Home > Potremo conversare con Maurizio Maggiani il 21-02-2004 ore 17 presso la Sala (…)

Potremo conversare con Maurizio Maggiani il 21-02-2004 ore 17 presso la Sala Cambiaso, Salita San Francesco 4 Genova

Publie le lunedì 16 febbraio 2004 par Open-Publishing

ecco alcuni contributi di Maurizio Maggiani, pubblicati dal secolo xix nel
luglio 2001.

Potremo conversare con Maurizio Maggiani Sabato 21 febbraio 2004 ore 17
presso la Sala Cambiaso, Salita San Francesco 4 Genova

"E’ necessario affrontare in un’ottica allargata il tema dei diritti civili
e delle garanzie costituzionali oggi in Italia. Riteniamo che i fatti del
G8 del 2001 vadano inquadrati nell’ambito di una dinamica generale, che
investe l’intera società e che è tuttora in corso.

La "parentesi di democrazia", avvenuta secondo Amnesty International nel
luglio 2001,è l’occasione per una riflessione politica e culturale più ampia.

La tentazione di accettare una progressiva limitazione delle libertà
civili, in nome di un’ipotetica maggiore sicurezza, è un fenomeno in atto
nel nostro come in altri Paesi, specie dopo i fatti dell’11 settembre 2001.

In Italia, in aggiunta, si assiste a ricorrenti ondate autoritarie, che
rischiano di mettere a repentaglio gli spazi di espressione del dissenso e
il pluralismo delle voci."


Ecco perché Genova accoglierà il popolo di Seattle

Se le collette internazionali non saranno abbastanza generose, se
l’organizzazione intercontinentale non funzionerà a dovere, se l’effetto
serra provocherà una sovrabbondanza di maremoti ed uragani, se verrà
sospeso il trattato di Schengen e si barricheranno le frontiere, allora
saranno più o meno centomila. Se no, se le cose andranno meglio, saranno
magari cinquantamila di più, o più ancora; il limite massimo non è dato
sapere. Comunque verranno, questo è poco ma sicuro. A Genova, naturalmente,
in luglio, come è logico, a dire la loro ai Grandi della Terra come hanno
già fatto altrove; a Seattle la prima volta che i media se ne sono accorti.

Non hanno un nome o una sigla che li identifichi, se non un assai generico
Forum mondiale sociale: non si danno pena di etichettare se stessi. Del
resto non sarebbe neppure possibile farlo, visto che non c’entrano niente
con le forme tradizionali di associazione. Tra loro ci sono sindacalisti e
vescovi, ecologisti e pacifisti, contadini senza terra e ragazzi senza
lavoro, volontari di Ong cattoliche e economisti postmarxisti, scrittori di
romanzi e scienziati in odore di Nobel, sindaci e cittadini, militanti
politici agguerriti e sognanti figli dei fiori, neri e gialli, bianchi e
bruni, del sud e del nord, dell’est e dell’ovest.

Sono la Globalizzazione, quella parte della globalizzazione di cui i
governatori dell’economia mondiale si sono dimenticati di informare per
tempo i governi della politica. Che li osservano ingombrare l’orizzonte
delle loro certezze e si chiedono stupiti: cos’è ‘sta marmaglia, questa
inelegante turba che ci viene a scocciare proprio ora che stiamo per
inaugurare il Paese Globale del Bengodi? Non fanno parte del quadro, si
ostinano a non vedere da che parte sta il manico del coltello. Asociali e
criminali contro la storia; in verità non esistono neppure. Invece
esistono, e non potrebbe essere altrimenti. Perché l’idea dominante del
Globo, l’ideologia che ha unificato i governi e omologato il pensiero
politico, e cioè che questo sia il migliore dei mondi possibile e
l’Economia, la sua insindacabile Entità Suprema, fa acqua da tutte le
parti. Da tutte le parti del Globo. E se questo sistema globale fa alcuni
di noi più ricchi, rende assai più povere – materialmente e spiritualmente
– moltitudini di altri uomini. Che, visti da qui, dal cuore di un benessere
incosciente, stanno sullo sfondo, indistinti come ombre. Bestie, più che
uomini, visto che come bestie sono trattati, mentre gli spieghiamo per
benino che le previsioni dei nostri esperti dicono che prima o poi la
nostra ricchezza non mancherà di ricordarsi di loro. Intanto loro si
gustano lo spettacolo della nostra; e di quello spettacolo dovrebbero
saziarsi?

