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Per un dibattito più pacato su “Guerra, terrorismo, non violenza”
Publie le sabato 31 gennaio 2004 par Open-PublishingAbbiamo sentito citare più volte Brecht da Bertinotti e da altri compagni, che dicevano che oggi
non possiamo più essere d’accordo, ad esempio, con la sua constatazione che “anche l’ira contro
l’ingiustizia stravolge la faccia”, e che, anche volendo, in tempi così duri, “non abbiamo potuto
essere gentili”. Ci sono però dei versi di “Lode del dubbio” che varrebbe la pena di ricordare spesso
proprio in questa fase:
“Leggete la storia e guardate /in fuga furiosa invincibili eserciti. ./In ogni luogo /fortezze
indistruttibili rovinano e /anche se innumerabile era l’Armada salpando, /le navi che tornarono /le
si poté contare. / Fu così un giorno un uomo sull’inaccessibile vetta / e giunse così una nave alla
fine dell’infinito mare. /Ma d’ogni dubbio il più bello /è quando coloro che sono /senza fede,
senza forza, levano il capo e /alla forza dei loro oppressori /non credono più!”
Questi versi sono oggi importanti e molto necessari. Il nemico più grande di ogni progetto di
trasformazione del mondo è il fatalismo, è la parola “impossibile”. E la sentiamo ripetere ad ogni
momento.
Le difficoltà di un processo di pace in Medio Oriente sono tremende, per lo strapotere militare
dell’imperialismo statunitense e del suo principale alleato nell’area, lo Stato di Israele; c’è un
uso scandaloso dei media a danno di chi lotta per la sua libertà, e a vantaggio degli oppressori,
ecc. Eppure mi sembra assurdo concludere che mai gli iracheni, i curdi, i palestinesi, ecc.
potranno vincere. Il “Reich millenario” è finito dopo dodici anni, altri imperi hanno resistito decenni o
anche secoli, nessuno è stato eterno. E all’interno della potenza egemone nel XIX secolo, la Gran
Bretagna, e degli stessi Stati Uniti, ci sono stati bruschi scossoni che hanno portato a ritirate
e a dover concedere quello a cui ci si era opposti sanguinosamente per anni. Gli Stati Uniti hanno
dovuto ritirarsi dalla Corea, e poi dal Vietnam, e accettare perfino in America Latina le
sconfitte di fedeli vassalli come Batista o Somoza. Eppure la loro supremazia militare era già indiscussa!
I popoli contano poco, ma qualcosa contano, specie quando si mobilitano perché nonostante
“l’asimmetria” delle forze militari, troppi ragazzi tornano a casa in un sacco di plastica.
Esiste il “terrorismo internazionale”?
Il martellamento mediatico ha portato anche parte della sinistra ad accettare un uso
onnicomprensivo della parola “terrorismo”, sia nei confronti di azioni innegabilmente terroristiche perché
rivolte deliberatamente contro civili (come le auto bomba alle sinagoghe di Istanbul, o alcune delle
azioni suicide in supermercati o discoteche di Tel Aviv o Gerusalemme) e altre che sono invece
azioni militari contro un esercito occupante con i mezzi disponibili. Rientra tra questi l’attacco
alla caserma di Nassiriya, indistinguibile per gli iracheni dalle altre caserme della “coalizione”
occupante. Quanto al carattere speciale degli “italiani brava gente” esaltato da un coro
“bipartisan” che va dal presidente Ciampi in giù, vorremmo ricordare che in quella caserma la bandiera dei
carabinieri “umanitari” era decorata con l’emblema della RS.I...
A volte le azioni di resistenza armata coinvolgono anche dei civili, ma sono “danni collaterali”
imprevisti, esattamente come quelli provocati dalle bombe degli invasori se e quando queste sono
dirette a obiettivi veramente militari (e lo sono raramente). Distinguere tra 250 kg di esplosivo
contenuti in una bomba sganciata da un aereo o collocati in un’autobomba mi sembra assurdo (casomai
la sola differenza è che chi sgancia la bomba da un aereo non rischia nulla, e chi la porta in
un’auto ha la quasi certezza di morire anche se non ha scelto deliberatamente il suicidio).
