Home > New York marcia contro Bush
di Piero Sansonetti
Il «New York Times Magazine» scrive che c’è un soffio di sessantotto nell’aria. È così. I colori, gli slogan, la passione, la radicalità, sono gli stessi di 35 anni fa. Le facce sono quelle. La mobilitazione è davvero massiccia. Allora finì bene e finì male. Finì bene perché quel movimento ha cambiato per sempre il senso comune dell’occidente: lo ha spinto molto avanti. Finì male perché il pacifista Kennedy fu ucciso, il pacifista Luther King fu ucciso, fu ucciso il capo del Black Panther e i leader degli hippy finirono in prigione: Hubert Humphrey - moderato e non pacifista candidato alla presidenza per i democratici - fu sconfitto da Nixon, cioè dalla destra-destra. Stavolta succederà lo stesso, o vincerà Kerry? E Kerry assomiglia ad Humphrey o invece assomiglia a Bob Kennedy? E Michael Moore, amatissimo regista che è il re della protesta, è all’altezza di Bob Dylan e Allen Ghinzberg?
Ieri una enorme massa di persone, un’ondata, una valanga, ha invaso le strade di Manhattan. Ha fatto capire che c’è una parte dell’America, una parte grande dell’America, che è letteralmente in rivolta contro Bush, il bushismo, la guerra, il "supremazismo americano" e cioè quella mania di grandezza e di comando che sta creando tragedie nel mondo e guai seri in patria. Probabilmente erano tre o quattrocentomila persone, ma qui nei calcoli sono molto rigorosi e non tendono ad esagerare: in Italia avremmo detto un milione. Si sono dati appuntamento di domenica, all’ora del brunch (cioè della colazione-pranzo, che nei giorni di festa si consuma alle 11 del mattino) all’angolo tra la settima street e la quattordicesima avenue. E’ un modo piuttosto modesto, umile, per convocare una manifestazione. Come se noi dicessimo: ci vediamo all’angolo tra via Tomacelli e via del Corso.
Roba per pochi amici. In realtà già molto prima delle undici tutte le strade meridionali di Manhattan erano piene di pacifisti. La parola d’ordine della manifestazione era contro la guerra e contro Bush. Soprattutto era una manifestazione indignata -letteralmente offesa - dei newyorkesi, che non capiscono perché il partito repubblicano, per la prima volta nella sua storia, abbia deciso di violare la città “liberal”, cioè di sinistra, e di tenere qui la sua Convention. La Convention repubblicana si apre questa mattina al Madison Square Garden nel pieno centro della città e dura quattro giorni.
I repubblicani hanno deciso di sfidare New York per una serie di ragioni. La prima è sicuramente simbolica, e cioè sta nel richiamo all’11 settembre che colpì New York - e quindi alla necessità di reagire, di combattere, di opporsi al nemico, di fare la faccia feroce. Tutte attività non adatte - dicono a John Kerry. La seconda ragione, opposta, sta nel profilo moderato e ragionevole dei dirigenti repubblicani di New York, e soprattutto dei più famosi: il sindaco Bloomberg, il governatore Pataki, l’ex sindaco Giuliani. Il Partito repubblicano conta su di loro per raccogliere voti al centro, in quell’area incerta dell’elettorato che alla fine deciderà il vincitore.
La manifestazione anti-Bush è partita alle undici in punto. In poco più di mezz’ora ha raggiunto il Madison Sudare Garden (cioè il luogo della contestata Convention) che sta all’altezza della trentatreesima street. Poi ha percorso un tratto della trentatreesima ed è ridisceso a sud, lungo la quinta strada, fino a Union Square, la grande piazza del mercato di Manhattan. In tutto circa cinque chilometri sui larghi viali newyorkesi. A mezzogiorno e mezza il percorso era tutto pieno e Union Square era già colma. Il corteo ha continuato a sfilare per ore. La coda era ancora davanti al Madison Square Garden alle quattro e mezzo del pomeriggio. Quasi sei ore di corteo. Probabilmente è stata la più grande manifestazione di tutti i tempi a New York.
Chi erano i partecipanti? Soprattutto intellettuali e lavoratori newyorkesi, soprattutto bianchi, di ogni età, di differenti posizioni politiche. C’erano i moderati, c’erano i reduci dal Vietnam e dalla guerra del Golfo, con le loro bandiere e le loro medaglie, c’erano moltissimi parenti delle vittime dell’11 settembre e molte madri e padri, e fratelli e sorelle di soldati morti in Iraq e in Afghanistan. Prevalentemente era una manifestazione radicale, ma non era solo radicale. Sicuramente però era più una manifestazione contro Bush che una manifestazione a favore di Kerry: parecchia gente portava i distintivi del partito democratico e le scritte per Kerry ed Edwards, ma non è che ci fosse un grande entusiasmo a favore dei due candidati democratici. Anche perché lo spirito fondamentale della manifestazione era uno spirito pacifista, e la richiesta urlata da tutti era: Via dall’Iraq, basta con le guerre. E “Via dall’Iraq” e “basta con le guerre” non sono precisamente le parole d’ordine della campagna elettorale di Kerry.