Solo i gonzi possono credere che tutto stia filando liscio come l’olio,
solo gli incoscienti possono pensare davvero che si possa ergere una
muraglia abbastanza alta per difendere il cuore del sistema. La realtà è
che noi ricchi siamo assediati, che è sotto assedio l’ideologia che ci
sostiene e sotto assedio sono le istituzioni politiche e culturali e
religiose che abbiamo creato a difesa dei nostri privilegi. E nella storia
dell’umanità sono ben poche le città che hanno resistito ad un assedio.
Verranno in centomila a Genova a ricordare ai capi di stato e a noi questo
e altro. Appartengono a migliaia di gruppi diversi con molti diversi
pensieri. Quei pensieri difformi sono, in un mondo malamente normalizzato,
un’oggettiva ricchezza. Ma non è necessario essere d’accordo con loro,
certamente non con tutti, per capire che l’errore peggiore che possiamo
fare è di respingerli. Intanto perché non sarà materialmente possibile
farlo, a meno di trasformare una bella e civile città in un accampamento
militare difeso dall’artiglieria. Poi perché è stupido tentarlo.

Davvero pensiamo di doverci difendere con gli autoblindo dal pensiero
difforme, dall’opposizione a ciò che pensiamo sia giusto? E’ questa la
migliore idea di politica che abbiamo a disposizione? Oppure è sensato
accogliere questa gente, ascoltare quello che hanno da dire e trovare il
modo di discuterne? Se fosse possibile sarebbe un’occasione unica. Per la
città, ma anche per i centomila, per la parte migliore di loro. A rischio
di sembrare sciocco, direi cge sarebbe una svolta storica. Ci si
ricorderebbe a lungo di Genova ne l mondo per qualcosa di assai nobile. Per
quanto conosco il movimento posso affermare che la componente violenta o
facinorosa è estremamente minoritaria. A Nizza, ad esempio, non erano più
di centocinquanta quelli che nei media sembravano migliaia, un gruppetto
quelli che sono stati fatti passare per tutti quando si è avuto bisogno di
mettere su lo spettacolo horror che pare assicuri l’audience. Va da sé che
se li accoglieremo armi in pugno anche i più miti tra loro saranno tentati
di ricredersi sulla loro mitezza.

Maurizio Maggiani – IL SECOLO XIX – 12/02/2001


Diario dalla ZONA ROSSA

Io, a passeggio nel vuoto

Zona Rossa mercoledì.

Sono arrivato ieri, notte, con l’ultimo treno. Non l’ultimo della giornata,
l’ultimo della settimana. Ho cercato finché ho potuto di essere
ragionevole, equilibrato, adulto, ma alla fine ho ceduto e ho asceso il
primo gradino della paranoia: l’ultimo treno, come a Yuma, come a
Stalingrado, come a Varsavia. Sto entrando in una città che sta per essere
chiusa. Mi sono specchiata nello sguardo della gente che è scesa con me,
circospetto, impacciato.

Ho fatto il mio ingresso alla città occupata al varco di Piazza Matteotti:
ho consegnato il lasciapassare e documenti al posto di blocco illuminato in
un certo qual modo inquietante. Luci forti e concentrate, ombre lunghe e
dure attorno alla porticina nella barriera.