Questa rinuncia alla solidarietà con la lotta di chi si ribella all’occupazione, mi sembra
gravissima. Quando si accenna a questo, è facile essere bollato, anche nelle nostre sedi, come
“sostenitori del terrorismo”. Ai compagni che si adattano a questo clima di isterismo va detto che anche del
vero e proprio “terrorismo” vanno individuate le ragioni: non per appoggiarlo ma appunto per
“spiegarlo”, fuori del coro demonizzante che parla di barbarie congenita attribuita a una vocazione
dell’Islam, o riunisce in un unico progetto diabolico di Al Qaeda le più diverse manifestazioni,
compresa la lotta nazionale del popolo ceceno iniziata nel 1770 e mai del tutto piegata. E di ciascuna
azione va individuata la causa, il contesto, invece di accettare la mistificazione di una sola
centrale del terrore.
Il terrorismo non è mai “autogenerato”: basta ricordare che per lunghi periodi, ad esempio durante
la prima fase della prima e della seconda Intifada e nella prima fase successiva alle grandi
speranze suscitate dagli Accordi di Oslo, Hamas e Jihad avevano rinunciato a questo tipo di azioni, che
sono ricominciate come risposta agli assassinii mirati, ai bombardamenti indiscriminati, alla
sistematica violazione di quei pur modestissimi e insufficienti accordi.
Dire questo non vuol dire “appoggiare” o “giustificare il terrorismo”, ma semplicemente sottrarsi
a un isterismo che a volte ha contagiato anche alcuni giornalisti di “Liberazione”, contro i quali
protestò sdegnata una compagna esemplare per esperienza di vita e lucidità come Marisa Musu, che
alla causa palestinese aveva dedicato gli ultimi anni della sua esistenza.
In Iraq colpire obiettivi statunitensi, italiani, ecc., è non solo legittimo, ma necessario per
indurre gli invasori a più miti consigli. Sui mezzi usati, vale sempre la risposta di un algerino a
chi si scandalizzava per le ragazze arabe che, vestite all’europea, portavano la morte nei bar dei
francesi per rispondere colpo su colpo ai massacri nella Casbah: “dateci i vostri aerei e carri
armati, e vi daremo le nostre borsette esplosive”. In certe fasi, le risposte da dare agli
oppressori sono quelle che si hanno a disposizione (come fu fatto anche in via Rasella, non dimentichiamo).
E l’abbiamo ricordato per sottolineare che poi, con una combinazione di lotta armata (con le armi
disponibili e non con quelle desiderabili) e di lotta di massa, compreso lo sciopero generale, si
può vincere (mentre lo sciopero generale da solo in genere non basta , come ha ricostruito
magnificamente Gillo Pontecorvo nella La battaglia di Algeri). Mentre da tempo immemorabile c’è chi dice
che vincere non si può, come faceva il PCF, che poi votava i crediti di guerra ai torturatori di
Massu. Ma anche in tempi più recenti c’era stata l’esperienza del Nicaragua.
Più in generale dovremmo ricordare che non abbiamo il diritto di decidere noi al posto dei diretti
interessati le forme di lotta scelte dagli oppressi. La maggior parte delle forme di lotta
efficaci hanno aspetti orribili: ne aveva piena consapevolezza lo stesso Lenin quando affrontava il
dilagare della “guerra partigiana” negli anni del riflusso della rivoluzione del 1905. In uno scritto
del 1906 egli osservava che le forme di lotta devono essere scelte in base alla loro efficacia
anche per l’educazione delle masse, e non per “ragioni di principio”. Varrebbe la pena di rileggerlo.
Se è legittimo dichiararsi “non leninisti” come fanno in tanti nel PRC, meno logico è farlo senza
aver letto Lenin, come fa il 90% dei militanti e anche molti dirigenti del nostro partito.
Mi va bene se i palestinesi impegnati nella lotta decidono tra loro democraticamente, sulla base
di un’analisi concreta degli effetti, di mettere al bando certe forme di lotta perché facilitano il
compattamento della popolazione israeliana intorno ai criminali che dirigono il loro paese, ma non
mi va bene che al posto loro lo facciamo noi, per presunte “ragioni di principio”.
