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Riconoscere gli errori di ieri per non sbagliare oggi
Publie le lunedì 26 gennaio 2004 par Open-PublishingNel corso del dibattito sulla nonviolenza diversi compagni hanno tirato in
ballo l’esperienza zapatista per sostenere tesi diverse, e contrapposte fra
loro. Intanto è necessario ricordare che l’insurrezione armata zapatista
del 1 gennaio 74 (accompagnata da una vera e propria dichiarazione di
guerra) fu alquanto sanguinosa. Il negoziato politico fu permesso da una
tregua (tuttora formalmente in corso) e non da una dichiarazione di pace
con conseguente disarmo dell’EZLN (che è tuttora armato). Come si possa
scrivere nel documento che convoca il prossimo convegno di Venezia sulla
nonviolenza che "con lo zapatismo si concretizza una dislocazione
dell’opzione nonviolenta su un terreno generale e politico" non so proprio.
In realtà i guerriglieri dell’EZLN si sono caratterizzati per una spietata
critica dell’organizzazione militare, per il rifiuto della mistica
rivoluzionaria (tanto cara ai cubani).
Da qui viene un loro fondamentale contributo a cancellare l’idea
(rivelatasi perniciosa con l’esperienza storica) che la lotta armata fosse
la forma più alta e radicale di rivoluzione. Essi, come altri che non hanno
avuto tanto acume critico sulla natura dell’organizzazione militare e le
cui proposte di negoziato politico sono state travolte dalla guerra e dalla
repressione (Colombia e Kurdistan per fare solo due esempi), preferiscono
un processo di pace alla guerra, ma sono costretti a contemplare la guerra
come una inevitabile eventuale necessità.
Dico queste cose, essendo io stesso meravigliato di dover fare queste
precisazioni che dovrebbero essere scontate, perché mi pare che il
dibattito sulla nonviolenza abbia in molti casi preso una piega
"ideologica" che non mi piace, per il semplice motivo che rischia di
promuovere un’adesione, o un rifiuto, acritici a "valori" e "principi"
astratti più che una necessaria critica dura e spietata dell’idea della
violenza e del potere che il movimento operaio, fattosi stato o meno, hanno
avuto storicamente.
Al contrario di Curzi e Gagliardi, che nel loro articolo del 18 gennaio
dicono "c’è stata un’epoca della nostra storia nella quale la violenza
delle armi ci è apparsa non solo una risposta necessaria alla violenza del
potere, ma anche la risposta più radicale, più in se rivoluzionaria, più
efficace… Non si tratta certo oggi di proiettare su questo passato le idee
che abbiamo maturato nel presente…" io penso che, invece, proprio quella
concezione della violenza vada rinnegata alla luce delle "idee maturate
oggi". E non perché è cambiata la fase e siamo nell’epoca della guerra
permanente e della spirale che la oppone al terrorismo. Bensì per il
semplice motivo che in tutto il nostro passato il necessario, ed
ineludibile, uso delle armi è stato accompagnato da quella concezione
nefasta della violenza e del potere. Un’idea mutuata dall’avversario che ha
finito con il trasformare molte esperienze rivoluzionarie in sistemi
oppressivi. A sentire Curzi e Gagliardi avevano ragione allora e ragione
oggi. Troppo comodo. Insomma, penso sia assolutamente giusto dichiararsi
nonviolenti e proporre un’idea di politica, di democrazia e di relazioni
sociali improntate alla nonviolenza rompendo radicalmente con il proprio
passato, con la mistica rivoluzionaria e con l’idolatria dello stato.
Ma penso sarebbe un madornale errore di presunzione eurocentrica e di
idealismo acritico pensare che nel mondo ogni resistenza armata necessaria
debba essere annoverata ed ineluttabilmente risucchiata nella spirale
guerra terrorismo. Gli zapatisti insegnano. Ma il tema della violenza è
intimamente legato al tema del potere. Tema troppo vasto per le mie modeste
capacità, anche se qualcosa voglio dire. Anche su questo sono stati tirati
in ballo gli zapatisti. Giustamente, visto che hanno solennemente
proclamato di non voler prendere il potere in nome del popolo e con le
armi, visto che rifiutano categoricamente di voler agire come
un’avanguardia. Chi li critica accusandoli di eludere il tema, a mio avviso
si sbaglia di grosso. Essi hanno proposto nel negoziato modificazioni
costituzionali e legislative che potrebbero profondamente trasformare lo
Stato messicano, aprendo le porte ad una democratizzazione integrale della
società e delle istituzioni e sollecitando un rivoluzionamento delle
relazioni sociali dal basso. Per non parlare della consapevolezza del tema
della globalizzazione e della effettiva dislocazione dei poteri reali in
ambito sovra nazionale.
