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Quella levatrice da abbandonare

Publie le mercoledì 4 febbraio 2004 par Open-Publishing

La violenza come «levatrice della storia» doveva servire a farla finita con
gli orrori e liberare i lavoratori dal capitalismo. Ma poi ha prodotto solo
disastri e oggi è tutta interna alle logiche di guerra. Per questo la
sinistra avrebbe bisogno di una vera rivoluzione culturale. Assumendo
esplicitamente l’orizzonte pacifista
Etica politica Segnare una distanza dall’esistente con una pratica di pace
è il presupposto per non essere complici del capitalismo

Alla sinistra servirebbe una vera rivoluzione culturale, niente di meno. Lo
penso e lo scrivo da più di venticinque anni, e mi sono stufato, ma
l’invito del Manifesto a intervenire sulle proposte di reindirizzare quel
che rimane della tradizione comunista verso un pacifismo conseguente, nei
mezzi che sceglie, ai fini che propone, mi sollecita a riprendere il
discorso. Ingrao centra il suo intervento sul ruolo che l’orizzonte
possibile della violenza armata, come strappo decisivo per fuoriuscire dal
capitalismo, ha avuto nella storia del movimento comunista. E chiama
giustamente all’autocritica, anche per mettere a fuoco obiettivi e metodi
di una politica alternativa al dominio del capitalismo globale e alla
dottrina della guerra preventiva come metodo per governarne le crisi.
Proporrei di andare più a fondo nella questione della violenza come
«levatrice della storia»: la levatrice doveva affrettare il parto e rendere
meno dolorose e pericolose le doglie (ai tempi di Marx le morti delle donne
per parto erano, si sa, frequentissime). C’è la fretta di finirla con
l’orrore, in quella speranza nella violenza terapeutica: la politica doveva
servire a togliere di mezzo l’oppressione degli stati nazionali che
impedivano ai proletari di tutto il mondo di unirsi. Non era uno slogan
quello dell’unità internazionale, era invece, in Marx, la conseguenza di
una delle sue analisi più penetranti: nell’ultimo paragrafo della prima
parte del Manifesto del partito comunista aveva scritto che «il lavoro
salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza dei lavoratori fra loro».

E’ questa la frase che occorrerebbe rimeditare a lungo, pensandone le
conseguenze possibili, oggi, fuori dalla fretta di uscire dall’orrore, che
si è rivelata - macchiando, anche se non annullando, grandiose e
indimenticabili conquiste di civiltà - orrore su orrore, soprattutto nel
movimento comunista. La violenza politica non ha prodotto, alla lunga,
nessun superamento del capitalismo, da nessuna parte (anche perché non si
può superarlo se non «in tutto il mondo», altrimenti la concorrenza dei
lavoratori fra loro ricostituisce subito il fondamento del lavoro
salariato, cioè il rapporto di capitale). E non si può giustificare quella
violenza con la resistenza a mali ancor più funesti, come mi sembra possa
conseguire dal rifiuto orgoglioso di Tronti al «pentimento»: si può
pensarla nel versante di lotta democratica e anticoloniale come interna
alle trasformazioni della civiltà della accumulazione economica, si deve
abbandonarla, nel versante interno ai paesi cosiddetti socialisti e ai
partiti comunisti, come prova di una pratica politica oppressiva e
corruttrice. Ma oltre che in quanto levatrice, cioè mezzo di risparmio di
tempo del dolore collettivo, la violenza è stata giustificata come
strumento delle avanguardie per annullare i mezzi di consenso più potenti
in mano alla classe dominante e alla sua cultura.

Insomma come una sorta di
cordone sanitario per vaccinare la ancora debole coscienza di classe delle
masse, per dal loro il tempo - di nuovo questa ossessione non casuale,
anche se i comunardi ce l’avevano con gli orologi ! - di maturare. La
coscienza di diritto dell’intellettuale collettivo, il partito, che tiene a
balia la coscienza di fatto della classe.

Questa convinzione, a sua volta, poggia sul postulato materialista che la
coscienza è creata dalle condizioni storico-sociali dalle quali viene
forgiata. E dalla postilla decisiva, e giacobina, che le avanguardie devono
affrettare la creazione di tali condizioni. Senza discutere questa vetusta,
ma seria convinzione, mi limito a invitare a riflettere che tutto questo
iperrealismo, materialista o politicista, ha portato comunque a risultato
meno che zero dal punto di vista del superamento del capitalismo. Meno che
zero perché col comunismo ha perso credibilità ogni alternativa globale di
superamento del capitalismo: anche quella dei movimenti è per ora timorosa
di esporre una sua strategia non solo anticapitalistica, ma
dell’oltrecapitalismo. Persino la ricerca intellettuale, la più economica
su questi terreni da visionari, difetta. Di fronte alla disfatta e, quel
che più conta, di fronte al capitalismo globale che sta mettendo in
soffitta ogni regolazione politico-economica, tanto da spaventare i
capitalisti più lucidi e più seri, non è realisticamente in campo nessuna
alternativa mondiale di sistema, perché di questo si trattava, da Marx in
poi.

