Home > Pacifismo, è un fare per la pace non una passività calabrache

Pacifismo, è un fare per la pace non una passività calabrache

Publie le lunedì 2 febbraio 2004 par Open-Publishing

Il dibattito sulla non-violenza, aperto da Fausto Bertinotti, si sta
sviluppando e allargando sulle colonne di Liberazione e de il manifesto, e
questo davvero è un bene (della discussione avvenuta nella direzione di
"Rifondazione" so troppo poco per esprimere giudizi o porre interrogativi).

A me sembra una iniziativa politica urgente e feconda. Personalmente io
però sarei incline a non estenderla ad una riflessione sulla violenza "in
generale" nella vita umana: e non solo perché in un dibattito che assuma
tali dimensioni e livello io ho idee assai più incerte; ma perché mi sembra
che una riflessione sulla violenza debba innanzitutto misurarsi sui
drammatici eventi in corso: sul ritorno imperioso e sconvolgente che ha
avuto sul globo in cui abitiamo la "guerra di massa": nel tempo - non
dimentichiamolo mai - dell’atomica, l’arma suprema, di cui l’uomo della
strada, il semplice cittadino sa quasi nulla. Penso insomma alla nuova
"violenza pubblica", posta in campo dai reggitori degli Stati (o degli
imperi, se volete): l’evento che mi sembra il grande fatto nuovo con cui si
apre questo secolo, e chiama in campo, con urgenza, la risposta degli
spiriti pacifici (per ricorrere a un vocabolario antico).

E ciò che mi preme è se e come costruire una strategia e una risposta
politica ai nuovi "signori della guerra": un obiettivo, che certamente sarà
aspro e difficile e per nulla lineare.

Lotta alla passività

Intanto e prima di tutto, esso chiede una lotta contro la passività. Ci
sono oggi milioni di esseri umani che si limitano a guardare - illudendosi
che il conflitto armato possa essere gestito e patito solo da corpi
speciali, che fanno questo per mestiere o vocazione: e che si possa
lasciare a loro quel compito sanguinoso e grave, se mai - patriotticamente
 rendendogli onore quando cadono e perdono la vita. I campi di battaglia,
a volte e spesso, sono lontani e in certo modo circoscritti: perché dunque
temere l’urto delle armi quando esso non mi tange, non giunge al mio
cortile di casa?

Il pacifismo è lotta contro questa illusione: è l’evocazione di una
corresponsabilità, e insieme la coscienza, l’individuazione degli attori:
dei "signori della guerra" e delle forze e delle istituzioni (dei poteri)
che li muovono e li sorreggono. Pacifismo è fissare e diffondere nei popoli
questa mappa. E farne un aspetto centrale della lettura del mondo in cui
oggi viviamo: della sua falsa "innocenza", e del nuovo terribile slancio
che torna a prendere l’uccidere di massa.

In questa luce, pacifismo è forse e prima di tutto la questione della
secolare discussione sulle armi: sulle risorse che per esse vengono
impegnate e consumate, e se ciò è paragonabile e compatibile con i mezzi
necessari allo studio, ai saperi, alla scuola, e anche alla salute dei
cittadini. Insomma: aprire di nuovo ed efficacemente un contenzioso sulle
"spese militari" (vi ricordate questa parola?): su quanto costa "l’uccidere
pubblico", e quanto esso si mangia del nostro pane. Non abbiamo troppo
appannato questo tema?

Quindi pacifismo oggi è anche trarre fuori dagli armadi finiti in soffitta
una parola antica: disarmo. Ci fu un tempo in cui questa parola era sulla
bocca di molti, ed esso fu nei programmi o nelle promesse dei governi, e -
certo - nelle grandi lotte delle popolazioni e dei cittadini.

Oggi quella parola è scomparsa. Pacifismo è resuscitarla: non solo sulle
bocche di tanti, ma nelle battaglie dei Parlamenti, nelle scelte dei
governi: con la coscienza che oggi più ancora - forse - della quantità
delle armi, conta la loro nuova qualità. E riconoscere, rendere pubblici
gli strumenti di morte e i nuovi veleni che sono in mano a chi comanda gli
eserciti, e quali guasti e stermini sono possibili.

I bilanci militari

Rileggiamo i bilanci di questa e altre repubbliche. Riapriamo il discorso
su dove - forse! - stanno (e come e in mano a chi) gli arsenali atomici.
Portiamo questi temi anche nelle scuole, perché gli adolescenti già
sappiano su che poggia il potere che prepara il loro domani.

Lo so: tutto questo - e altro ancora - riguarda il prima della guerra: un
tema che sembra scomparso dalle nostre agende e che il pacifismo - come lo
vedo io - ha l’enorme compito di resuscitare. Forse sbaglio: ma io penso
che abbiamo accettato troppo quietamente il ritorno della guerra di massa.
Non abbiamo fatto scandalo. Non abbiamo misurato ed evocato la gravità
dell’evento.

Poi ci sono le guerre che già esistono: sono troppo ingiusto se dico che ad
esse il mondo - e anche un campo di cui noi facciamo parte - in un certo
modo anche a ciò sta adattandosi? Per amaro che sia noi non abbiamo fatto
il possibile per impedire la seconda guerra all’Irak. Né - mi sembra - sia
ancora terminata la guerra in Afghanistan. E poco o nulla io so dirvi delle
molte e crudeli guerre che squassano l’Africa, rispetto a cui la parola
"pacifismo" sembra proprio suonare bizzarra e distante.