La scelta di promuovere l’autogoverno delle comunità indigene applicando la
legge concordata col governo e tradita dal parlamento come se fosse in
vigore, la scelta di mantenere in vita l’Esercito per difendere questa
esperienza da eventuali repressioni violente ma assegnandogli un ruolo
secondo rispetto agli istituti dell’autogoverno, la scelta di dichiarare
chiusa ogni possibilità di dialogo con i partiti e con le istituzioni
messicane, sono tentativi di riproporre la lotta nella fase attuale e di
innescare un processo più vasto nella società messicana, che porti ad una
rivolta e che consolidi i rapporti con tutte le altre esperienze di lotta
contro il neoliberismo nel mondo. Penso che anche qui l’EZLN insegni. Non
come insegna un modello. Bensì per i problemi che affronta e per la
direzione del cammino. Considero caricature coloro che pensano di essere
zapatisti in Italia perché capaci di imitarne il linguaggio salvo poi
sentirsi ed agire come avanguardie ossessionate dall’idea ultraborghese di
"visibilità" sui mass media.
Se del 4 ottobre bisogna parlare se ne parli per questo più che per l’uso
dei caschi che in diverse altre occasioni si sono rivelati utilissimi per
difendere le teste in azioni nonviolente. Ma, per favore, non si metta la
sordina alla sacrosanta critica a tanti capi, capetti e leaderini che nel
movimento, e nel nostro partito, pensano ed agiscono in funzione della
"visibilità" propria personale o di gruppetto o di corrente. Sono
altrettanto nocivi per l’unità del movimento e per la sua credibilità di
certi scriteriati comportamenti in piazza. E sarebbe bene non trovassero
premi, magari in occasione di qualche elezione prossima ventura. Già!
Perché non basta proclamare l’erroneità della concezione del potere che il
movimento operaio ha avuto per decenni, non basta dirsi antistalinisti, per
mettersi al riparo dagli errori tossici che sono sotto gli occhi di tutti
quelli che hanno occhi per vederli.
Alludo al politicismo che pervade le relazioni del PRC e anche di molti del
movimento con il centro sinistra e allo stato interno del nostro partito
dove correnti, trasformismi e competizioni personalistiche hanno la meglio
sulla democrazia interna. Quanta violenza è insita, anche se non praticata
fisicamente, nelle relazioni interne al movimento e nel partito fra gruppi
e persone che giocano a "farsi fuori", a "distruggersi", ad "eliminarsi"?
Quanto stalinismo c’è in chi è sempre immancabilmente d’accordo con il
segretario del partito, e che non esita a "fare la guerra" a chi osa avere
posizioni personali diverse e critiche mentre scende a qualsiasi
compromesso con le correnti organizzate nella pura logica di una piccola
spartizione di un piccolo potere?
A parte gli opportunismi, i cinismi e i trasformismi personali, che ci
sono, è evidente che la concezione del partito e delle relazioni interne ad
un soggetto rivoluzionario sono figlie di una storia e di una concezione
del potere che ha fatto fallimento. I difetti di ognuno di noi esistono ed
esisteranno, parlo di presunzioni, di personalismi, di ambizioni e di
istinti prevaricatori. Sarebbe catastrofico affrontarli moralisticamente, e
tuttavia bisognerebbe fare in modo che l’organizzazione (vale per il
partito come per una qualsiasi associazione o sindacato) non li premi e non
li renda efficaci nella conquista di posizioni privilegiate. Io penso, non
da ora, che sarebbe necessaria una vera riforma del partito fondata sulla
preminenza del collettivo e sulla assoluta delimitazione e fissazione delle
responsabilità personali. Ho visto crescere questa esperienza nei Giovani
Comunisti dai quali ho imparato moltissimo. Ho visto e vedo nel partito un
processo inverso.