Gli stessi attacchi alla popolazione civile israeliana entro i confini del 1948 (non a quella
delle colonie, che può essere equiparata a una forza militare di occupazione, sia perché tutti sono
armatissimi fin dall’infanzia, sia per i frequenti attacchi criminali a ogni palestinese che si
trovi a portata), potrebbero essere messi al bando dai palestinesi (e ne sarei felice), ma non possono
tuttavia essere considerati sempre frutto di scelte irrazionali e folli (anche se il singolo
individuo che li compie è mosso spesso da una tremenda disperazione e cerca di rispondere senza troppo
riflettere a chi ha ucciso i suoi cari) bensì di una valutazione politica, affine a quella degli
algerini tra il 1956 e il 1962: bisogna che gli israeliani sappiano che non possono vivere
tranquilli sulla terra che hanno usurpato nonostante la loro enorme supremazia militare, bisogna che
capiscano che non ci sarà nessuna “misura di sicurezza” che possa fermare gli attentati.
Per fermare la
spirale di morte è necessaria la prospettiva di una pace giusta basata sul riconoscimento dei
diritti calpestati dei palestinesi, e sulla restituzione di quanto è stato strappato con la violenza
delle armi nel 1967.
Il nostro partito non è abituato a discutere molto i problemi teorici: basti pensare alle
improvvisazioni sull’Impero che avrebbe reso “superato il concetto di imperialismo”, praticamente imposte
a quella parte della maggioranza che non le condivideva ma le ha dovute accettare per non
mescolarsi con chi prendeva a pretesto quel dibattito per ostacolare la “svolta” iniziata con la caduta
del governo Prodi e sancita dal congresso (salvo dimenticarsene poi per strada...). Oggi quelle
improvvisazioni sono semplicemente sparite sotto le verifiche dell’esperienza di questi anni in
Afghanistan e Iraq...
E allora vengo alla questione dell’impossibilità di liberarsi con una lotta armata data la
sproporzione di forze. Quando ho sentito portare in un dibattito questo argomento da un nostro compagno,
mi è venuto subito in mente un testo di Engels e una polemica sul suo stravolgimento da parte di
censori della socialdemocrazia. L’ho riletto e lo segnalo non per appellarmi a un’autorità (che
peraltro oggi nessuno conosce o riconosce). ma per fornire un esempio di una metodologia materialista
(e anche per verificare che i "nuovissimi dibattiti" sono in realtà molto vecchi...).
Il testo di Friederich Engels è l’Introduzione alla prima ristampa di “Le lotte di classe in
Francia dal 1848 al 1850” di K. Marx, ed è del 1895. Era stato pubblicato, prima che in volume,
sull’organo centrale della socialdemocrazia “Vorwärts!”. Engels si era infuriato, anche con il suo amico
Kautsky, per le censure che il suo testo aveva subito, lamentando che gli avevano “fatto un brutto
scherzo”, perché il redattore aveva “estratto tutto ciò che poteva servirgli in difesa della
tattica ad ogni costo pacifica e contraria alla violenza, che gli fa comodo predicare da un po’ di
tempo, soprattutto ora che a Berlino si preparano le leggi eccezionali. Ma io raccomando questa
tattica solo per la Germania d’oggi, e anche qui con riserve di carattere essenziale. In Francia,
Belgio, Italia e Austria non è possibile seguire questa tattica nella sua interezza e in Germania può
diventare inadatta domani” (I brani delle lettere sono tratti dalla nota introduttiva di Luciano
Gruppi a Marx-Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1966, pp. 1255-1956, mentre i brani che
seguono sono tratti dallo stesso volume, alle pp. 1270-1271). Come vedete, ancora una volta risulta
che per il marxismo la scelta delle forme di lotta è “tattica”, cioè legata alle circostanze
concrete di un determinato paese e momento storico.
Nel testo, di una ventina di pagine, Engels mette a punto i cambiamenti intercorsi nei trent’anni
successivi alla pubblicazione di quello straordinario scritto di Marx, comprese le innovazioni
negli armamenti. Scegliamo un solo brano, molto significativo, riportando poi il periodo successivo
amputato dagli ideologi della “non violenza ad ogni costo” e “per principio”:
“Ma da quel tempo si sono verificati moltissimi altri cambiamenti, e tutti a favore dell’esercito.