Carabinieri in tenuta da campagna, stanchi, nervosi, mentre rasente la
bandiera della torre del Ducale un elicottero militare indugia ad esplorare
con la sua fotocellula non so quale budello di vicolo. Tutto questo l’ho
già visto in qualche film, ma io non sono un film, non sto recitando,
nemmeno i carabinieri sono attori. Tutto questo è realtà, compreso il
sospiro di sollievo che esalo quando mi vengono restituiti i documenti. Di
che cosa devo avere timore io, cittadino incensurato, contribuente fedele?
Di nulla, proprio di nulla. Allora perché mi sento sollevato se i tutori
dell’ordine mi lasciano andare a casa a dormire?

Paranoia. Che mi piaccia o no, non riesco ad essere più forte della
situazione, né abbastanza intelligente da saper distinguere l’immagine
dalla sostanza della situazione. Sì, paranoia. Già ieri prima di arrivare
mi sono accorto di esserci cascato. Al telefono. Quando ho censurato
un’amica che mi parlava dei primi disagi. “Belin ci metterei una bomba!” ha
esclamato con la voce dell’innocenza. Quante migliaia di volte ciascuno di
noi ha imprecato a quel modo? Ma questa volta mi sono preoccupato di
spiegarle di stare attenta a parlare. Lei non ha capito, è troppo giovane,
nuota nella democrazia. Io ho qualche ricordo in più di lei. E non solo io.
Ho notato che in questi ultimi giorni parecchie altre persone fanno un uso
assai più distaccato della conversazione telefonica. O forse è solo una mia
impressione. In ogni caso un pessimo segno.

Sono settimane che immaginiamo, disegniamo, pronostichiamo la Zona Rossa.
Ma questa mattina è la realtà. Mi sveglio nel silenzio: non c’è il mercato
sotto casa, non c’è la coda al semaforo. Esco nel vuoto. Vuoto di passi, di
voci, vuoto di bambini ansiosi d’Acquario, vuoto di negozi e di merci,
vuoto di colori. Nel vuoto si muovono uomini in divisa, silenziosi, cauti.
In via Gramsci a passo d’uomo sfila un lungo corteo di idranti.

Per arrivare in De Ferrari devo superare quattro controlli. Al terzo
comincio a familiarizzare con i militari. Battute un po’ meste, auguri,
anche. Scoprirò in seguito che nella gran parte sono gentili e pazienti. So
che ognuno di loro ha ricevuto e ha dovuto leggere un manuale di
comportamento. Evidentemente un buon manuale. Ma due vecchie signore con la
sporta sotto braccio sono in fila davanti a una grata presidiata da uomini
in armi: dove ho già visto questa fotografia?

De Ferrari stupenda e tremenda, perfetta e assolutamente deserta, senza
neppure un passaggio di piccioni. Non la vedrò mai più così per tutta la
mia vita. Comunque lo spero: credo che sia questo l’effetto della bomba al
neutrone. C’è qualche negozio aperto. Entro dappertutto a comprare qualcosa
per solidarietà forse, per simpatia, per non sentirmi l’unico
sopravvissuto. C’è pure una farmacia funzionante e mi controllo la
pressione: perfetta. Il farmacista non si fa pagare.

Alla fine mi perdo nei vicoli nel tentativo di trovare un varco aperto
verso la Zona Gialla. Si è perso con me un tale. Mi si accosta e mi dice in
confidenza: “Visnù è incazzato Dio mio se è incazzato loro non lo sanno
mica quanto si è incazzato Visnù!”.

Maurizio Maggiani – IL SECOLO XIX – 19/07/2001


Diario dalla ZONA ROSSA (2)