L’art. 11 esiste!

Ma c’è stata anche un’assenza che riguarda direttamente noi: noi italiani.
Abbiamo tollerato che in questo Paese fosse gravemente scavalcato ciò che
impone esplicitamente la Costituzione di questa Repubblica, quando
all’articolo 11 consente solamente la guerra di difesa. E l’assurdo, il
ridicolo è che mesi or sono non uno qualsiasi, ma il Presidente della
Repubblica, rompendo un lungo silenzio, ha confessato che sì l’articolo 11
esiste. Dunque esiste ma non vale: e noi abbiamo mandato i nostri soldati
in Irak.

Il diritto alla resistenza

Quelle truppe italiane - per me - sono aggressori; e pacifismo - nel suo
senso più elementare - è lottare perché cessi quell’aggressione armata.
Quale motivazione più urgente per invocare e costruire una corrente
pacifista? E chiamarla subito a un compito così necessario e bruciante? E
non è questo sopravvenire della guerra preventiva una ragione nuova per
invocare il ritorno al dettato dell’articolo della Costituzione italiana?
Perché non accade? E invece Massimo D’Alema, autorevole dirigente dei Ds,
parla ancora di "astenersi" nel voto prossimo su questa presenza illegale
di truppe italiane in Irak.

E qui - bisogna dirlo- s’apre un problema nuovo e aspro per noi pacifisti:
la questione del diritto del popolo irakeno. Noi pacifisti potremmo negare
al popolo irakeno il diritto di resistere, anche con le armi alla mano,
all’aggressore straniero? E però - ecco il dubbio - non rinneghiamo così la
nostra vocazione alla non - violenza?

Personalmente io ritengo che non si possa rifiutare a chi nel suo paese è
aggredito da un esercito straniero la possibilità di difendersi e
respingere l’aggressore anche con le armi. Ma penso e spero che l’esistenza
attiva e coraggiosa di una movimento pacifista di respiro internazionale
divenga il luogo costruttivo in cui esplorare, vagliare e decidere quale
sia la strada migliore per assicurare libertà e pace a quel paese aggredito.

La scelta pacifista

Insomma il pacifismo non è solo una dichiarazione di fede e un mero rigetto
dell’uso delle armi. Non è una strategia delle mani pulite e della pura
speranza nella pace. E’ un soggetto politico-sociale capace di intervenire
nei punti di crisi contro la pratica della violenza, e per la
individuazione e la costruzione di vie pacifiche. E’ un fare per la pace:
non una passività da calabrache. E la sua efficacia sta proprio nell’agire
(e prevenire) sul conflitto e nel conflitto. E noi, con questa scelta e
questo dibattito sul pacifismo, stiamo cercando ed esplorando le vie per
pensare il conflitto, nelle condizioni - nuovissime - in cui si presenta in
questo inizio di secolo.

Terrorismo: netta condanna

E qui l’orizzonte si allarga. Io credo che dalla riflessione che sono
venuto sommariamente sviluppando emerga chiaramente l’obbligo (uso
volutamente questa parola così rigida) di una condanna del terrorismo messo
in campo da una parte del mondo arabo ferito. Non solo esso è una via che
si fonda sulla violenza nel senso più crudo e nudo. E’ una strada che non
solo dà un alibi- per ipocrita che sia- all’aggressore occidentale, ma
poggia tutta sullo scontro armato, e sulla carta avvelenata delle armi. E’
l’opposto sanguinario della via che il pacifismo propone. Ed un compito
urgente che dobbiamo affrontare è il dibattito e la ricerca sulle vie per
combatterlo. Qui sinora c’è un’assenza nostra, che richiede una riflessione
nuova da avviare: e prima di tutto cerchi di comprendere come il pacifismo
si sia indebolito ad Oriente, proprio là dove si era sviluppata l’azione
fulgida e militante della figura e del pensiero di Gandhi (e non dimentico
 certo - le differenze grandi e la distanza fra il mondo arabo di oggi e
l’India di Gandhi).

Penso che in questa luce dobbiamo sconsigliare e combattere anche la strada
povera e dolente dei kamikaze: quell’uso disperato e misero della morte
sacrificale è ancora violenza, per giunta inutile e infeconda, e quasi
dimentica delle dimensioni della lotta.

Il mondo d’oggi

Al tempo stesso io sento e temo l’inefficacia e la sterilità di questa
critica. Il pacifismo può superare questa sterilità, solo individuando,
costruendo strade diverse dall’urto armato. E la nostra discussione di
questo parla, di questo deve discutere: non una scelta astratta fra pace e
guerra, tra violenza e carità, ma la costruzione di una strategia concreta
contro la violenza nel nostro tempo.

Certo: andiamo pure a sfogliare quelle pagine di Lenin e di Gramsci - che
in altro tempo mi parvero così obbliganti e oggi invece mi appaiono così
dubbie - , e a rileggere e resuscitare quel tempo. Ma guardando il mondo
nella sua inaudita e tragica luce di oggi.