Se le grandi città sono diventate notevolmente più grandi, gli eserciti si sono accresciuti ancora
di più. Parigi e Berlino non si sono quadruplicate dal 1849 ad oggi, ma le loro guarnigioni si
sono più che quadruplicate. Per mezzo delle ferrovie queste guarnigioni possono più che raddoppiarsi
in ventiquattr’ore, e in quarantott’ore possono diventare eserciti giganteschi. L’armamento di
questa massa di soldati enormemente accresciuta è diventato incomparabilmente più efficace. Nel 1848
il fucile non rigato a percussione; oggi il fucile a ripetizione di piccolo calibro, che tira
quattro volte più lontano ed è dieci volte più preciso e dieci volte più rapido. Allora le palle
massicce e gli obici dell’artiglieria scarsamente efficaci, oggi le granate a percussione, di cui una
basta per mandare all’aria la migliore barricata. Allora il piccone del genio per far breccia nei
muri divisori, oggi le cartucce di dinamite.”
Come vedete, nessun abbellimento della realtà, nessun trionfalismo, nessuna illusione sulle
possibilità di facile vittoria, ma un’attenzione alle difficoltà (d’altra parte lo scritto non si
sofferma solo sui mutamenti intercorsi nelle tecniche militari, ma anche e soprattutto sulle esperienze
politiche successive al 1848, non ultima la Comune). E l’analisi delle difficoltà degli insorti è
spietata.
“Dal lato degli insorti, al contrario, tutte le condizioni sono diventate peggiori. Una
insurrezione che attiri le simpatie di tutti gli strati popolari è difficile che si riproduca; nella lotta
di classe non avverrà infatti mai che tutti gli strati medi si raggruppino in modo così esclusivo
attorno al proletariato da far quasi scomparire il partito della reazione raccolto intorno alla
borghesia. Il “popolo” apparirà quindi sempre diviso, e verrà perciò a mancare una leva potente che
fu tanto efficace nel 1848. Se è vero che dalla parte degli insorti vi sarà un maggior numero di
uomini che hanno compiuto il servizio militare, tanto più difficile sarà però il loro armamento. I
fucili da caccia e di lusso degli armaioli – se pure la polizia non li avrà resi precedentemente
inservibili asportando un pezzo dell’otturatore – anche in una lotta a piccola distanza non reggono
assolutamente al confronto coi fucili a ripetizione dell’esercito. Fino al 1848 ci si poteva
fabbricare da sé con polvere e piombo le necessarie munizioni; oggi la cartuccia è diversa per ogni
fucile, e tutte si assomigliano solo per essere un complicato prodotto della grande industria, e
quindi impossibile a improvvisarsi, di modo che la maggior parte delle armi sono inservibili se non si
posseggono le munizioni adatte ad esse. Ed infine i nuovi quartieri delle grandi città, costruiti
dopo il 1848, a vie lunghe, diritte e larghe, sembrano fatti apposta per l’azione dei nuovi
cannoni e dei nuovi fucili. Sarebbe pazzo il rivoluzionario che scegliesse di sua volontà i nuovi
distretti operai del nord e dell’est di Berlino per una lotta di barricate”.
Questo brano appariva una condanna inequivocabile di quello che fino a qual momento era stato
considerato un dovere del movimento operaio: la preparazione di una risposta a un tentativo di Colpo
di Stato reazionario. Le proteste di Engels vennero ignorate e solo molti decenni dopo furono
trovate le lettere in cui denunciava il “brutto scherzo” e poi il testo originale con le parti tagliate
dai redattori fu pubblicato (ma solo nel 1932, quando la maggior parte dei danni derivanti
dall’attribuzione a Engels di un ruolo di predicatore della “non violenza” erano stati fatti). Va detto
che ciò non aveva impedito il successo della rivoluzione russa, e di quelle tedesca e
austro-ungarica del 1918 (queste due poi inviate presto in un binario cieco dalle socialdemocrazie egemoni in
quei paesi)...
Ma vediamo il passo successivo, la cui amputazione cambiava del tutto il significato dell’analisi
puntuale e realistica fatta da Engels sulle nuove difficoltà che il proletariato doveva
affrontare.
“Vuol dire ciò che nell’avvenire la lotta di strada non avrà più nessuna funzione? Assolutamente
no. Vuol dire soltanto che dal 1848 le condizioni sono diventate molto più sfavorevoli ai
combattenti civili, e molto più favorevoli all’esercito. Una futura lotta di strada potrà dunque essere
vittoriosa soltanto se questa situazione sfavorevole verrà compensata da altri fattori. Essa si
produrrà perciò più raramente all’inizio di una grande rivoluzione che nel corso ulteriore di essa, e
dovrà essere impegnata con forze molto più grandi. Ma allora queste, com’è già avvenuto nel corso
della grande Rivoluzione francese, e poi il 4 settembre e il 31 ottobre a Parigi, preferiranno
l’attacco aperto alla tattica passiva delle barricate”.
