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Roma si illumina di speranza. In 150mila al Colosseo per i bambini di Beslan
Publie le martedì 7 settembre 2004 par Open-Publishing
di Enrico Fierro
Gente, persone, umanità. Romani. In migliaia. Centocinquantamila, e tutti con
in mano una fiaccola e gli occhi umidi di lacrime. Molti con i loro figli. Creature
bianche, nere, mulatte, bionde, volti dai tratti andini: è la Roma delle mille
razze che scende in piazza per i bambini di Beslan . Migliaia di fiammelle illuminano
i Fori Imperiali mentre il riverbero di altre fiaccole e candele rende spettacolare
la discesa del Campidoglio. Sono in tanti, ma si odono a stento bisbigli accompagnati
dalle musiche dolci di Ravel, Brahms e Schumann. Sì, ha ragione la vecchia signora
venuta fin dall’Alberone: «Quei pupi straziati laggiù sono tutti figli nostri.
Povere creature...». Ed ha ragione Walter Veltroni, quando dice che «la nostra solidarietà varcherà i confini, percorrerà migliaia di chilometri per arrivare fin lì, tra le macerie di quella scuola di una piccola città, di quel piccolo stato della Federazione russa».
Perché Roma ha risposto non solo partecipando una calda sera di settembre ad una immensa fiaccolata, ma anche intasando i centralini del Comune. Il Campidoglio ha lanciato l’appello ad ospitare i bambini di Beslan, quelli che hanno spalancato gli occhi di fronte all’orrore e alla morte, e loro, i romani (cinici, distratti, concentrati sul loro particolare: così li dipinge una certa Italia distratta e razzista) hanno telefonato. In tanti. Chi può e chi ha meno: tutti si sono detti pronti a spalancare le loro porte e ad apparecchiare le loro tavole.
Si muove alle sette e mezzo della sera, il corteo, quando sulla piazza del Campidoglio sono già in tanti, ma tantissimi sono giù, ai piedi della scalinata, e altri ancora sono lungo i Fori Imperiali. Si muove quando dal suo ufficio esce il sindaco Veltroni, accanto a sé monsignor Luigi Moretti, vescovo vicario della Capitale, l’imam della moschea Mahmoud Ahmed Shewmita, il rabbino capo Riccardo di Segni e un rappresentante della Chiesa ortodossa. Tutti hanno un loro Dio, sono uomini di fede e di pace, le loro mani si toccano e si sovrappongono, incontrano quelle del primo cittadino. Si stringono. Cameramen e fotografi fissano per sempre l’immagine. «Spero - dice un giovane prete ortodosso che sta tra la folla - che queste foto le possano vedere in Iraq, in Israele, in Cecenia, in Kosovo: dovunque ci sono uomini che pretendono di uccidere altri uomini in nome di Dio». Lo speriamo anche noi. E lo sperano anche i bambini che aprono il corteo.
Alcuni hanno visto le immagini della strage degli innocenti di Beslan trasmesse dai tiggì, altri no, ma tutti sanno che dei bambini come loro sono morti uccisi dalla follia dell’uomo. I bambini sono, insieme ai politici presenti, l’oggetto del desiderio di tv, fotografi e giornalisti. E’ la sindrome di «Bellissima», che però non tocca i genitori, che respingono telecamere e microfoni, quasi a voler tutelare i loro piccoli. «I bambini sono qui per riflettere, per toccare con mano il significato della parola solidarietà, ma anche per esorcizzare le immagini dell’orrore». Parola di un padre.
Ritrovarsi dopo l’orrore, sentirsi in tanti, e in tanti dire (così c’è scritto sull’unico striscione) che «non uccideranno il nostro futuro»: è il significato di questa particolare serata romana. Non ci sono bandiere (qualcuna arcobaleno), né simboli di partito, non ci sono divisioni, ma «esseri umani», dirà più tardi Veltroni. Ci sono personaggi politici di destra e di sinistra. Tutti parlano poco. Perché c’è poco da dire. Parlano le persone con il loro mutismo e le le loro fiaccole accese.
Luci che illuminano il Colosseo come se fosse giorno. Non c’è spazio per tutta quella gente e allora in molti salgono sulle collinette che circondano il monumento simbolo di Roma, e la scena di quelle fiammelle che si muovono insieme alle mani che le reggono è unica. «Non è la prima volta che camminiamo in silenzio, fianco a fianco, alzando le nostre fiaccole a rompere il buio che vorrebbe prendersi anche le nostre anime. Ma stavolta è più dura».
Walter Veltroni dal palco coglie lo spirito della moltitudine che affolla il Colosseo. «Stavolta è più dura, perché le immagini della scuola di Beslan ci trasmettono la loro violenza assoluta, il senso di una spaventosa novità: hanno sparato ai bambini, li hanno fatti esplodere, li hanno massacrati, li hanno usati e poi uccisi come merce senza più valore». La folla è ammutolita. «Questa volta è più dura perché è stato infranto un tabù, uno di quelli su cui si reggono tutte le società umane, tutte le culture: quello secondo il quale c’è un’età dell’uomo i cui la sua intangibilità è assoluta, una sorta di garanzia biologica della sopravvivenza della specie». La gente ascolta, applaude, chi ha figli li stringe a sé.
Poi parla Domenico Fisichella, che è sul palco insieme al prefetto Achille Serra, a Publio Fiori, a Tajani e alla ministra Stefania Prestigiacomo («qui a titolo personale», chiarisce). Fisichella è vicepresidente del Senato, è un filosofo e parla del terrore, «perversione dello spirito». Si dilunga e qualcuno si spazientisce e fischia. Lui arriva fino in fondo e lascia lo spazio all’ultima immagine: di nuovo i religiosi si stringono la mano, perché - dice Veltroni - «sta al loro magistero denunciare l’infame bestemmia di chi pretende di uccidere nel nome di Dio».
La fiaccolata è finita. Vanno via anche i rappresentanti della politica. Piero Fassino, in camicia bianca di lino, è visibilmente toccato: «Non ci arrenderemo alla barbarie in cui il terrorismo vuole far precipitare il mondo». Fausto Bertinotti è presente «come militante pacifista che pensa che per fermare il terrorismo bisogna fermare la guerra». In questa piazza, dice Stefania Prestigiacomo, ministra di Forza Italia, «c’è una Italia unita da valori inalienabili». Intanto le fiaccole non si spengono, la gente va via, ma le fiammelle continueranno ad illuminare il Colosseo per tutta la notte.
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