Metti una grata tra mamma e figlia

Esco di casa di buon mattino a vedere se riesco a trovare un po’ di
provviste. Naturalmente ho provveduto per tempo alle scorte, ma qualcosa
nell ’organizzazione deve avere fallito., perché mi trovo con dieci
confezioni di prosciutto crudo, diversi chili di frutta sciroppata e
nemmeno un pezzo di pane. Incontro nelle scale il signore del primo piano
che è già di ritorno con un sacchetto di patate. “Bombe!” è il suo saluto
cordiale. “Bombe!”. Sì, ieri è stato il giorno delle bombe. Gli chiedo se
ha paura. “Io?” risponde offeso “Figuriamoci, sono nato in giorno del
bombardamento navale del ’41!”. Io e lui siamo gli unici rimasti nel
palazzo e da quello che vedo probabilmente gli unici di tutto il quartiere
del Molo. In tutta la Zona Rossa ho contato cinque civili. Di tutta
l’enorme macchina organizzativa del G8 forse la cosa che ha funzionato
meglio è stata l’evacuazione spontanea, silenziosa, a gratis, degli
abitanti della Rossa. Un bel po’ di migliaia di persone che sono sparite
nel nulla. L’occupazione è completata. Solo umani militari e mezzi militari
che presidiano il vuoto assoluto. Se questa è l’immagine del G8 se ne può
solo dedurne che gli uomini più potenti del mondo possono solo incontrarsi
nel niente, prigionieri né più né meno del sottoscritto di una gigantesca
rete da pollaio.

Mi chiedo se si sentiranno un poco depressi, mi chiedo se non soffrono
nemmeno un po’ per sentirsi così poco amati quando passeggeranno tra le
saracinesche abbassate, le finestre chiuse.

Mi metto in cerca di un tozzo di pane. Alla barriera di Matteotti, chiusa,
una signora sta parlando con una ragazza di le dalle grate. E’ sua figlia,
una della Zona Gialla: si incontrano lì due volte al giorno per stare
assieme qualche minuto. Da una radiopattuglia giunge notizia di una
bottiglia sospetta in una fioriera a Bolzaneto. Bottiglia sospetta? Cosa
rende sospetta una bottiglia? A San Giorgio due fotografi fanno togliere il
pass e travestono da turiste due giornaliste niente male. Poi cominciano a
scattare le immagini che domani racconteranno al mondo il grande spasso dei
turisti nella città del G8.

E niente pane. In un bar ancora aperto arraffo due cornetti che sono
avanzati dalla colazione della pattuglia posizionata accanto. Esco e mi
casca l’occhio su un carabiniere che si sta infilando dentro un cellulare
con le braccia stracariche di focaccia, buona focaccia genovese. Cristo,
dive è andato a pescarla. Chiedo, non chiedo? Dall’interno del cellulare
una voce autoritaria ordina: “Mi raccomando, non uscite con i ghiaccioli in
mano”. Lascio perdere.

E me ne vado nella Gialla dal varco di Piazza Cavour. Chiedo alla signora
tassista come va. Lei mi chiede se per caso devo scrivere. Dico di no. Non
riferirò quello che esce dalla sua bocca, ma se fossi nei potenti me li
toccherei. Esci pensando di tornare alla vita ma ti ritrovi nello stesso
deserto. Piazza della Vittoria e Corso Buenos Ayres mettono lo sgomento da
tanto che sono silenziosi. Mi metto in cerca di un posto dove mangiare
camminando in mezzo alla strada, senza curarmi dei semafori: fantascienza
pura. Alla fine chiedo a un gruppo di poliziotti se sanno darmi una dritta.
Come no, alla pizzeria Marechiaro. E pranzo con non meno di 200 poliziotti
a fine turno. Non avverto tensione o preoccupazione: è solo gente stanca e
affamata.

E poi, finalmente, trovo segni di vita. C’è della musica e vado dietro alla
musica: è così straordinario sentirla in questo deserto che cammino quasi a
passo di danza. E così mi ritrovo a Sarzano. Non riesco a capire quanta
gente ci sia, ma ne vedo abbastanza per rincuorarmi: da qualche parte
Genova è piena di umani. Ragazzi per lo più e piuttosto allegri. Sono i
primi arrivati del temutissimo popolo vagante che ha costretto i potenti
alle grate. Non so bene cosa pensano al di là dei loro cartelli e di molti
di loro non conosco neppure la lingua che stanno parlando, ma le loro facce
mi piacciono.

