Home > RITORNO DA BAGDAD LA TESTIMONIANZA
Sin dall’attentato contro l’edificio delle Nazioni Unite in agosto, mi sono
sentito sempre più coinvolto nella questione irachena. Poiché avevo reso note le
mie posizioni scettiche prima del nostro impegno militare, in una lettera
autofinanziata al presidente sul Washington Post (18 ottobre 2002) e poi avevo
ripetuto quei pensieri dopo la nostra invasione dell’Iraq in un altro annuncio a
pagamento sul New York Times (30 maggio 2003), ho sentito la responsabilità di
mutare o confermare la mia posizione, nel contesto della nuova situazione
creatasi per i nostri soldati come anche per i civili iracheni. Ci fermiamo a
Utafiya, dove notiamo un gruppo di soldati americani di guardia a un impianto
fognario in riparazione. Ci avviciniamo a piedi mentre una scuola vicina apre le
porte per l’intervallo di pranzo e centinaia di bambini si avvicinano ai
soldati.
Il comandante dell’unità è il tenente colonnello Mark Coats. La condotta di
Coats è sicura e attenta. Acconsente alla mia richiesta di fotografare i soldati
mentre interagiscono con i bambini. Non è questione di politica qui, e il calore
di questi soldati verso i bambini è genuino. Ho l’impressione che simili eventi
qui accadano quotidianamente, e non solo quando ci sono giornalisti presenti. I
bambini sono eccitati alla vista dei soldati, ma quando la strada si fa troppo
affollata auguro ai soldati un buon lavoro e passiamo oltre.
Più avanti lungo la strada, incontriamo una pattuglia di fanteria americana
sulla Haifa Street. Mentre molte delle regole di ingaggio e delle tattiche di
attacco delle forze della coalizione risultano odiose alla popolazione locale, i
soldati comuni che incontro si comportano con dignità e gentilezza nel loro
rapporto quotidiano con gli iracheni.
Oggi i soldati americani non sono quelli che ci si immagina se si è cresciuti
guardando film sulla seconda guerra mondiale. Pensateli più giovani.
Adesso aggiungete i brufoli (per alcuni di loro).
E l’accesso all’email.
Questa non è la guerra del passato, con i parenti che salutano i nostri ragazzi
sulle navi e perdono ogni contatto a parte una lettera alla settimana. Questi
sono giovani che, via Internet, sono riportati ogni giorno al comfort e alla
sicurezza di casa e sono veloci a esprimere il loro desiderio di tornare alle
loro famiglie. Chiedo a molti di loro i sentimenti riguardo la nostra
occupazione in Iraq, e molti esprimono pensieri a questo riguardo senza essere
interrogati. E i loro pensieri rappresentano tutti i lati del dibattito. Ma
bisogna ricordarsi che questi sono giovani che hanno perso amici in battaglia, e
che hanno fidanzati, fidanzate, mogli e mariti a distanza. Non ci si deve
aspettare che si pieghino facilmente al concetto che forse gli Stati Uniti non
avrebbero proprio dovuti mandarli lì
La torre delle comunicazioni a Bagdad, o quello che è rimasto di essa, è sotto
la sorveglianza dei soldati dei nuovi Corpi di Difesa Civile irachena. Questo è
l’esercito recentemente addestrato che, dal mio ritorno, ha sofferto un esodo di
400 soldati su 700, i quali lamentavano che i 60 dollari al mese pagati loro
dall’autorità d’occupazione non erano sufficienti.
In effetti, veniva loro
richiesto di rischiare la vita al servizio di un esercito di occupazione per una
paga mensile che, a Bagdad, serve a comprare l’equivalente di una notte all’
Holiday Inn. Non avendo molto altro da fare, queste guardie mi negano il
permesso di fotografare l’edificio colpito. Se fossi andato indietro di pochi
metri dietro un angolo, avrei avuto ampia opportunità di fotografare. Ma non l’
ho fatto. Dopo tutto, avrei violato la loro unica reale autorità.
Per gli iracheni, non c’era un movimento pro-guerra o anti-guerra la scorsa
primavera, quando gli Stati Uniti hanno invaso il loro Paese. Quello, ai loro
occhi, era un dibattito soprattutto occidentale. Sono abituati alla guerra; sono
abituati alle fucilate. La cosa nuova è questo piccolo seme e sapore di libertà.
