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Lo spreco: L’intelligenza è anti-economica e sovversiva

Publie le venerdì 5 marzo 2004 par Open-Publishing

Che cosa è la guerra all’intelligenza denunciata qualche settimana fa nell’appello di un gruppo di
intellettuali francesi e sottoscritta da più di 40mila «lavoratori cognitivi» d’oltralpe? E questa
guerra esiste anche da noi ? Chi la conduce e chi la subisce? Intanto conviene domandarsi a cosa
serva questa guerra. Non a cancellare il lavoro intellettuale, ma a sfruttarlo.

Esattamente come le
guerre contro i contadini non servivano a cancellarli dalla faccia della terra, ma a mantenerli in
una condizione di servitù. La servitù, nel caso nostro, è nei confronti di un indirizzo
strettamente aziendale della produzione e della trasmissione del sapere, sotto il regime giuridico sempre
più estensivo (e fanaticamente ideologico, come dimostra la direttiva che vuole imporre un ticket
sui prestiti delle biblioteche) della proprietà intellettuale.

La guerra è mossa, dunque, contro tutto ciò che eccede e contravviene il diretto impiego
produttivo, l’immediata spendibilità del lavoro intellettuale sul mercato. E con questo termine, si badi
bene, non si intende più solo la ricerca, l’accademia e i prodotti "scelti" dell’industria
culturale, ma un bacino assai più vasto e generale di capacità cognitive che attraversano oramai i più
diversi generi di attività. In questo senso, l’appello francese, come discorso condiviso che raggruppa
un arco tanto vasto di figure da abbracciare i lavoratori intermittenti dello spettacolo, i
precari della ricerca, formatori e formati, fino ai più riconosciuti maitres à penser , passando per un
intero variegato mondo di «intellettuali dai piedi scalzi», coglie l’assoluta novità di questa
situazione e la dimensione comune che costituisce la condizione di libertà di questa pluralità di
soggetti.

La «guerra contro l’intelligenza» è, in altre parole, la guerra contro il suo carattere
extraeconomico, contro quello «spreco», quei caratteri inflazionistici e diseconomici che costituiscono la
condizione stessa di esistenza e sviluppo della cultura.

Significative sono anche le argomentazioni, tutt’altro che nuove, che la destra fa valere contro
la rivolta del «lavoro cognitivo»: un vecchio antintellettualismo che oppone la concreta operosità
del lavoro produttivo ai lussi di una conoscenza senza apparenti finalità immediate. Detto più
volgarmente, ciò che produce fin da subito denaro, a ciò che, per il momento, si limita a costarne.

Dietro a questo populismo destinato ai ruvidi palati della piccola imprenditoria e delle
«maggioranze silenziose», si cela la consapevolezza dell’alto contenuto di sapere proprio di ogni produzione
e la determinazione di non pagarne i costi, né di permettere divagazioni dettate dai desideri e
dalla libertà dei singoli. Di applicare, insomma, l’avara contabilità della spesa a ciò che, a tutti
gli effetti, è un investimento. Fatto salvo quel miracolo per cui la spesa pubblica, non appena
confluisce nelle tasche dell’impresa privata, si trasforma per incanto in investimento produttivo.

Detto della guerra, combattuta a colpi di tagli e di precariato, converrà occuparsi di chi la
conduce. A condurla, come denunciano gli intello francesi, è lo stato, e da noi, ancora più
convintamene, lo stato-azienda. Il trasferimento del controllo sulla produzione e la trasmissione del sapere
dall’ambito pubblico a quello privato, o a quello di uno stato che si comporta come proprietario e
come imprenditore, è un processo squisitamente politico, basato su decisioni e rapporti di forze.

Di fronte a questa guerra perfino ogni resistenza «corporativa» ha il diritto e il merito di
contraddire l’affermazione univoca e fanatica della logica del mercato. Ma, a maggior ragione un
riconoscersi reciproco del lavoro (ma anche del consumo) cognitivo nel conflitto contro la servitù
«volontaria» o imposta dell’intelligenza e della cooperazione sociale, costituirebbe una forza
decisiva. Una forza politica.

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