Scroscia un enorme applauso: dalle finestre di un bel palazzo una signora
ha steso una lunga fila di mutande multicolori. Quel genere di arredo
urbano che sarebbe bene evitare per rispetto a Lui e rispetto agli altri
Sette.

Scendendo scopro che tutti i varchi sono stati chiusi, la Zona Rossa è
stata completamente isolata; casa mia è momentaneamente esclusa dal diritto
di uso e proprietà. Mi siedo su una barriera antisommossa, prendo un
volantino che mi è stato dato da un volontario della pace israeliano, e sul
retro comincio a scrivere il mio diario.

Maurizio Maggiani – IL SECOLO XIX – 20/07/2001


Diario dalla ZONA ROSSA (3)

Di qua i potenti difesi di là tutti gli altri

Zona Morta, venerdì.

Scrivo e so già che c’è un ragazzo morto. Posso in coscienza fare il mio
raccontino come se questa fosse l’ultima delle cose che ho visto? No, quel
ragazzo è l’intera giornata, tutto il G8, tutta la realtà, l’unica realtà
definitiva. Rileggo gli appunti che ho preso, ma non vanno da nessuna
parte, hanno perso senso e ragione. E’ morto un ragazzo e tutto quello che
so di lui è cha ha un buco in testa, forse ha 20 anni e forse è spagnolo.
E’ un ragazzo in maglietta riverso su del sangue che è suo. Adesso tutto il
resto non conta o conta soltanto perché porta lì, a quell’immagine. Allora
mi sta bene ricordare che la prima cosa che ho visto questa mattina sono
stati i fiori e le ghirlande appese alle grate della barriera di salita
Pollaioli.

E ricordare pure che la prima cosa che ho pensato è stata: questa non è più
la Zona Rossa, questa è la Zona Morta. Stamane è sparito anche il minimo
segno della città vivente, della città civile eccezion fatta per i fiori,
per qualche lenzuolo appeso alle finestre dei grandi palazzi patrizi e una
vecchietta, desolata vagabonda appresso al suo cane.

Non c’era la signora a parlare con la figlia attraverso la grata alla
barriera e questo è stato lì il peggior segnale.

Non avrei voluto restare e me ne sarei andato, andato nella città di fuori,
se solo mi avessero assicurato che sarei potuto tornare. Ma oggi la Zona è
chiusa, mi è stato detto: o di qua o di là. Agghiacciante, precisa
descrizione dello stato delle cose: oggi c’è un di qua per i potenti, gli
addetti ai potenti e gli addetti all’informazione sui potenti e un di là
per tutti gli altri. “De qua dottò sta al sicuro, de là stanno già comincià
le rogne”.

Di là dalle grate, oltre le muraglie di blindati container, c’è la città,
la città della gente, di tutta la gente che è rimasta e che è venuta, che
alle dieci di mattina sbircia in lontananza verso levante il primo fumo,
proprio mentre sopra il ponte Monumentale planano leggeri e discreti, uno
appresso all’altro, gli aerei degli ospiti attesi.

Se valesse ancora la pena di fare gli spiritosi potrei constatare un grande
successo dei movimenti antiglobal: via Venti questa mattina è già piena di
merda. Non c’è stato uno sfondamento notturno né un bombardamento all’alba
della componente ludica del movimento: sono i cavalli, gli enormi cavalli
da guerra della polizia che non hanno saputo tenersela.

Faccio il giro dei varchi. Per tutto il giorno altro non farò che
percorrere il perimetro di ferro della zona, come si vede negli zoo fare a
tutti gli animali, feroci o mansueti che siano. Con me fanno il giro
giornalisti e fotografi di mezzo mondo, spaesati, ignoranti di cosa sia un
sampietrino, del significato recondito della pioggia di aglio.

Al varco di via Casaregis quelli di là della rete tirano appunto un bel po’
di teste d’aglio e tre sampietrini, di qua sparano fiumi d’acqua e due o
tre lacrimogeni. Roba da poco, screzi. Bruno Vespa oggi fa il reporter di
strada armato di una mezza cipolla, rimedio principe contro i pessimi
effetti del gas lacrimogeno. Chissà se è un personale ricordo o il buon
lavoro della sua redazione.