E’ un’esperienza avvincente essere stati a Bagdad solo un anno fa, quando non un
solo iracheno mi aveva espresso opinioni non allineate col partito di regime, e
solo un anno dopo, trovare che tanti esprimono le loro opinioni e tante opinioni
sono in competizione fra loro.
Laddove il dibattito è simile a quello negli
Stati Uniti è sul modo in cui la condotta di guerra amministrerà l’opportunità
di pace e libertà, e la ragionevole aspettativa di un autogoverno iracheno.
Questo è un Paese occupato. Un Paese in guerra. Molti iracheni con i quali parlo
mi dicono che non c’è libertà sotto l’occupazione, né fiducia in un intervento
unilaterale. Tutti riconoscono che il movimento insurrezionale cresce ogni
giorno in uomini e in forza organizzativa. Gli insorti sono composti da lealisti
di Saddam, élite sunnita, vittime dei raid Usa, fedayin, cellule terroriste
straniere e naturalmente molti soldati di Saddam, che, come membri del regime
baathista, sono stati mandati a casa con le loro armi. Gli iracheni con i quali
parlo dicono che la politica americana di de-Baathificazione manca di
considerazione verso gli obiettivi a lungo termine, verso la natura umana e la
cultura araba e così potrebbe far esplodere una polveriera.
La libertà irachena fiorirà o conoscerà una nuova stagnazione? Certo, in ogni
periodo di transizione il sostegno alla sicurezza da parte di altre nazioni è
necessario.
Tuttavia, per le strade dell’Iraq, qualunque cosa io osservi, il
sospetto è alto. «Il vostro governo è venuto a liberare la gente da Saddam», mi
chiede un uomo, «o a liberare il petrolio dalla gente?».
Il senso di alienazione nutrito dalla guerra non si ferma agli eserciti, ma
continua con le multinazionali e la privatizzazione che dominano e danno forma
alla cultura e alla partecipazione economica che la libertà potrebbe esprimere
altrimenti. Un uomo mi dice che «se gli Stati Uniti falliscono nella loro
promessa di dare libertà al popolo iracheno, possiamo ben creare un’intera
nazione di attentatori suicidi».
Stiamo guidando lungo una delle principali arterie che attraversano Bagdad. Dopo
circa dieci minuti, sul lato opposto della strada, vedo un’unità militare
americana che lancia un raid contro un edificio di appartamenti. Lo registro con
la videocamera mentre passiamo accanto. Li riprendo con lo zoom attraverso il
finestrino posteriore mentre abbattono a calci le porte e resto fisso sulla
scena finché le immagini diventano troppo piccole per essere utili. Sto per
spegnere la videocamera quando avverto una forte luce sulla mia spalla destra.
Mantenendo la videocamera sull’occhio inquadro sei soldati iracheni armati
accanto a una postazione fortificata. Uno degli uomini armati grida qualcosa in
arabo verso di me e punta il fucile verso la videocamera. Improvvisamente siamo
bloccati nel traffico.
Spengo la videocamera e la lascio cadere ai miei piedi mentre fucili e voci si
levano e si muovono verso di noi. Veniamo circondati e tenuti sotto tiro da sei
guardie che ci tirano fuori dal taxi. Ci sono molte grida e il mio autista è
spaventato. Siamo spinti fuori dalla zona illuminata della strada e adesso, in
piedi in un vicolo scuro di Bagdad, braccia e gambe allargate, sono circondato
da sei iracheni in giubbotti di pelle, i loro kalashnikov puntati su di me.
Ecco cosa mi viene in mente: «Caro Phil Bronstein (il direttore del San
Francisco Chronicle , ndr. ), ti prego di accettare le mie formali dimissioni
dal giornalismo. Sono informato che Giorgio Armani sta mandando un nuovo abito
di lino alla mia casa in California e vorrei fornirgli un corpo il più intatto
possibile, in quanto il vestito è su misura. ps: Mi mancano le costolette di
agnello».
Invece di spiegare questo in arabo, non parlo, aspetto il comandante di questa
milizia ancora non identificata. Quando arriva, vengo perquisito. Non è la
perquisizione casuale di dilettanti, ma piuttosto di persone convinte che
troveranno un’arma. E alla fine il comandante parla. Parla in inglese,
controllando il passaporto e le credenziali che ha sfilato dalla mia tasca.