Non solo per la spaventosa, siderale distanza nei rapporti di forza,
ma perché la costruzione di una coscienza mondiale in grado di abolire la
concorrenza fra i lavoratori (fra i popoli, i sessi, le generazioni, gli
individui) non può crescere in pochi anni così in profondità da candidarsi
a un diverso governo del mondo. E’ dura, ma è così, ed è sempre troppo
tardi rimandare questa presa di coscienza.

Sotto sotto è proprio questo confinamento nell’utopia a far tralasciare il
pensiero e il discorso della «rivoluzione». Si finisce a fare discorsi
etici, non politici, secondo molti. E l’etica è inutile, scrive ancora
Tronti, per i compiti dell’oggi, e su questo, preso dal «che fare», anche
Ingrao pare concordare. Non è forse tempo di riconsiderare, invece, questa
pretesa di verità? Se la fretta di creare le condizioni materiali per una
coscienza di classe internazionale liberatoria non ha sortito che disastri
e sconfitte, se oggi insieme ai militanti di sinistra sfilano religiosi di
ogni confessione, non si può pensare che esista una relativa autonomia
dell’etica e dello spirito (o della posizione culturale) dalle condizioni
storico-sociali, ed è proprio in questo spazio che può coltivarsi e
affinarsi la prospettiva politica e la qualità umana che prepari
l’attraversamento del capitalismo verso un patto planetario di equilibrio e
di pace che promuova l’autorealizzazione solidale di tutti con tutti
(questo è il modo con il quale ribattezzo l’ideale comunista)? Una specie
di rivisitazione del socialismo utopistico, etico e religioso, si dirà. E
perché no ?

Perché non ricorrere, in tempi così miseri e aspri per il
progetto di liberazione, a tutte le risorse? E se non si impara a lavorare
su di sé, sullo stile di vita delle relazioni, innanzitutto all’interno del
nostro campo, sarà mai possibile intravvedere nei nostri mezzi l’annuncio
dei nostri fini? E’ questa una linea di pace seria e profonda, che pratica
la pace invece di predicarla soltanto agli altri, esponendosi con ciò al
legittimo sospetto che si tratti di mera tattica politica. In realtà
bisogna abbandonare radicalmente l’idea di fare, anche simbolicamente, la
guerra alla guerra, si tratta di superare la politica che è «contro»: anche
Bush siamo noi, ricordava già durante la prima guerra del golfo a proposito
di Bush padre, quel geniale maestro buddhista che è Thich Nhat Hahn
(pacifista durante la guerra in Vietnam, candidato al Nobel, partecipante
ai negoziati di Parigi sul Vietnam e ancora costretto all’esilio dal
governo vietnamita, e soprattutto: amorevole terapeuta dei reduci
americani, oltre che vietnamiti, della guerra di allora). Profumi d’incenso
d’anima bella? Perché no? Forse l’incenso brucia più finemente delle
scintille delle armi le scorie di quella concorrenza di tutti fra tutti che
è la radice dell’oppressione universale, che è la vera radice del potere di
Bush e del consenso popolare in tutto il mondo a tutti i predicatori di
guerre giuste e ingiuste.

In definitiva pensare a fondo quella frase di
Marx, che in forma sintetica è la chiave teorica anche de Il Capitale, vuol
dire andare oltre Marx, muovere verso l’orizzonte che ricongiunge la sua
aspirazione alla nostra, pur se per strade diverse: proprio perché la
radice del dominio cosale e impersonale del capitale è la reciproca,
universale concorrenza fra gli uomini, il suo superamento significa niente
di meno che una profondissima trasformazione del sentire e del pensare
degli uomini, secondo lo stesso spirito dei grandi profeti
dell’universalismo pacifico, da Buddha a Gesù di Nazareth. Finché saremo
servi della nostra egoità e di Mammona saremo anche compartecipi concause
del permanere della civiltà capitalistica. Per concludere: con ciò, si
dirà, non si fa più politica, ma cultura, etica, filosofia, religione. E
perché non potrebbe nascere una simile politica? Ma nell’immediato?
L’immediato più immediato siamo noi stessi, per prima cosa; seconda cosa,
una chiara, tenace, indefettibile posizione, capace di questa finalità, non
ha più bisogno di trovare surrogati rivoluzionari nella massimizzazione
degli interessi immediati, anzi, può tranquillamente e coerentemente
coniugarsi con le alleanze più ampie possibili per ciò che è qui ed ora
conseguibile: una rivoluzione culturale vera non ha paura, anzi può
ritenere corrispondente alla coscienza media collettiva reale, un’alleanza
che va dai capitalisti più avveduti circa i rischi della deregulation - per
intenderci, la linea di George Soros - fino ai democratici, ai
socialdemocratici e ai movimenti.

Un esempio? Nella politica internazionale
odierna, se si ha in mente l’obiettivo di trasformazione di civiltà,
l’avvicinamento dei popoli europei e le forme istituzionali della loro
unità dovrebbero essere il primo punto in agenda. Non c’è in vista altra
forza credibile per moderare gli effetti del capitalismo selvaggio e del
monopolio Usa della politica internazionale.

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