Ma in piazza Dante non sono screzi, non proprio. Chi ha un po’ di
esperienza di manifestazioni dovrebbe sapere che quelli di là non
sfonderanno, non potranno e non vorranno. Eppure quelli là usano una
durezza che è fatta per scaldare e non raffreddare. E come se non bastasse
il puro e semplice fatto che la barriera non verrà sfondata, ma si volesse
difendere il principio che non lo si deve fare. Ho visto punire con idranti
e lacrimogeni tentativi simbolici, non assalti. Ho visto in piazza Dante
caricare alle spalle il corteo che sta sfollando. “Aho, come scappano”,
commenta soddisfatto il capoposto. Congratulazioni tenente.

Non un graffio di qua, niente più pericoloso di un po’ di aglio. La Grande
Muraglia neppure vibra sotto il colpi di quelli di là.

Di là dove per tutto il giorno, mentre sfilavano decine di migliaia di
pacifici, una banda di duecento o trecento idioti criminali,
autoconvocatisi vendicatori del mondo offeso, metteva a ferro e fuoco la
città, guardati a vista da ciò che rimaneva dei difensori dei potenti di
qua. Guardati. Finché non è stato il momento buono per chiamare il morto. E
il ragazzo è venuto.

Maurizio Maggiani – IL SECOLO XIX – 21/07/2001


Diario dalla ZONA ROSSA (4)

Quello che sfascia tutto e poi telefona a papà

Zona Nera.

Mi sono svegliato nell’azzurro, la tramontana è una delle grandi bellezze
di questa città, un’ulteriore risorsa di Genova, e questa mattina è tutto
così limpido e fresco, tutto così pulito, che parrebbe di essere rinati in
una città vergine. Non è certo l’aria e il giorno per restare nella Zona
Morta. Sono salito a Castelletto per rifarmi la bocca, affacciato al
belvedere dell’ascensore contemplo la cittadella dei potenti assieme ai
pensionati della spianata che stanno lì a scrollare la testa come se laggiù
si fosse posato un ufo.

Un signore in frescolana passa con il cagnetto al guinzaglio e una fascetta
nera al braccio, perché la tramontana ha pulito quasi tutto ma non la morte
e questa città ha un ragazzo morto nel suo cuore. Io oggi andrò alla
manifestazione del Global Forum. Voglio onorare l’azzurro e il lindore con
la professione pacifica delle mie idee, perché dopo aver vissuto nella
cittadella fianco a fianco con l’uomo che sorride dicendo al mondo “scudo
spaziale e mercato globale sconfiggeranno la povertà e la malattia” almeno
oggi voglio starmene abbastanza distante da potergli bisbigliare “amico, tu
sei pazzo”. Voglio andarci perché si aggiunga un pacifico agli altri,
perché ce ne sia uno di più fra quelli che, a mani nude e aperte, dovranno
vincere una durissima guerra perché la tragedia di ieri non si ripeta.

E ci sono andato. Ci stavo bene tra quella gente, e sembrava che tutto
fosse bellissimo, che davvero la tramontana avesse ridato verginità a tutto
quanto.

Poi sono arrivati i Neri e dietro i Neri la polizia, il fumo e il fuoco, e
l’azzurro si spegne e tutto quanto si spegne. Ci sono solo io che prendo la
mia ragazza per mano e non so cosa fare.

So solo correre e non so dove, perché non sono qui per scappare. Cerco di
stare assieme ai pacifici, nuoto nel gas a mani alzate assieme ai ragazzini
con la faccia dipinta con l’arcobaleno che si sta sfacendo nelle lacrime.
La polizia ci passa sopra. Perché? I Neri sono di là e nella nuvola si
muovono come padroni.

Poi corro e basta.

