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MA SI PUO’ COSTRUIRE QUALCOSA A PARTIRE DA UN CUMULO DI MACERIE?

Publie le mercoledì 28 gennaio 2004 par Open-Publishing

Confesso che il dibattito avviatosi su "Liberazione" pone un problema di
non facile soluzione, e vale a dire l’individuazione di quale sia
l’effettivo oggetto del contendere. Dato il grande spazio concesso al tema
della "non violenza" si potrebbe pensare che questo sia il cuore del
problema, in verità esso è solo un tassello di un dibattito ben più ampio.
Per i temi e il modo con cui questi sono stati affrontati a me pare che, di
fatto, la questione che è rimessa in campo sia la solita e, cioè, se abbia
senso impegnarsi per la costruzione di un partito comunista, a meno di non
concepire tale costruzione come la salvaguardia di un puro simulacro di cui
si conservano i simboli mentre se ne svuotano i contenuti. Ma veniamo ad
alcuni punti essenziali.

E cominciamo pure dalla questione della violenza. Molti fra quanti sono
intervenuti (da Tronti, a Raniero La valle, ecc) hanno espresso posizioni
che condivido. Che senso ha oggi questa palingenesi della non violenza? Se
si vuole polemizzare con comportamenti sbagliati a sinistra che praticano
(soprattutto simbolicamente) forme di lotta discutibili sarebbe sufficiente
richiamare queste forze nei momenti dovuti (ma, guarda caso, ce n’e voluto
prima di smettere di civettare con queste forme di protesta). Se si vuole
teorizzare che la guerra preventiva e il terrorismo esauriscono il campo
della violenza possibile bisognerebbe allora per lo meno spiegare che fine
ha fatto il concetto di resistenza. In ogni caso, che senso ha assumere la
non violenza come categoria metastorica? E se, come ha posto Ingrao
(utilizzato il più delle volte solo per le affermazioni che tornano
comodo), ci si trovasse nella necessità di reagire all’aggressione?

Marginalmente, vorrei tornare sulla vicenda delle Foibe e dei fatti di
Venezia. Da quando in qua uno degli errori fondamentali che avrebbe
commesso la sinistra sarebbe stato quello di "angelizzare" la resistenza?
Forse che il problema fondamentale che abbiamo di fronte è di contrastare
l’apologia della violenza resistenziale? Non scherziamo. Se vi è oggi un
problema è semmai quello di respingere un’iniziativa revisionistica che
punta a fare di tutta un’erba un fascio, mettendo repubblichini e
partigiani sulla stessa barca, in nome di una comune ispirazione
patriottica o del rispetto che si deve comunque alla vita umana. Vorrei
anche mi si spiegasse come mai a Venezia i nostri rappresentanti
istituzionali abbiano accettato la modifica del nome di una piazza al fine
di celebrare i martiri delle foibe.

E, da questo punto di vista, mi permetto di chiedere: da oggi in poi i
nostri amministratori in giro per l’Italia, di fronte ad iniziative
analoghe promosse spesso dai DS (il più delle volte per fare l’occhiolino
all’elettorato di destra), cosa dovranno fare? Forse accodarsi?

Le interpretazioni date nel partito di questo dibattito sulla violenza non
mi hanno convinto. Alcuni hanno insinuato che si trattasse del prezzo da
pagare per entrare nel salotto buono della borghesia, nella prospettiva
dell’entrata al governo. A me pare che vi sia qualcosa di più profondo, e
cioè il tentativo di definire un nuovo profilo di questo partito e del suo
ruolo. Consideriamo alcune affermazioni emerse nel dibattito. Il compagno
Bertinotti su una recente intervista su Il manifesto ha testualmente detto:
"Vorrei vederlo in faccia uno che oggi dica voglio fare un partito marxista
o leninista". Come debba essere intesa questa frase (per me sorprendente)
lo s’intuisce successivamente dove, di fronte alla domanda sul senso che a
questo punto assume il riferimento al comunismo, la risposta è assai
indicativa: "la parola comunista ha un valore, ma non dice "io vengo da
li", bensì "io vado la". Quindi, il comunismo ha un senso se fa "tabula
rasa" della sua storia. In questa storia, naturalmente, non c’è solo
Stalin, c’è Lenin e anche il nostro povero Gramsci, che ora comprendiamo
come sia stato frettolosamente cancellato dal nostro statuto.

La domanda da porsi è la seguente: ma si può costruire qualcosa a partire
da un cumulo di macerie? La risposta che ci viene è non meno sconcertante.
Essa sta nel riferirsi all’assunzione dell’esperienza pratica dei
movimenti, escludendo ogni riferimento ad alcun elemento teorico dato, ma
anche semplicemente ad ogni riflessione sull’esperienza del passato. In
questo contesto, è il movimento a farsi soggetto d’egemonia. E’ il
movimento, insomma, che si assume il compito di svolgere il ruolo di
intellettuale collettivo e, in ultima analisi, di guidare la
trasformazione. Ma qui sorge una prima questione e cioè quella della presa
del potere. In che modo, insomma, questo movimento può trasformare la
società, a maggior ragione se ormai gli stati nazionali non esistono
praticamente più, se il nuovo potere imperiale è tanto forte quanto
spazialmente inafferrabile? In primo luogo, mi pare, che a questo quesito
si tenti di rispondere attraverso alcune scelte: con l’assunzione della
centralità delle nuove "moltitudini" e considerando praticamente azzerata
la dimensione della sfera politico-istituzionale; in secondo luogo con
l’assolutizzazione, come forma di lotta, della non violenza, scelta
considerata obbligata di fronte agli enormi squilibri nei rapporti di forza
con l’impero, ed infine, col rifiuto della presa del potere come
occupazione della sfera politico istituzionale. Qui il cerchio si chiude.

A questo punto, però, il trascendimento del capitalismo non si comprende
proprio da cosa nasca. Non si giova più di una contraddizione principale
(quella fra capitale e lavoro), non è supportato più da soggetti sociali
ben definiti, non può avvalersi delle contraddizioni interimperialistiche,
non ha avversari ben riconoscibili e aggredibili. Si capisce, allora,
perché parlando di comunismo si finisce con l’alludere ad un non meglio
precisato "di la da venire", ad un affascinante, quanto vago, ’"altro mondo
possibile" i cui connotati restano, per l’appunto, ancora largamente
indefiniti.

Liberazione