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Nonviolenza inadeguata contro la ferocia imperialistica

Publie le lunedì 26 gennaio 2004 par Open-Publishing

Uno spettro si aggira nel dibattito in corso: sono le rivoluzioni comuniste
del ’900, di cui si mettono in discussione non solo errori e involuzioni,
ma le radici stesse e la legittimità storica (sulla stessa lunghezza d’onda
del "Libro nero del comunismo"). Il "peccato originale" viene individuato
essenzialmente in due fattori: a) la conquista del potere statale (Folena,
23.1.04); b) il ricorso alla violenza. Per fuoriuscire dall’ingombrante
’900 e dar vita a un "nuovo inizio" si propone la "non violenza" quale
forma di lotta assoluta, universale e non negoziabile. Ciò sulla base di
due motivazioni. La prima, di tipo "storico": a differenza che in passato,
si dice, "l’impero" è oggi talmente potente, da risultare invincibile sul
piano militare; la seconda, di carattere "metafisico": i metodi violenti di
lotta "contaminano" chi li pratica e non possono assolutamente dar vita ad
una nuova società (Menapace, 23.12.03, Russo, Revelli, 20.1.04). Entrambe
le motivazioni mi sembrano problematiche.

Se "l’impero" (ovvero l’imperialismo a base Usa) ha oggi, sul piano
militare una superiorità indiscussa, che intende usare per piegare i popoli
del mondo e i possibili concorrenti delle altre grandi aree capitalistiche
(in primis la Ue) non è però invincibile. Una simile visione (che
introietta in modo subalterno il sogno di onnipotenza dei neocons
americani) nasce dall’abbandono della teoria leninista, che, opponendosi al
kautskiano "superimperialismo", coglieva le contraddizioni tra
imperialismi: La teoria dell’impero - unico, pervasivo, mondializzato -
porta in sé anche l’idea di onnipotenza imperiale. Non si può separare
l’analisi della guerra e della potenza militare dall’insieme dei rapporti
sociali. Potenza militare e guerra non sono un assoluto, sono radicati in
un sistema sociale, caratterizzato dalle sue specifiche contraddizioni di
classe. Il terreno militare non è mai stato per i comunisti, né per le
forze che nel XX secolo hanno praticato resistenze e lotte di liberazione,
il terreno principale. La resistenza al nazifascismo o quella vietnamita
all’aggressione Usa combinavano insieme lotta politica e lotta militare;
non assolutizzavano l’uno o l’altro aspetto, ed è stato principalmente
grazie al radicamento politico che hanno vinto contro nemici che apparivano
strapotenti sul piano dei mezzi militari.

Il secondo argomento trascende ogni riferimento storico, ogni marxiana
"specificazione storica" per collocarsi su un piano di generalizzazione
universale e atemporale. Vi è in questa posizione radicale l’idea che l’uso
del medesimo mezzo ti fa diventare come l’altro, ti contamina. E’ un’idea
forte e di grande effetto. Ma è propriamente un’idea metafisica, che non
riesce a concepire il processo storico, la transizione da una forma sociale
all’altra, attraverso la contraddizione in cui gli opposti si compenetrano,
per dar vita a un "superamento" che non è affatto il puro e semplice
annientamento dell’opposto, sostituito da qualcosa di totalmente "Altro",
ma, una sintesi, che, come scriveva Marx, "porta ancora i segni della
vecchia società dal cui seno è uscita".

Viviamo e operiamo in condizioni storiche date, e come comunisti ci
adoperiamo per rovesciare lo stato di cose presente. Ma esso è un dato, è
la "verità effettuale" di Machiavelli, che Gramsci analizzava nei suoi
Quaderni sotto la rubrica "rapporti di forza". Non è sempre possibile
scegliersi il terreno dello scontro. Se così fosse, i comunisti, che non
hanno certo iscritto nel loro codice genetico la violenza e la guerra,
avrebbero sempre scelto la "via pacifica"...

Gli imperialismi oggi dominanti hanno dimostrato di essere disposti a tutto
e a passare su qualsiasi cadavere pur di conservare il potere economico e
politico. E questa non è storia passata. Il secondo dopoguerra è costellato
di interventi devastanti: dall’Indonesia alla Grecia, dal Cile di Allende
all’Argentina, senza dimenticare che in Italia ha operato un’organizzazione
come Gladio, pronta ad intervenire se i comunisti si fossero avvicinati
troppo al governo. Il fascismo non è un incidente della storia, un bubbone
sorto su un corpo sano, come pretendeva Croce, ma è un’alternativa che le
classi capitaliste praticano quando il loro potere viene messo in pericolo...

Non ci troviamo di fronte a un "avversario", che - come in una partita a
scacchi o in un duello tra cavalieri - osserva le regole del gioco, nel
rispetto reciproco, sentendosi parte di una comune civiltà, in cui
riconosce l’altro non come alieno, ma proprio simile. Siamo di fronte ad un
imperialismo ferocissimo e spietato, che considera - al pari del nazismo -
il resto degli umani sottouomini, carne da macello su cui sperimentare
nuove armi di distruzione di massa e che dichiara esplicitamente di non
riconoscere altre regole del diritto internazionale che non siano quelle
che gli sono favorevoli. Le bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki lanciate
contro civili inermi non sono meno crudeli ed efferate, nella loro logica
come negli effetti, del campo di sterminio di Auschwitz. E’ irrealistico
pensare che di fronte a tale barbarie, a tale rifiuto di "regole del
gioco", la pratica non violenta possa ottenere risultati significativi.
Mentre è grande il rischio che essa rafforzi l’egemonia dell’imperialismo,
con l’invito - implicito o esplicito - a rinunciare a qualsivoglia forma di
resistenza armata alle aggressioni imperialistiche attuali o future. E,
detto per inciso, si parlerebbe ancora di Iraq se non si fosse sviluppata
lì una resistenza, anche militare, all’occupazione? Quella resistenza lotta
anche per i diritti degli altri popoli minacciati dall’imperialismo, impone
un freno alla marcia trionfale del militarismo Usa.