Il corteo era letteralmente tappezzato dalle bandiere della pace. Su molte c’era scritto “Pace”, in italiano. Fino a qualche anno fa la bandiera con l’arcobaleno, qui in America, era il simbolo del movimento gay della California, adesso ha cambiato significato, dopo le grande adunate pacifiste italiane che hanno reso la bandiera pacifista famosa in tutto il mondo. Su molte bandiere però la scritta era in inglese, e diceva: “No all’agenda di Bush”. Sui cartelli c’erano slogan di ogni genere, ma quasi tutti insistevano su un punto: “Bush mente”. Per gli americani è un aspetto fondamentale e insopportabile della politica di Bush. Aver mentito sulle armi di Saddam, aver mentito sulle torture, aver mentito sulla Cia, aver mentito sull’11 settembre. E’ questa l’imputazione principale e capitale: essere un bugiardo. E un bugiardo dicono non può fare il presidente degli Stati Uniti. E’ un po’ il contrappasso degli attacchi della destra Clinton, sei anni fa, quando Clinton mentì su un affare di sesso. Qui però l’oggetto della menzogna è un po’ più grave e soprattutto sono più gravi le conseguenze.
Quando il corteo arriva davanti al Madison Square Garden, transennatissimo, c’è un gruppetto di attivisti repubblicani che aspetta coi suoi cartelli. Dicono: “Bush per altri quattro anni”; “Osama vi prega: votate Kerry”; “Ai terroristi piacciono Kerry ed Edwards”; “Kerry ed Edwards stanno con l’Islam”; “La destra ha ragione la sinistra ha torto” (che è un gioco di parole, perché in inglese destra e ragione si dicono allo stesso modo: “the right is right”). Tra gli attivisti repubblicani e i democratici inizia un fronteggiamento di slogan e anche un fitto dialogo polemico e a tratti furioso. Ma non c’è neppure un filo di tensione: due o tre poliziotti stanno a guardare placidi. E’ quasi impossibile pensare a qualcosa del genere in Italia. Ve l’immaginate un gruppo di leghisti che va a disturbare pacificamente una manifestazione no-global a favore degli immigrati?
C’è un repubblicano sudatissimo che continua a gridare: “Altri quattro anni, altri quattro anni”, e si riferisce a un secondo mandato presidenziale per Bush. Fa quattro con le dita delle mani, e ride rabbioso verso quelli del corteo. Loro rispondono insultandolo in tutti modi ma lui tiene duro: “Quattro anni, quattro anni...”. Passano due giovani con un cartello che mostra la foto di un ragazzo. C’è anche il nome del ragazzo, si chiama Juan Torres, deve essere un latino-americano. C’è scritto che ha 26 anni, anzi li aveva, perché è morto in Afghanistan. Uno dei due indica Jaun Torres al repubblicano invasato, e gli grida: “amico, cosa ne pensi di questo? Era mio fratello. Vedi, lo ha mandato lì il tuo Bush...”. Il repubblicano non si commuove affatto, fa quattro con le dita delle mani e continua a gridare: “four more, four more...”, ancora quattro. Una ragazza coi capelli rossi si accapiglia con un vecchio professore. Lei è repubblicana lui democratico. Lei dice al professore che è un pappamolle, che ha paura della guerra, che è un vigliacco. Lui non sa neanche come rispondere.
Balbetta. Poi grida : “fascista”, e se ne va. A un certo punto passa un gruppo di giovanotti della New York University e inizia a cantilenare, rivolto ai repubblicani uno slogan che per noi italiani è molto familiare: “sce-mi, sce-mi...”. Proprio così, in italiano, come facevano gli indiani metropolitani un quarto di secolo fa. Gli chiedo come mai parlano italiano. Non parlano italiano, non sanno esattamente cosa voglia dire “scemi”, e non sanno neppure che è una parola italiana. Il coretto lo hanno imparato all’università.
In testa al corteo c’è Jessy Jackson, il capo dei neri nel partito democratico. Ma il personaggio chiave non è lui, il personaggio chiave è il regista, è Michael Moore. Parla alla folla con un megafono, dice che la “maggioranza degli americani è contro Bush perché è contro la guerra, e che allora Bush se ne deve andare”. Se ne andrà davvero o vincerà le elezioni? Questa gigantesca manifestazione spingerà Kerry o sarà solo una testimonianza contro Bush? John Kerry è ottimista. Ieri ha dichiarato che il “2 novembre ci libereremo della nube oscura che da quattro anni pesa sull’America”.