Home > Najaf: la rivolta dei senza scarpe
Al Sadr beffa gli Usa lascia la moschea di Ali e scompare nei sotterranei di Najaf. Un suo sermone è stato letto ieri nella vicina Kufa ma di lui non c’è traccia
di STEFANO CHIARINI
La consegna delle chiavi del mausoleo di Ali agli uomini dell’anziano capo spirituale degli sciiti, l’aytollah Ali al Sistani, e l’uscita dalla grande moschea con la cupola ricoperta di mattonelle d’oro, 7.777 per l’esattezza, dei seguaci armati del leader sciita radicale Moqtada al Sadr, potrebbe portare ad una sospensione del conto alla rovescia proprio sul baratro di un assalto finale alla città e ai luoghi santi sciiti. Affidando il mausoleo all’ayatollah Ali al Sistani, Moqtada al Sadr potrebbe così essere riuscito a salvare per il momento la vita sua e dei suoi uomini e a segnare alcuni importanti punti nella difficile partita a scacchi della resistenza all’occupazione americana.
A questo punto il rispetto di una eventuale tregua e della clausola sulla base della quale i luoghi santi dovranno essere protetti non dalla polizia irachena facente capo al governo collaborazionista Allawi ma dalle guardie stipendiate dall’Hawza, una sorta di Vaticano degli sciiti composto dai più importanti ayatollah con tutti i loro seminari, dipenderà dall’autorità dello stesso Sistani, la massima «fonte di ispirazione» per tutti gli sciiti. Di fronte all’offerta di al Sadr, l’ayatollah al Sistani - esponente della tradizione «pietista» favorevole ad un disinteresse delle gerarchie nei confronti della vita politica (tutti i poteri sono illegittimi in attesa del ritorno del Mahdi, basta che non colpiscano la religione) - già oggetto di forti critiche per aver lasciato Najaf nel momento più drammatico e per non aver sostenuto apertamente la resistenza all’occupazione, non poteva che accettare di ritornare in gioco. Anche perché ricuperare il controllo sul mausoleo di Ali, da aprile nelle mani degli uomini di Moqtada al Sadr, senza spargimento di sangue non è certo per Sistani poca cosa sia nei confronti dei suoi seguaci che degli stessi occupanti.
Moqtada al Sadr, da parte sua, per il momento, non solo sembra essere riuscito a sganciarsi dall’assedio Usa (scomparendo nei pozzi e nei cunicoli di Najaf come il Mahdi che tornerà alla fine dei tempi a portare la giustizia al mondo), ma esce dal confronto politicamente assai più forte di quanto non fosse ai primi di agosto. E’ infatti la seconda volta dallo scorso aprile, che gli Stati uniti tentano di far fuori lui, le sue milizie, il sostegno di cui gode e più in generale tutti i movimenti di resistenza all’occupazione, sunniti e sciiti, senza riuscirci. L’attacco Usa era scattato ai primi di agosto quando, rompendo una tregua raggiunta con al Sadr a giugno, i marines hanno tentato con un colpo di mano di arrestarlo e, non riuscendoci, hanno cominciato ad arrestare suoi collaboratori nel centro sud del paese e ad attaccare le postazioni delle sue milizie. Parallelamente con pesanti bombardamenti e una offensiva generalizzata i comandi Usa cercavano di riprendere il controllo delle città sunnite e sciite dalle quali erano stati praticamente cacciati e che non riconoscono più il governo collaborazionista di Allawi.
La loro offensiva, al di là della uccisione di centinaia di resistenti e di cittadini iracheni, per il momento non sembra abbia in realtà portato alcun risultato positivo per gli occupanti e per il governo Allawi. Il fatto che i partiti sciiti presenti nel governo, in particolare «al Dawa» e il Consiglio superiore della rivoluzione islamica in Iraq (lo Sciri) nella loro dirigenza (e con il determinante beneplacito di Tehran) avessero dato via libera all’offensiva americana che avrebbe tolto loro di mezzo un sempre più popolare concorrente, non è stato sufficiente per chiudere il cappio attorno ad al Sadr. Non è stato possibile per la popolarità del giovane leader radicale che da tempo, sull’esempio degli Hezbollah libanesi, gioca la carta della «resistenza nazionale» contro gli occupanti e della «unità del paese» contro le tendenze secessioniste delle province curde e contro la kurdizzazione della città di Kirkuk con la cacciata delle popolazioni arabe e turcomanne. Non a caso in tutte le iniziative di al Sadr c’è sempre la vecchia bandiera irachena mentre spesso nella polemica contro il clero conservatore e pietista di Najaf, l’esponente sciita ha sostenuto che il loro disinteresse nei confronti della resistenza deriverebbe dalle origini «straniere», soprattutto iraniane, dei massimi esponenti religiosi sciiti.
Questa carta «nazionale» e gli attacchi ai partiti presenti nel governo gli hanno provocato la freddezza e il mancato appoggio del governo iraniano, assai più vicino allo Sciri, ma un forte consenso all’interno del paese, non solo tra gli sciiti ma anche tra i sunniti. Anche il gesto di aver affidato le chiavi alle autorità religiose irachene di Najaf escludendo la polizia e il governo Allawi (considerati strumenti degli americani) costituisce agli occhi degli iracheni un’ altra soluzione «nazionale» incruenta contrapposta a quella militare sostenuta dagli Usa. Al Sadr, ancora una volta, è riuscito a saldare l’elemento «nazionale», quello religioso della «difesa dei luoghi santi» con quello sociale di un riscatto, oggi e non un domani con l’arrivo del Mahdi, rivolto «ai senza scarpe» del paese, alle masse di giovani delle periferie delle città che, non solo a Sadr city, ma anche in altre sette città del sud del paese sono affluiti in massa ad infoltire le schiere dei suoi seguaci. Tale popolarità ha finito per isolare il governo Allawi e per dividere lo stesso fronte sciita dei partiti che sostengono l’occupazione. Se poi al Sadr riuscirà ad uscire dall’assedio conservando le sue milizie, i suoi seguaci, e il controllo delle più importanti città del sud dell’Iraq, allora il futuro del governo Allawi e della presenza militare americana in Iraq sarà segnato. Anche se lo stesso al Sadr dovesse essere ucciso o fatto prigioniero.