A un passo dalla nuvola una ragazza urla al suo cellulare con il guscio
rosa: “Papà, qualunque cosa succeda io ti voglio bene”. E piange, piange,
piange. Corro e non so dove andare. Dieci metri e urli e sirene. E in un
inverosimile punto di calma lì in mezzo, un Nero, passamontagna nero,
telefona anche lui. “Papà qui è tutto a posto, sta tranquillo”. Non ci
credo, ma la mia ragazza mi dice che è vero.

Poi un portone, una signora con la chiave in mano: “entrate, entrate”. E il
resto della mia giornata di libera espressione del pensiero sui gradini di
un atrio di condominio popolare, assieme ad altri dispersi come me,
affranti, furenti, incapaci di capire perché. Perché i Neri sono padroni,
perché gli indifesi sono invece i gasati, i bastonati, quelli che hanno
come giusto destino quello di essere sconfitti. O no, forse siamo solo
degli affranti che non sanno più ragionare.

Un inquilino – che strano palazzo di solidali questo – scende per dirci se
vogliamo andare a casa sua a bere un po’ d’acqua, magari un gabinetto.
Saliamo. Alla tivù guardo un pezzo di Genova disfarsi e urlare.

Uno stacco e guardo i potenti che si stanno amabilmente chiedendo se varrà
la pena di mettersi d’accordo su qualcosa, qualcosa pur di chiudere bottega
in gloria. E mi chiedo se è davvero possibile che quelli che stanno
spiegandomi che è un buon affare spendere 300 miliardi di dollari perché
hanno imparato a beccare dieci missili sparsi per tutto l’universo in un
colpo solo di laser, non sappiano mettere le mani su 300 delinquenti in
dieci chilometri quadrati. A meno che tirare sul mucchio non sia una politica.

Maurizio Maggiani – IL SECOLO XIX – 22/07/2001


Forse è Cartagine ma non Santiago

Via del Molo, quinto piano sottotetto, le quattro del pomeriggio di
venerdì. Macaja, scimmia di luce e di follia: foschia, pesci, Africa,
sonno, nausea e fantasia. Figuriamoci se, dall’abisso di aria stagnante e
gocciante della prima macaja dell’anno, non sono d’accordo con il primo
ministro Silvio Berlusconi: è solo per capriccio colpevole del bolscevismo
risorgimentale che Genova è stata inopinatamente aggregata alla stessa
nazione che ha per immeritata capitale la regale città di Arcore. Qui siamo
duemila chilometri morali, estetici e climatici più giù, allo stesso
parallelo di Giza, Cartagine, Casablanca. Non abbiamo ragione di
lamentarcene; Giza ha avuto Cheope, Cartagine Annibale, Casablanca Humphrey
Bogart, e con tutto il rispetto che è dovuto alla corona, Arcore, al
momento, ha avuto soltanto Berlusconi. I genovesi non devono sentirsi
offesi ed umiliati dai giudizi del loro primo ministro sulla loro città.
Con un candore che va rispettato – lo si rispetta nei bambini, non c’è
ragione di non farlo con gli adulti – egli si lascia andare anche nei
consessi più alti alla libera espressione dei suoi semplici giudizi e dei
suoi gusti casalinghi. Se nella dura concretezza del business egli ha
dimostrato di essere rotto a tutte le scaltrezze del caso, negli aerei
cieli della politica mondiale egli è un innocente, un giocondo, un
semplice. Genova non gli piace non perché sia una fogna, ma semplicemente
perché non è adatta come casa sua, luogo a lui sicuramente più familiare,
all’ospitalità delle “otto teste coronate del mondo”. E lo ha riferito al
parlamento come sentiva suo dovere di fare. Non fosse stato parlamentare lo
avrebbe subito riferito a sua moglie e ai suoi amici del cuore. Fosse stato
davvero re, e solo per distrazione elettorale dei sudditi così non è, lo
avrebbe riferito al consiglio della corona.

Genova del resto è solo un piccolo passaggio del candido discorso del primo
ministro all’alto consesso del Senato della Repubblica. Egli ha voluto
confermare che il più grande risultato del G8 genovese sta nel “miracolo”
per cui finalmente americani, russi e giapponesi hanno potuto parlarsi e
sorridersi dopo tante guerre. Primo capoverso del discorso, così come è
disponibile agli atti parlamentari.

