locale, il municipalismo solidale come ambito d’espressione e maturazione della sovranità collettiva senza la quale il conflitto assume un carattere puramente resistenziale. Dobbiamo individuare nella comunità locale il posto in cui sperimentare se la pratica dell’esercizio dei diritti in forma collettiva diventa processo costituente di nuova democrazia, restituendo ai cittadini la legittimità di decidere delle forme di governo e delle relazioni sociali.
Da qui dobbiamo ripartire anche passando per una critica radicale delle nostre esperienze ultime e delle modalità che le hanno prodotte e determinate nello svolgersi degli eventi. In più di un occasione ci siamo preoccupati unicamente di salvare la simbologia della ribellione, di difendere cioè l’idea che fosse giusto e possibile ribellarsi ad un vertice ingiusto, piuttosto che sforzarci di alimentare una dinamica reale. E in questo errore siamo stati indotti da un ritorno alla dinamica stanca e rituale dei cortei di pura testimonianza che nulla aggiungevano alle domande che il movimento si va facendo da mesi. Se c’è una cosa che ci ha aiutato in questi anni è stata proprio l’inquietudine con la quale li abbiamo attraversati, un’inquietudine preesistente a quel "camminare domandando" che ha restituito dignità allo stato d’animo di una generazione di ribelli metropolitani, più di
altri immuni alle lusinghe del tempo e alle rendite di posizione.
Purtuttavia i nostri errori non si giustificano semplicemente puntando l’indice sugli altri: occorre anche guardare al nostro interno. Pensiamo a Genova e al g8: all’epoca via Tolemaide fu accompagnata dalla memorabile esperienza del Carlini che ebbe la forza di un grande processo costituente di massa. Non a caso ci sciogliemmo come tute bianche e nascemmo come disobbedienti proprio in quei frangenti. In quei giorni il conflitto e l’invasione della zona rossa non erano solo simbologia ma producevano effetti concreti dentro una dimensione di massa. Ma oggi che sembra finita l’epoca dei controvertici e che è insorta una nuova dinamica sociale, certamente alimentata dal movimento no global ma che si esprime con una propria autonoma modalità, quelle stesse pratiche non hanno la forza di una nuova
apertura ma il senso di una deprimente chiusura di un ciclo. Se c’è una cosa in
cui abbiamo sbagliato sta nel fatto che invece di intuire il cambiamento che era
già sopraggiunto abbiamo consumato la conclusione della fase precedente.
L’errore sta quindi nel blocco del rinnovamento o nel non essere riusciti in
tempo a prefigurare il nuovo passaggio.
Detto ciò, può questa discussione su violenza e non violenza, che nasce viziata ma che non è detto che non possa evolvere in modo brillante, consentirci di aprire una riflessione a tutto campo sulle pratiche del movimento? Sarebbe per esempio molto più cruciale che tutte le anime del movimento dei movimenti si interrogassero su come far pesare lo spazio politico che abbiamo contribuito ad aprire, la potenza costituente che abbiamo evocato, per alimentare i conflitti sociali che si stanno
producendo.
E se stiamo parlando di superamento del Novecento, come fanno Revelli e Bertinotti, non stiamo discutendo di caschi e bastoni ma della forma della politica, di democrazia rappresentativa e democrazia partecipativa, ecc. Stiamo discutendo cioè, di come la lotta alla globalizzazione neoliberista si traduce nella costruzione di un altro mondo. E allora disobbedienza e agire comunitario diventano i primi due assi di riferimento di questa nuova pratica politica moderna. Dentro la quale
diventano fondamentali le questioni della costruzione di una nuova legalità,
quelle dell’affermazione di nuovi diritti a partire dal contesto locale e territoriale, e quelle della costruzione di spazio pubblico e forme inedite di
democrazia diretta.