Parla in buon inglese. Quest’uomo non è iracheno. Ma non riesco a identificare
il suo accento. Forse sudafricano.
Quindi viene raggiunto da un altro uomo vestito in quella che chiamerei tenuta
militarizzata della Cia: stivali militari con pantaloni mimetici infilati
dentro, maglietta civile con una targa di identificazione su una lunga catena
attorno al collo che non si riesce a leggere nel buio. Questo qui parla texano.
Mi vengono chiesti i perché e i percome della mia presenza e della videocamera.
Chiedo con innocente curiosità con chi ho a che fare.
Il texano mi informa stringato: «Lavoro per la DynCorp».
Chiedo un biglietto da visita.
Altrettanto stringato, dice: «Non ho un biglietto», poi indica la targhetta
allacciata al collo, «solo questo identificativo». Da allora ho fatto un po’ di
ricerche, e questo è ciò che ho trovato: la DynCorp è una presenza incombente a
Bagdad. Società militare privata, la DynCorp venne creata alla fine degli anni
40 e ricevette una grande spinta di reclutamento dopo il licenziamento di
migliaia di operativi della Cia da parte del presidente Carter alla fine degli
anni 70.
Le società militari private, e ce ne sono molte, tendono ad essere composte e
dirette da generali in pensione, funzionari della Cia, professionisti dell’
antiterrorismo, gente delle forze speciali e così via. Le forze della DynCorp
sono mercenarie. I loro contratti hanno incluso azioni segrete per conto della
Cia in Colombia, Perù, Kosovo, Albania e Afghanistan.
Nel 1999, la compagnia contava 25 mila impiegati. Personale della DynCorp, sotto
contratto per la polizia delle Nazioni Unite in Bosnia, venne accusato di
traffico di prostitute, incluse bambine di dodici anni. Quando diversi impiegati
della DynCorp vennero anche accusati di aver videoregistrato lo stupro di una
delle donne, l’impiegata Kathy Bolkovac lanciò l’allarme e venne immediatamente
licenziata dalla compagnia.
La DynCorp è uno dei primi 25 appaltatori del
governo americano, con proventi per 2,3 miliardi di dollari nel 2002. Sono
impiegati della DynCorp che forniscono il servizio di sicurezza per il
presidente afghano Hamid Karzai. L’ex direttore della Cia James Woolsey è uno
dei principali azionisti.
Ci dirigiamo attraverso il parcheggio verso la nostra macchina, quando BAM! Un
colpo di fucile a circa 70 metri. E’ come essere colpiti su un orecchio con una
tavola. Ali mi chiede se sono infastidito dai costanti spari a Bagdad. Rispondo
«no, se non lo sei tu». Ma noto che i miei passi si affrettano mentre ci
avviciniamo alla macchina.
E’ l’ora di punta in una zona di guerra. Ci sono spari, azioni militari, pale di
elicotteri che ruotano e richiami alla preghiera. Tutte queste facce nel
traffico, che mi guardano, un occidentale. Facce sospettose. O forse sono io che
sono sospettoso?
Attraversato il ponte sul fiume Tigri, faccio scendere Ali su un viale vicino a
casa sua. Ci facciamo una foto assieme e prometto di mandargli una copia. Mi
scrive un indirizzo email su Hotmail. Hotmail.com? Questo mondo sta diventando
troppo piccolo per la guerra.
Esco davanti all’hotel per fumare una sigaretta. Ed eccoli qui, un’altra unità
di uomini di una società militare privata che lucidano i loro fucili, vestiti di
giubbotti antiproiettile mentre scaldano i motori dei loro veicoli blindati.
Dall’hotel esce il loro cliente. Anche lui ha una catenella attorno al collo con
una targhetta d’identificazione, mi vede e dice «Hey, non sei...?».
«Sì», dico. «La tua targhetta dice appaltatore. Cosa costruisci?».
E con un sorriso, dice: «Elezioni».
«Come fai?»
Sogghigna un po’ e dice: «In qualunque modo».
(Che questo tizio venga dalla Florida?)
San Francisco Chronicle