Immagino la sua meraviglia e ne gioisco per lui. Nella sua semplicità non
ha mai potuto credere che 6 (sei) presidenti americani hanno intrattenuto
fitti e cordialissimi colloqui con il Gotha del bolscevismo sovietico mese
dopo mese per cinquant’anni. E più avevano da contendere, più i loro
colloqui erano frequenti e fruttuosi, visto che non ’atomica ha funestato
la lunga guerra fredda, ma l’Urss ha goduto per tutto quel tempo della
clausola di nazione favorita negli scambi commerciali degli Usa.

Né nella sua virginale innocenza egli ha mai potuto credere che la
Costituzione grazie alla quale c’era un primo ministro giapponese a
sorridere nella africana città di Genova, è stata scritta dal Generale Mac
Arthur durante il suo scarso, tempo libero. E da lì in poi giapponesi e
americani si sono sorrisi tutti i giorni che Iddio ha mandato in terra.
Avessero smesso di farlo anche per un solo attimo le economie dei due paesi
sarebbero crollate all’unisono come un mazzo di carte fasullo.

Alla fine del suo discorso (ultimo capoverso) il candido si è chiesto se
davvero ne valeva la pena di questo G8 nella scomoda Genova. Si è detto sì
“perché i giovani di tutto il mondo potranno trarne grandi speranze per un
futuro di pace e di benessere”. L’immacolato ha distolto lo sguardo con
orrore da Punta Vagno, dalla Diaz, da Bolzaneto, dove le pacifiche
aspettative dei giovani del mondo venivano più che duramente frustrate
dalla violenza eversiva e da quella istituzionale. E non erano aspettative
precisamente indirizzate dove volgevano lo sguardo le teste coronate.

Nel mezzo del discorso è stato ricco di nuove e accorate intenzioni di
equità e di universale fratellanza. Non vale la pena di giudicare le
intenzioni, è più onesto attendere le prove fattuali. Che non devono
tardare, vista la gravità dello stato delle cose. Allora vedremo come è
andato davvero il G8 che si è tenuto in questa città, dove del G8 tutto è
finito, tranne che le sue ferite, ferite a sangue.

Ma non possiamo sentirci delusi dal nostro candido primo ministro. Egli è
fatto appunto così, che parla alla nazione e al mondo con lo stesso cuore
con cui parla agli spettatori delle sue reti televisive, ai clienti delle
sue imprese, ai fornitori delle sue domestiche esigenze. Se mai, dovrebbe
turbarci maggiormente il discorso del suo massimo oppositore, il deputato
D’Alema, che non è candido, non è vergine e nemmeno un semplice, per sua
stessa autodefinizione.

Egli ha riferito di una “deriva cilena” a commento e giudizio di quelli che
oggi sono i “fatti di Genova”. Conosco questi fatti e la loro gravità. Io
c’ero nel corteo dei pacifici, li ho presi i lacrimogeni dei poliziotti e
le spranghe dei black bloc. Avrei potuto essere alla Diaz se solo avessi
avuto la forza fisica di andarci. Ma non ho mai pensato di essere altri
4000 chilometri più in giù di Giza e Casablanca, a Santiago del Cile. Se
così fosse stato, se lo avessi pensato, non sarei tornato a casa. Avrei
preso la strada dei monti e della clandestinità, come è giusto e legittimo
attendersi da un democratico alle avvisaglie di un colpo di stato fascista.
E mi chiedo come mai il deputato D’Alema, così in vista, così esposto nella
sua posizione di leader, abbia corso il rischio di recarsi in Parlamento.
Ho dubbi e sospetti su quello che è accaduto e potrà accadere. Ma la natura
del pericolo non è cilena, è tutta di specificità italiana.

Maurizio Maggiani – IL SECOLO XIX - 29/07/2001