Il tema generale della costruzione di nuova legalità e nuovi diritti, in questa concezione, è direttamente collegato alle forme che assumono la democrazia e la partecipazione, nel senso che si misurano concretamente con la maturazione, qui e ora, di un processo costituente di nuova società fin dentro i limiti di questa. Non vi è più un prima e un dopo, segnato da un’ora x a stabilire il momento della trasformazione sociale: la trasformazione sociale, la modifica di parti sostanziali della costituzione materiale del paese, è processo in atto che attraversa e coinvolge una molteplicità di attori sociali e politici impegnati sul versante dell’ampliamento della sfera dei diritti dei soggetti collettivi.
Ed è su questo terreno che vorremmo proporre un terzo asse di riferimento. Nell’epoca della globalizzazione il rapporto tra la politica e i movimenti si misura sul grado di decostruzione-ricostruzione dei nessi comunitari che si è in grado di
determinare. L’una e gli altri sono soggetti attraversati dal processo di maturazione di nuove forme di società e su questo determinano il loro posizionamento, il loro esprimere una tendenza progressiva o regressiva in relazione allo stare o meno al passo con le richieste del tempo. L’Europa, il conflitto d’interesse, il rapporto di lavoro, i diritti di cittadinanza ...sono tutti temi sui quali politica e movimenti si confrontano alimentando una discussione e una pratica che allude all’ampliamento della sfera dei diritti collettivi mentre questa non fa che restringersi. Questo confronto cioè avviene al netto della possibilità d’allargamento reale ed effettivo della partecipazione dei cittadini al governo della repubblica.
Chi dice di aver imparato che nel rapporto tra mezzi e fini si nasconde la pesante pervasività culturale dei primi, foriera di gravi e pericolose ripercussioni sociali, dovrebbe anche spiegarci perché questa riflessione si ferma alle soglie del conflitto sociale e non pervade la politica e l’uso della giustizia. Dovrebbe spiegare la differenza tra la percezione sociale della violenza subita con l’imposizione di regole e stili di vita ingiusti e la cinica indifferenza della politica: che rapporto c’è tra i morti sul lavoro, i campi di concentramento per immigrati, la condizione di povertà in cui sempre più persone vengono sospinte e la tranquilla quotidianità di tanti "rappresentanti del popolo"? Quelli tra loro più conseguenti dovrebbero spiegare, prima di tutto a se stessi, per quale motivo un ragionamento a metà, dovrebbe rappresentare una prospettiva intera: dove sta il punto d’incontro tra una società imbavagliata e una politica incapace di essere moderna?
Ad un movimento e ad una pratica sociale disobbediente deve corrispondere una conseguente politica capace di forti atti disobbedienti, in grado di trasmettere la discontinuità di ragionamento che lega tra loro espressioni diverse di una ricerca comune. Senza questa contaminazione culturale e politica nessun confronto ha senso, almeno non un confronto che si intende fecondo.
Un piccolo esempio che vale per tutti. Quando tutto si chiude qualcuno deve aprire: l’utilizzo "creativo" della giustizia nei confronti delle forme assunte dal conflitto, deve trovare una risposta all’altezza del processo costituente di nuova democrazia messo in moto dai movimenti. La lotta alla repressione e la solidarietà non bastano più, la prima è stata spuntata dall’uso massiccio del Codice Penale in funzione normalizzatrice, la seconda serve a poco se non si traduce in atti e fatti concreti che diano legittimità sociale alla ribellione attraverso l’inclusione del conflitto nelle forme previste e necessarie della partecipazione.
Si tratta di aprire un confronto e una pratica sociale a tutto campo, sia a livello sindacale che politico, intorno alla dicotomia "partecipazione sociale -
normalizzazione" che restituisca ai cittadini la piena sovranità in quanto soggetti portatori di diritti e ai movimenti la dignità di portatori di una nuova idea di civiltà.
Un primo atto può essere l’avvio di una battaglia nazionale per la depenalizzazione dei reati connessi alle lotte sociali, come ponte culturale verso una radicale riforma del Codice Penale in funzione dell’affermazione dei diritti collettivi. Ma come farla? Con quali forme di lotta e con quali alleati?
A voi la parola....
Nada para nosotr@s, todo para tod@s!