Il 4 settembre allude all’insurrezione di Parigi del 1870, e il 31 ottobre a un altro episodio
della rivoluzione francese del 1870-1871 culminata nella Comune. Ma come abbiamo già accennato, gli
episodi in cui la lotta rivoluzionaria assume anche caratteristiche di lotta armata nonostante la
sproporzione iniziale delle forze sono molti, prima e dopo questo scritto di Engels (basti pensare
alla battaglia di Santa Clara del dicembre 1958 in cui Guevara con poche centinaia di uomini
armati alla meglio sconfisse – ovviamente grazie all’appoggio massiccio della popolazione - 5.000
militari di Batista forniti perfino di un treno blindato).
Ma lasciamo questo discorso, che serve solo a contestare l’argomento (evidentemente non nuovo)
dell’impossibilità di una vittoria di un movimento di liberazione contro forze preponderanti.
Su quello che ha comportato la scelta “per principio” della via pacifica, prescindendo dalle
contraddizioni di classe che rendevano inevitabile lo scontro, e hanno quindi lasciato all’avversario
la scelta dei tempi e dei modi con cui sferrare l’attacco a masse enormi, entusiaste e
impreparate, di esempi ce ne sono moltissimi, ma basta ricordarsi almeno delle tragedie che hanno colpito nel
1965 l’Indonesia e nel 1973 il Cile (in entrambi i casi con partiti comunisti che dal governo
seminavano fiducia negli eserciti e consideravano estremista ogni iniziativa per fronteggiare il Golpe
imminente).
Diciamo francamente: in base a questa logica, dobbiamo dire a palestinesi, iracheni, curdi,
ceceni, ecc. che devono e possono rinunciare alla lotta armata? E che dovrebbero fare allora, porgere
l’altra guancia agli oppressori o appellarsi a Madre Teresa di Calcutta?
Quanto alle cause delle molte sconfitte della rivoluzione palestinese, mi era capitato di rado di
sentire un argomento così aberrante come quello che la attribuisce alla scelta della lotta armata.
Casomai si deve alla opportunistica decisione dell’OLP di Arafat (nel 1970 in Giordania e nel
1975-1976 nel Libano) di “non interferire nelle vicende interne di quei paesi (in cui invece i
palestinesi finirono ugualmente per essere coinvolti, ma alle condizioni e nei tempi scelti dal nemico).
Se si fosse usato questo criterio della non ingerenza negli affari di altri Stati, i garibaldini e
lo stesso Piemonte non avrebbero portato a termine l’Unità d’Italia. Anche su questo ho scritto
diversi libri, e curato la pubblicazione di quelli di altri autori, arabi e israeliani, che mi
piacerebbe fossero discussi invece di essere ignorati da compagni che poi finiscono per ripetere le
argomentazioni del “buon senso comune” alimentate dai mass media.
Mi sembra poi che si sottovaluti speso l’effetto su una possibile conclusione positiva della
guerra in Iraq (e anche l’effetto di dissuasione nei confronti di chi prepara attacchi ad altri “Stati
canaglia”) del moltiplicarsi dell’insicurezza dei militari USA, britannici e italiani, sotto i
colpi di una guerriglia ancora disorganizzata ma già efficace. Mi dispiace scoprire che molti nostri
dirigenti hanno subito le pressioni del clima di isterismo nazionalista scatenato dopo Nassiriya
partecipando - senza potersi dissociare visibilmente - a varie iniziative discutibili: i funerali
di Stato degli “eroi di Nassiriya” (altra cosa sarebbe stata una visita a tutte le famiglie dei
caduti); le iniziative confederali “contro il terrorismo” a cui partecipavano i due poli...
Ma questa è un’altra questione, che forse non dipende tanto da un’analisi sbagliata della
situazione, quanto dalla decisione di approdare comunque, a ogni costo, a un’intesa politica nazionale con
un centro sinistra che su questo terreno ha dato non solo l’ennesima prova di complicità con il
governo, ma che ha molti suoi esponenti da tempo organicamente legati all’imperialismo italiano.